La ridotta dell'Onu
Il clima, l’aborto, i cliché del politicamente corretto: com’è cambiata l’agenda del Gran Carrozzone nato per garantire la pace nel mondo. Il Palazzo di vetro restaurato è pronto a ospitare l’Assemblea generale (delegati di 196 paesi), messa cantata dell’organizzazione.
La sala dell’Assemblea generale dell’Onu è tirata a lucido, pronta ad accogliere con gli onori del caso le delegazioni dei 196 paesi che si radunano a New York per l’annuale funzione bizantina, la messa cantata della liturgia sopranazionale. Il servizio stampa delle Nazioni Unite ci informa che, insieme a tutto il resto, l’enorme pannello dorato su cui è impresso il simbolo della fratellanza universale è stato restaurato dopo aver “subito per decenni il fumo di sigari e sigarette”: l’Onu guarda impotente il mondo in fiamme, ma intanto la battaglia contro il fumo è vinta. Ci sono voluti sette anni per rinnovare il Palazzo di vetro e tutto il complesso sull’East River. Ora finalmente i grigiori residuali degli anni Sessanta e le seggiole in similpelle color petrolio sono stati rimpiazzati con complementi d’arredo concepiti nel decennio corrente, gli spazi sono stati ridisegnati, le sale rifatte, i corridoi che – complice forse la nicotina – trasudavano vecchiume e inefficienza ora trasmettono quel senso di serafica operosità che tendeva a perdersi fra una sessione e l’altra, fra l’auspicio commendevole di un leader e le gravissime preoccupazioni del funzionario, in quella zona franca del mondo dove sono tutti sottosegretari con delega a qualcosa. Ci saranno oltre 140 capi di stato e di governo, 193 delegazioni di paesi membri più tre osservatori – Santa Sede, Palestina e la rappresentanza dell’Unione europea – duemila giornalisti accreditati, quattromila rappresentanti di 900 organizzazioni non governative provenienti da 110 paesi, tutti felicemente stipati nella casa sfolgorante dell’organizzazione più nobile che esista.
La circostanza dell’Assemblea generale è impreziosita da una sessione del Consiglio di sicurezza sul terrorismo guidata dagli Stati Uniti e dalla conferenza sui cambiamenti climatici voluta con pervicacia dal segretario generale, Ban Ki-moon, senza contare l’abbuffata di incontri bilaterali, strapuntini, cocktail benefici, conferenze a margine, iniziative ad alto coefficiente umanitario. Gli ospiti più ragguardevoli prenderanno parte anche alla Clinton Global Initiative, l’evento della fondazione Clinton che da dieci anni contende all’Assemblea generale la palma di evento portante del settembre filantropico newyorchese. Quest’anno lo spettro degli ospiti dell’ex presidente americano va da Shimon Peres a Eva Longoria.
Lo splendore del contenitore onusiano non fa però che sottolineare la pochezza del contenuto. La frammentazione dell’ordine globale in un coacervo di conflitti freddi caldi o tiepidi ha esposto, una volta ancora, l’inadeguatezza delle istituzioni sopranazionali votate al mantenimento della pace e alla risoluzione dei conflitti. Gli stati nazionali e le identità ideologico-religiose sono il traino dell’ingovernabilità globale, e il carrozzone internazionale dell’Onu ha strumenti spuntati che può applicare soltanto parzialmente, di solito in ritardo. Le dichiarazioni forti sono sempre non vincolanti, il sistema di veti rende sostanzialmente inservibile l’unico organo con qualche potere coercitivo, il Consiglio di sicurezza, il fiume di impegni formali e discussioni multilaterali si perde in varie forme di irrilevanza. Nulla di tutto ciò è nuovo, ma di fronte al tetro spettacolo della terza guerra mondiale spezzettata (copyright Francesco) l’inanità onusiana risalta più del solito.
Di fronte al massacro in Siria, all’avanzata dello Stato islamico, alla crisi ucraina, alle dispute nei mari cinesi, alle armi chimiche, ai traffici umani, alla tragedia del Sahel, alla ricostruzione del tessuto sociale somalo o alle invasioni barbariche l’Onu esprime invariabilmente “grave preoccupazione”. Sull’aggressività della Russia di Vladimir Putin l’unico documento prodotto dalle Nazioni Unite è una dichiarazione non vincolante dell’Assemblea generale firmata da cento paesi che invita a non riconoscere formalmente l’annessione della Crimea. Sullo Stato islamico il Consiglio di sicurezza ha approvato la risoluzione 2.170, che condanna “le violazioni dei diritti umani” commesse dal Califfato – e da Jabhat al Nusra, il capitolo siriano di al Qaida – e intima ai paesi membri di fermare il flusso di militanti e di denaro verso il gruppo. Inoltre, aggiunge 6 (sei) persone alla lista dei terroristi internazionali. Non si fa menzione delle persecuzioni dei cristiani e di altre minoranze, e accuratamente si evita di qualificare il gruppo come espressione del fondamentalismo di matrice islamica. L’unico riferimento all’islam incluso nel documento recita: “Lo Stato islamico e altri gruppi non hanno connessioni con l’islam o con le tradizioni della regione”. Firmato Bashar Ja’afari, ambasciatore della Siria presso l’Onu.
[**Video_box_2**]Rileggere il primo punto del primo articolo del primo capitolo della Carta delle Nazioni Unite – quello che riassume gli scopi fondamentali dell’organizzazione – mostra quanto il caravanserraglio burocratico di oggi si sia allontanato dal linguaggio fattivo delle origini. Scopo primario dell’Onu è “mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, e in conformità ai princìpi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare a una violazione della pace”. L’entusiasmo dei portatori di pace e armonia universale, se necessario con le armi, si è perso con la generazione a cavallo della fine della Guerra fredda, con i suoi entusiasmi clintoniani e le visioni neohegeliane di una storia finita, conclusa, bisognosa soltanto di operazioni transnazionali di peacekeeping per approdare al destino dell’ordine liberale. Nel Novecento finalmente libero dal male della tirannide l’Onu era ancora il custode del sogno di una nuova civiltà, e dispiegava i suoi mezzi – spesso in modo maldestro: la saga dei peacekeeper onusiani è associata più a belluine pratiche belliche che alla pace – per raggiungere lo scopo. Nella disillusione odierna del nuovo ordine mondiale sgretolato non c’è traccia non soltanto dei sogni di un’umanità redenta, ma nemmeno delle “efficaci misure collettive” per “reprimere gli atti di aggressione”. Ci sono lettere, auspici, comunicazioni, proteste, risoluzioni, memorandum, carteggi, protocolli d’intesa, prese di posizione e altre espressioni di quel vuoto burocratico che è stato rappresentato in forma sontuosamente comica nel dialogo fra la parodia di Hans Blix e Kim Jong Il nel film “Team America”. “Mostrami l’intero palazzo, altrimenti…” intima il rappresentante dell’Onu. “Altrimenti cosa?”, risponde il dittatore. “Altrimenti ci arrabbieremo moltissimo, e ti scriveremo una lettera in cui ti diciamo quanto siamo arrabbiati”.
Con l’elenco delle brutture e delle parodie dell’Onu e delle sue infinite commissioni si potrebbe andare avanti per mesi senza ripetersi. Basta ricordare qui che El Salvador, il Guatemala, e l’Honduras sono membri autorevoli della commissione per i Rifugiati pur essendo i paesi all’origine della crisi che ha portato decine di migliaia di minorenni a varcare il confine meridionale degli Stati Uniti quest’anno. Coerente con l’orientamento ideologico dei membri della commissione, l’Alto commissario per i rifugiati ha proposto una risoluzione che prevede di concedere lo status di rifugiati a praticamente tutti gli immigrati dell’America centrale, sulla base del fatto che scappano “da un ambiente segnato dalla criminalità organizzata e da altri problemi”, ha spiegato il portavoce della commissione. I paesi che non sono segnati dalla criminalità e da “altri problemi” alzino la mano. Ci sono le follie in purezza, tipo la rotazione della Corea del nord nella commissione per il Controllo degli armamenti e quelle appena meno appariscenti, tipo la composizione della commissione per i Diritti umani, dove spiccano Cina, Russia e Arabia Saudita. In un sussulto di decenza, la domanda del Sudan è stata respinta.
Il contributo più significativo delle Nazioni Unite all’offensiva a trazione americana contro il Califfato, portata dalla più infida e recalcitrante coalizione internazionale messa in piedi nel recente passato, capitanata per giunta da un commander in chief riluttante, deriva da una svista, una dimenticanza formale. C’è un dibattito piuttosto acceso fra i giuristi sulla legalità dell’intervento americano contro lo Stato islamico; la Casa Bianca non spiega se la base giuridica per l’operazione sia da cercare nella Costituzione o nella legge, approvata nell’ottobre del 2001, che autorizza l’uso della forza militare contro al Qaida, i suoi affiliati e chiunque abbia partecipato all’attacco al World Trade Center. Lo Stato islamico non è più legato ad al Qaida, osservano i più puntigliosi, anzi è in competizione feroce con il network di cui una volta ha fatto parte e dal quale è stato cacciato a forza. La lista dei gruppi terroristici dell’Onu però vengono aggiornate con una certa lentezza e la risoluzione 1.267, quella che designa la lista dei gruppi del terrore, ancora elenca lo Stato islamico con la vecchia dicitura di al Qaida in Iraq. La risoluzione 2.170 parla dello Stato islamico come di “una scheggia di al Qaida”, ed è così che gli avvocati della Casa Bianca possono approfittare della lentezza onusiana per togliersi un impiccio legale: ecco, lo Stato islamico è nella sostanza una branca di al Qaida, lo dice anche l’Onu.
Lo dice l’Onu, lo vuole l’Onu, ce lo chiede l’Onu, come sostiene l’Onu, ha l’appoggio dell’Onu. Al confronto con le prescrizioni onusiane, i diktat dell’Unione europea sono tagliole vincolanti che possono far stramazzare al suolo governi nazionali e far precipitare nell’abisso intere economie. Gli editti del Palazzo di vetro sono un lieve refolo di vento sopranazionale, presentati con il tono da “momento storico” e il senso di legittimazione che deriva dall’essere dalla parte giusta della storia: “In questo tempo di turbolenze, le prossime due settimane sottolineeranno ancora di più il ruolo indispensabile delle Nazioni Unite nel contrastare le minacce globali e sfruttare le opportunità per un progresso comune”, ha detto Ban Ki-moon all’apertura dei lavori.
[**Video_box_2**]E ancora: “Il prossimo anno dev’essere l’anno dell’azione. Il tempo dei risultati. Abbiamo molte sfide davanti a noi e alte aspettative di pace, sviluppo e sfide sui diritti umani. Iniziamo a fare sul serio questo mese affrontando la minaccia esistenziale dei cambiamenti climatici, e manifestando insieme per la salute delle donne e delle ragazze, affrontando l’ebola e le maggiori questioni di sicurezza che affliggono il nostro mondo”. Il segretario generale prenderà parte anche alla manifestazione contro i cambiamenti climatici del fine settimana dove sono attese almeno 100 mila persone, e per sottolineare la massima importanza di questa “minaccia esistenziale” ha nominato Leonardo DiCaprio ambasciatore del clima. Anzi, non ambasciatore ma “messaggero di pace”, dicitura tipicamente onusiana all’incrocio fra la saggezza orientale e un raduno di liberi muratori. L’attore non ha avuto difficoltà ad adeguarsi al registro apocalittico: “Sento l’obbligo morale di far sentire la mia voce in questo momento cruciale della storia umana: questo è il momento di agire. Come risponderemo alla crisi climatica dei prossimi anni determinerà il destino dell’umanità e del pianeta”. L’obbligo morale, il momento cruciale, il destino dell’umanità.
Sembra un raduno di raeliani, invece è l’Onu. A che serve un carrozzone di tale inefficacia, ci si può legittimamente domandare? Non a tamponare le ferite geopolitiche – questo è certo – ma a plasmare la mentalità dominante con una costante produzione di diritti sempre nuovi, ché ormai anche il vecchio filone dei diritti riproduttivi va esaurendosi. A promuovere la salute delle donne, altro eufemismo onusiano; a denunciare il Vaticano non soltanto con l’accusa di essere composto nella sua quasi totalità da preti pedofili, ma anche di praticare torture psicologiche contro le donne che vogliono abortire. I cliché del politicamente corretto, dai diritti dei transgender alle fecondazioni patchwork, vengono ripetuti così tanto nei corridoi dell’Onu, vengono riscritti così tante volte nei documenti, nelle risoluzioni, nelle proposte, vengono amplificati con tale foga dalle ong che fanno lobbying al palazzo di vetro da finire prima o poi per influenzare il vasto mare del pensiero mainstream. In questo lavoro linguistico-culturale l’Onu è efficacissimo e paziente, agisce con l’imperturbabile costanza della goccia che scava la pietra. Dal grande calderone burocratico l’Onu riesce a estrarre un’agenda politica chiarissima su vita (inizio e fine), famiglia, diritti, organizzazione della società, presenza della religione nella sfera pubblica, ma non è in grado di mandare in Liberia un contingente di peacekeeper con un minimo di preparazione medica. I 6.000 uomini mandati a combattere la “World War E” per conto dell’Onu hanno un’idea appena abbozzata di cosa sia l’ebola.
Non è del tutto senza scopo, dunque, questo leviatano della burocrazia che al solo apparire fa arrossire qualunque idea di casta. Nelle 64 sezioni dell’Onu, sparse in tre sedi principali, lavorano 225 mila civili; i caschi blu sono oltre 82 mila, al momento assegnati in 15 missioni in giro per il mondo. Il sistema Onu costa al contribuente globale – e in particolar modo a quello americano – circa 7,5 miliardi di dollari l’anno, e molte delle risorse sono finalizzate all’organizzazione di queste due settimane così decisive che non sarà facile, una volta smaltita l’emozione, ricordarsi esattamente cosa s’è decretato. Se chiedete a Leonardo DiCaprio dirà che sono soldi spesi bene.
Il Foglio sportivo - in corpore sano