Ornella Vanoni e Gino Paoli

Musica per anni Ottanta

Giovanni Choukhadarian

Leonard Cohen, Gino Paoli, Ornella Vanoni. Gemelli di un 1934 baciato dalla musa e dagli amori. “Il piccolo ebreo / che ha letto la Bibbia / che ha visto le nazioni crescere e cadere / ho ascoltato le storie, le ho ascoltate tutte”. “Senza fine”, composta nel 1961 per la  Vanoni: “Ero in una saletta della Ricordi e suonavo il piano. Arriva Ornella…”.

Dev’essere, anzi è senz’altro andata così. Fra il 21 e il 23 settembre del 1934, cioè ottant’anni fa giusti, Erato, musa della poesia lirica, e Calliope, musa della musica, si dànno appuntamento e generano tre quasi gemelli. Il primo nasce a Montreal, in Canada, nel ricco quartiere di Westmount, e si chiama Leonard Cohen (21 settembre, attorno alle 6,45 del mattino). La seconda a Milano, vicino a Sant’Ambrogio, anche lei di mattino presto: è Ornella Vanoni. Il terzo nasce il 23, a Monfalcone, nella casa dei nonni materni, alle 4,30 del pomeriggio: il suo cognome è Paoli, Gino Paoli. Sono tutti e tre della Vergine, anche se Paoli, per lo zodiaco, sarebbe Bilancia. Nemmeno a parlarne: secondo la Vanoni, Gino Paoli “testardo com’è, dice d’essere Bilancia, e non gli si fa cambiare idea”.Vergine o Bilancia, difficile trovare tre gemelli tanto diversi l’uno dall’altro.
Cohen nasce ricco ma, all’età di 10 anni, perde il padre. Dopo la morte, il futuro poeta e cantante scuce un papillon dei molti che il padre morto indossava, scrive qualcosa su un bigliettino per infilarlo nel papillon, che poi sotterra nel giardino di casa.

 

Dirà molti anni dopo: “Forse, tutto quel che ho fatto nella mia vita è stato cercare quel bigliettino”. E gli innumerevoli biografi hanno strologato sull’Edipo troncato in radice, sulla necessità di maestri e altre corbellerie. Leonard Cohen sfugge a tutto ciò. E’, con sua felice autodefinizione, “il piccolo ebreo / che ha letto la Bibbia / che ha visto le nazioni crescere e cadere / ho ascoltato le storie, le ho ascoltate tutte” (in “The future”, canzone capitale del 1992) Lo si è rimproverato sovente per la sua ambiguità. Non gli è mai mancata la risposta: “Non ho mai creduto molto alla formula di tesi, antitesi e sintesi. A me pare, piuttosto, che da ogni contraddizione nasca un’altra contraddizione”. Una volta, nemmeno troppi anni fa, gli chiedono che pensi di “Suzanne”, una fra le sue canzoni più celebri, nota anche in Italia per una buona traduzione di Fabrizio De André. Cohen sorride e risponde: “Mah, è un bel po’ che non l’ascolto. Suzanne era una ragazza con cui, al tempo, si ballava insieme, mica nient’altro. Poi, come succede, ci si è persi di vista. Dovessi dire, quella canzone è come un vino buono: diciamo un Château la Tour del 1982”. Cioè un Bordeaux fra i più pregiati al mondo, e di un’annata strepitosa. In fatto, Cohen è noto al mondo non soltanto come autore di canzoni memorabili, cantate con voce roca di fumo e alcol, ma anche come favoloso amatore di donne. La ragione è in quattro versi di Federico Garcia Lorca, che il gran canadese legge a quindici anni: “Sotto l’arco di Elvira / voglio vederti passare / per sentire le tue cosce / e mettermi a piangere”. Era il 1949, Leonard Cohen era un dubbioso studente a Montreal. Qualche anno dopo, sull’isola greca di Hydra, scrive “So long, Marianne”.

 

Eccone la storia: “Ero a Londra, con i soldi di un lascito di mia nonna paterna. Vidi che c’era questa casa in vendita, in un’isola greca, per 1.500 sterline. Un affare. La comperai e andai a Hydra, portando con me una Olivetti Lettera, che avevo pagato 40 sterline. A Hydra eravamo in pochi: c’erano Onassis, Jacqueline Kennedy, la principessa Margherita d’Inghilterra e, appunto, Marianne Ihlen, con suo marito e il figlio Axel. Marianne era giovane e bellissima. Quando il marito lasciò Marianne, io ero in Canada. Le mandai un telegramma con su scritto: sono qui, aspetto una signora e suo figlio. Si diventò amici e amanti per tutti i 60s”. Negli anni Settanta, si lega a Suzanne Elrod: “La conobbi in un ascensore, a Manhattan. Lei scendeva e io salivo, o viceversa. Uno sguardo d’intesa, e lei venne a vivere da me. Siamo andati d’accordo per tanti anni” Suzanne precisa: “È vero, s’è andati d’accordo. Non ci siamo mai sposati perché lui diceva d’essere terrorizzato all’idea. Una cosa mi dava fastidio: continuava a chiamarmi Marianne”. Gli anni Ottanta sono segnati dalla liaison con Dominique Issermann, fotografa francese nota anche per avere scattato alcuni fra i più celebri nudi di Carla Bruni, non ancora M.me Sarkozy. A Issermann, Cohen dedica l’intero long playing “I’m your man” (1988), la cui canzone eponima è fra le più alte dichiarazioni d’amore in musica del secolo passato. Negli anni Novanta si lega d’affettuosa amicizia a Rebecca De Mornay, già fidanzata di Tom Cruise, che gli produce l’album “The future”. Di lei Cohen dice: “Quando la incontrai la prima volta, ogni genere d’idea mi passò per la testa. Come poteva essere diversamente, di fronte a un viso così bello, con tanta luce?”. L’ultima compagna è Anjani Thomas, cantante di ottima presenza e anch’ella, come le sue antecedenti, molto più giovane di lui. Qualche sconsiderato glielo ha fatto notare e Leonard Cohen, impassibile, ha risposto con una pericope dal Vangelo di Giovanni: “Io non ho mai mentito sulla mia età perché, sta scritto, la verità vi renderà liberi”. Martedì 23 settembre, Leonard Cohen pubblica il suo nuovo album, intitolato “Popular problems”: a un primo ascolto, sembra di notevole qualità.

 

Anche Gino Paoli è, da sempre, un homme qui aimait les femmes; e anche Gino Paoli, per amore di ragazze insopportabilmente belle, ha scritto canzoni che si suonano e si cantano da più di cinquant’anni. La più nota è, forse, “Senza fine”, composta nel 1961 per la gemella Ornella Vanoni: “Ero in una saletta della Ricordi e suonavo il piano. Arriva Ornella, che aveva un appuntamento con Nanni Ricordi. Apre la porta e domanda: me la scrivi una canzone? E va da Ricordi. Torna una mezz’ora dopo, per salutarmi, e le dico: guarda che la canzone l’ho scritta. In realtà, avevo soltanto la musica. Per le parole, ci volle qualche mese. Alla fine, la presento a Mariano Rapetti, il padre di Mogol, che lavorava da Ricordi. Lui l’ascolta e fa: ma Gino, adesso va il rock ’n’ roll e tu mi porti un valzer? Qualche anno dopo, mi manda un foglio con un elenco di 385 versioni di ‘Senza fine’ e, in fondo, una nota: sono di più, ma mi sono stancato di scriverle”. ‘Senza fine’ piaceva addirittura a Frank Sinatra che, avendola ascoltata, la dedicò a Mia Farrow, dichiarando che quella sarebbe stata la canzone del loro amore. E l’avrebbe anche incisa, se non avesse lasciato Mia Farrow. La canzone passò così a Dean Martin e, come narrano i biografi, da allora Paoli odia profondamente Martin buonanima. Ai biografi, come s’usa, non bisogna credere troppo. A dispetto del tratto severo, imbronciato, riottoso, Gino Paoli non nasconde un animo tenero: ha resistito persino a un’intervista lunga una pagina con Aldo Cazzullo. Prima di quella prova, s’è anche sparato al cuore.

 

Era il 13 luglio del 1963, Paoli era sposato con Anna Maria Fabbri. La allontana di casa e tenta il suicidio con una Derringer, peraltro nemmeno denunciata. La pallottola va così vicina al cuore da rendere troppo rischioso l’intervento per rimuoverla, ma non uccide. Lui lo ha spiegato mille volte: “Ero lucidissimo, addirittura elettrizzato per quel che stavo facendo. E’ che volevo provare qualcosa di nuovo, andare via, cercare nuove esperienze”. Detta così, fa quasi ridere, ma corrisponde abbastanza alla biografia del cantante che, un mese dopo il mancato suicidio, è in testa alla hit parade con un classico che si chiama “Sapore di sale”; dedicato a una fra le ragazze più belle dell’Italia di quegli anni, cioè Stefania Sandrelli che, un anno dopo, genera Amanda, la seconda figlia di Paoli (il primo, Giovanni, è figlio della Fabbri. Gli altri due, Niccolò e Tommaso, li ha da Paola Penzo, sposata nel 1991). Nel 1967, di punto in bianco, Paoli decide che non ne vuol più sapere di pianoforte, canzoni, discografia, del mondo che lo ha reso famoso. Prende su e si trasferisce a Levanto, nella Liguria orientale, e fa l’oste per 3 anni. Nel 1974, con un colpo di testa dei suoi, decide di pubblicare un long playing con sole versioni di Juan Manuel Serrat, gran cantante catalano. Il disco si chiama “I semafori rossi non sono dio”, raccoglie un insuccesso di vendite davvero clamoroso ma è sufficiente perché Willy David, impresario di talento, decida di riportarlo in concerto. Sceglie una data al Pincio, ma non lo dice a Paoli che, ignaro di tutto, si trova di fronte a 15 mila persone. Pensa di suonare un’oretta, il pubblico lo tiene sul palco per il doppio del tempo, a furia di applausi e richieste di bis. Ciò nonostante, non sono quelli gli anni più felici di Paoli. Beve molto (soprattutto superalcolici), e non disdegna la droga. Oggi, con la serenità del patriarca controvoglia, ne parla disteso: “Sì, c’ero dentro fino al collo, e ne sono uscito. La droga è una stupidaggine, e a me non andava né di buttare via la mia esistenza, né di pensare che la mia autocritica potesse venire meno”. Patriarca sì, ma sempre con la battuta facile, e se è un po’ scorretta, chi se ne importa. Di Mina, che portò al successo internazionale “Il cielo in una stanza”, racconta: “Una grande amicizia, anzi direi proprio che s’andava d’amore e d’accordo. Però sesso niente, garantisco, anche se non mi sarebbe dispiaciuto: a quel tempo, era un gran gnocca”.

 

Quel tempo sono i primi anni Sessanta quando, in un varietà sul Nazionale, Mina e Paoli ballano lo scatenato rock ’n’ roll di “Surfin’ bird” (sì, quello che accompagna la carrellata laterale durante uno dei bombardamenti in “Full metal jacket” di Stanley Kubrick); e gli anni Sessanta, per Paoli, non sono affatto mitici: “Macché, erano anni come tutti gli altri. Chi sa mai che è successo: si andava al mare, si facevano le stesse cose che si fanno adesso”. Adesso non lo si ricorda più molto, ma Gino Paoli è stato anche parlamentare: “Dal 1987 al 1992. Me lo chiese Gavino Angius e io accettai, a condizione di candidarmi da indipendente”. Nel collegio di Napoli, dove si presenta, viene eletto con 25 mila voti. Alla prima seduta a Palazzo Madama, però, si presenta in jeans. Giovanni Spadolini, presidente del Senato, lo riprende pubblicamente. Gli era capitata la stessa cosa nel 1961 quando, nel Casinò di Sanremo, aveva esordito al Festival. Cantava “Un uomo vivo”, ma si presentò in total black. I giornali più generosi scrissero che sembrava cantasse i salmi, gli altri obiettarono che pareva il rappresentante di un’agenzia di pompe funebri. Nell’edizione di quest’anno, al Festival, la sua apparizione sul palco, in duo con il pianista Danilo Rea, ha provocato non soltanto l’ovazione in piedi del pubblico dell’Ariston, ma anche il picco d’ascolti della manifestazione. A ottant’anni, Gino Paoli fa davvero quel che gli pare. Canta gli standard della canzone americana con una band di superlativi jazzisti italiani, i classici di Napoli, città a lui carissima, le canzoni dei suoi colleghi e amici (Bruno Lauzi, Umberto Bindi, Luigi Tenco, anche Fabrizio De André). Cinquanta e più anni di successi non hanno cambiato il vecchio anarchico: “Non mi piace far le cose perché conviene, ma perché mi va e, davvero, conosco un sacco di gente che fa il comunista ma, in amore, è fascista”. Gino Paoli non ha dischi nuovi in uscita, ma prosegue il suo tour infinito con Danilo Rea.

 

Non è stata mai comunista né fascista, Ornella Vanoni: ma non s’è negata quasi nient’altro. A 19 anni, dopo avere studiato in scuole tedesche e francesi, si iscrive alla scuola del Piccolo, a Milano. Suo maestro è Giorgio Strehler che, lui sì comunista, oltre che sposato, perde la testa per lei. Prima le fa cantare canzoni della Rivoluzione francese nelle pause fra un atto e l’altro delle rappresentazioni a teatro, poi costruisce per lei le oramai celeberrime Canzoni della mala, con cui trionfa al Festival di Spoleto del 1959. Oggi lei racconta: “Lo amavo tantissimo, ma scappai da lui: voleva coinvolgermi in trasgressioni troppo pesanti”. Sposa Lucio Ardenzi nel 1960 e, spiega divertita, “il mio testimone era Giorgio Albertazzi e il prete continuava a rivolgersi a lui come fosse il mio sposo – e tutti a dirgli no, guarda che è quell’altro”. Donna di mille passioni, Gino Paoli la descrive con l’efficacia di chi, dopo esserle stato amante, è ancora suo amico: “Ornella sembra un setter, ma è un boxer: è una donna vulnerabile, che suscita bisogno di protezione. Le persone non lo intuiscono, per fortuna, ma io sì, perché l’ho amata intimamente”. Ornella Vanoni è stata, soprattutto, una grande interprete. Nel 1967-’68, con i due volumi intitolati “Ai miei amici cantautori”, esegue versioni irripetibili di Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Charles Trenet, Domenico Modugno, Luigi Tenco e, naturalmente, Gino Paoli. Nel 1976, complice il geniale autore e produttore Sergio Bardotti, in compagnia di Toquinho e Vinicius de Moraes, il poeta brasiliano amato da Giuseppe Ungaretti, incide “La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria”: nessuno ha mai più cantato il samba e la Bossa nova così, fuori dal Brasile. Nel 2002, quindi non più ragazzina, ancora guidata da Bardotti, incide un intero disco con versioni da Burt Bacharach. In queste settimane, i giornali la inseguono, alla ricerca vana di scoop sulle sue amicizie importanti: da Bettino Craxi a Hugo Pratt, da Silvio Berlusconi a Pier Paolo Pasolini. Lei, che è una signora, si nega abbastanza, dice e non dice, con l’aria sempre un filo annoiata: “Ora sono sola. Imparare a stare da soli è fondamentale. Anche se l’ho imparato tardi, ci sto bene. Certo, mi mancano le tenerezze. Borges diceva: ‘Quand’ero giovane, volevo vivere nella solitudine e nel silenzio. Ora voglio stare su un balcone, e guardare la gente che passa’. Dal mio balcone, io vedo un parco: e continuo a cantare. Mia madre è morta a 99 anni, io canterò dal vivo fin che avrò voce”. Intanto, il 23 settembre esce una sua raccolta tripla, dal titolo programmatico: “Più di me, più di te, più di tutto”. Tutto sommato, per avere 240 anni in tre, Leonard Cohen, Ornella Vanoni e Gino Paoli sembrano in forma smagliante.

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