Contro la peggio gioventù
La scuola che non c’è, il modello inglese e l’inevitabile settarismo dell’educazione. La rivoluzione culturale italiana che serve a Renzi per superare l’esame di maturità.
L’istruzione non è un pranzo di gala. Pertanto la trovata di mandare i ministri a inaugurare l’anno scolastico nell’istituto che ciascuno di loro aveva frequentato da piccolo – il Corriere ha riportato che il ministro dell’ambiente Galletti è andato alle elementari “Marconi” di Bologna, il ministro degli Affari regionali Lanzetta è andata al liceo classico “Oliveti” di Locri, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Delrio alle elementari “Matilde di Canossa” di Reggio Emilia, il ministro delle riforme Boschi alle elementari “Goffredo Mameli” di Laterina, il ministro dei Trasporti Lupi all’istituto comprensivo “Cabrini” di Milano, il ministro delle Politiche agricole Martina all’istituto tecnico agrario “Rigoni Stern” di Bergamo, il ministro del lavoro Poletti all’istituto tecnico “Scarabelli” di Imola, il ministro della Difesa Pinotti al liceo scientifico “Enrico Fermi” di Genova e il ministro dello Sviluppo economico Guidi al liceo ginnasio “Muratori” di Modena – ha senso solo se prelude a una rivoluzione culturale nella maniera in cui gli italiani percepiscono l’atto quotidiano, collettivo e anche un po’ noioso dell’andare a scuola. Altrimenti tutto questo sparpaglio resta poco più che decorativo, se non pittoresco; un modo per coccolare retrivamente i ricordi d’infanzia o di adolescenza e di abbandonarsi di fronte agli studenti alla retorica del “Quand’ero come voi, prima di fare carriera”.
O, peggio ancora, ciò presuppone che i ministri, rivolgendosi a chi siede nei banchi precedentemente occupati da loro, si stiano in realtà rivolgendo simbolicamente o misticamente a tutti coloro che siedono in qualsiasi banco di qualsiasi istituto. Pensarlo è molto romantico ma dovrebbe essere l’esatto contrario. La visita dei ministri deve servire a ricordare che ciascuno di loro ha frequentato un preciso e determinato istituto e che, se è riuscito a fare carriera, magari lo si deve anche al fatto concreto di aver frequentato quell’istituto. Non altri. E’ una banalità e addirittura una tautologia, che quindi in Italia suonerà oltraggiosa come una bestemmia. In Inghilterra è assolutamente normale che quando un nuovo politico si affaccia sull’agone i quotidiani riportino un factfile ovvero un elenco di nudi fatti essenziali che inizia immancabilmente col ricostruire le tappe della sua istruzione, il cursus studiorum. Chi è mediamente informato in Inghilterra sa quale scuola e quale università (ed eventualmente quale collegio) abbia frequentato qualsiasi dei politici principali, né ha remore nel trarre dall’argomento conseguenze duplici: sulla preparazione del politico o quanto meno sul suo background culturale e sociale; e sulla effettiva capacità formativa degli istituti menzionati. Il principio è elementare, Watson: se un istituto forma molti individui di successo è un istituto di successo; altrimenti, per usare una cauta perifrasi, non lo è. In Italia, prima della pittoresca spedizione di metà settembre, nessuno sapeva quale scuola avesse frequentato Roberta Pinotti, che incidentalmente è stata anche insegnante fra le stesse mura; la notizia più diffusa riguardo alla formazione dell’attuale classe politica consisteva nel sapere che nel 1998 il ministro Boschi aveva interpretato la Madonna al presepe vivente di Valdarno.
Questo ingenera qualche inevitabile confusione fra gli intellettuali italiani. Pochi giorni fa, intervenendo al Festival Filosofia di Modena, Roberta De Monticelli ha tuonato che il governo Renzi è costituito da giovani che sono stati preparati dalla generazione precedente, e che dunque le colpe del governo ricadono sulla generazione che li ha istruiti male. L’idea che una generazione istruisca un’altra è affascinante nel fondere l’“Emilio” e il “Contratto sociale” di Rousseau in un’unica immagine di grandi adunate di piazza in cui si ripete la quarta declinazione tutti in coro; tuttavia non corrisponde completamente al vero. Chiunque abbia studiato ricorda di avere avuto insegnanti migliori e peggiori e di dovere taluni pregi e talaltre lacune a individui concreti, non a intere generazioni da cui apprendere per osmosi; magari ricorda anche di avere invidiato amici inseriti in classi dotate di insegnanti più bravi, o meno bravi se sfaticato, e di avere sempre saputo se quelli che frequentavano altri istituti stessero meglio o peggio di lui.
Forse perché è stato ripetuto fino alla nausea il dettame di Margaret Thatcher secondo cui “there is no such thing as society”, ossia la società è una cosa che non esiste, in Inghilterra invale altresì l’idea che non esista l’insegnante collettivo, il magma scolastico generazionale. Per questo gli inglesi trovano importante distinguere quali scuole abbia frequentato un politico o un membro a qualsiasi titolo della classe dirigente: perché così si ricostruisce con buona approssimazione l’albero genealogico del suo sapere, ci si può immaginare l’ambiente in cui è cresciuto e se ne deduce cosa verosimilmente aspettarsene da adulto. Sarebbe un’idea da importare alle nostre latitudini ma questo presupporrebbe che venisse meno il più ipocrita simulacro dell’istruzione italiana, che resiste ancora per quanto cascante: l’idea che, essendo tutte statali, una scuola valga l’altra; e che in quanto paritarie quelle private debbano avere come massima aspirazione quella di appiattirsi sul livello di quelle pubbliche e, come aspirazione minima, di preparare ragazzi che al momento dell’esame possano sfangarla come i peggiori virgulti della pubblica istruzione; e che infine il famoso pezzo di carta, a qualsiasi livello, valga come qualsiasi pezzo di carta dello stesso livello preso altrove senza distinzione.
L’importazione del principio inglese è auspicabile ma esso va addolcito, oltre che adattato a noi, in quanto in Inghilterra forse per un misto di capitalismo e protestantesimo si eccede nell’esclusività. Si ritiene comunemente che ci sia una corrispondenza fin troppo rigorosa fra successo dell’individuo e successo dell’istituto e soprattutto che tale corrispondenza sia incontrovertibilmente biunivoca: che dunque per diventare un individuo di successo basti frequentare una scuola di successo, e che nessun’altra scuola potrà mai sfornare dal nulla un individuo di successo. In Italia siamo meno drastici degli inglesi, oltre che più furbi e residualmente cattolici, dunque sappiamo che quest’equazione può venire occasionalmente spezzata da virtù e fortuna, dall’impegno congiunto di alunno e docente in un contesto disgraziato oppure dalla superinfusione di talento in qualche individuo che riesce poi a cavarsela egregiamente nonostante gli sforzi contrari dei suoi insegnanti. Se non che facciamo eccessivo affidamento su quest’ipotesi comunque marginale e la affoghiamo in un sostanziale indifferentismo nei confronti dell’istruzione, che parte dalla visione nostalgica e romantica degli anni di scuola, sfocia nell’idea che l’Italia sia una nazione di figli da blandire e tutelare in eterno (“Concorso in colpa”, Foglio del 27 agosto 2013) e culmina nell’idea che i governi siano il frutto di generazioni che hanno fallito nell’educare altre generazioni e che pertanto la scuola italiana sia una notte in cui tutte le vacche sono nere.
In Inghilterra manca quello che da noi si chiamerebbe ascensore sociale; in Italia c’è ma è guasto. Ne ha parlato diffusamente Caterina Soffici che ha dedicato buona parte del reportage autobiografico “Italia Yes Italia No” (Feltrinelli) alle ambasce per iscrivere i figli a scuola a Londra. La soluzione che propone è patafisica – l’International Baccalaureate, ossia un liceo bilingue di stampo creativo alcune prerogative del quale ricalcano temerariamente quelle della scuola elementare italiana degli anni 60 sbertucciata da Lucio Mastronardi ne “Il maestro di Vigevano” – ma il procedimento che descrive è oltremodo istruttivo. Dimostra infatti che in Inghilterra con l’iscrizione a scuola si decide buona parte della vita futura dei giovani, che le scuole pubbliche inglesi sono esse stesse consapevoli di essere una prospettiva disperante per sole famiglie disperate, e che nel settore privato la scelta è talmente diversificata e onerosa per chi esige il meglio da rendere necessario a chi voglia salire di classe prendere le scale di servizio: “Il nonno fa i soldi, il padre grazie ai soldi del nonno entra in una scuola privata, il figlio ormai è nel canale giusto e ci entra di diritto”. In Inghilterra, per istruire adeguatamente un figlio, ci vogliono tre generazioni.
Il settarismo dell’istruzione inglese è stato spesso stigmatizzato dalla stampa progressista con campagne non sempre sensatissime. Fece scalpore nel 2010 la polemica del Guardian sull’unica matricola nera ammessa all’Università di Oxford su 2.500 selezionati; si tacciò l’università di razzismo perché l’incidenza percentuale indubbiamente non rispecchiava quella dei neri sulla popolazione britannica ma suvvia, lo sanno anche i sassi che a Oxford si viene ammessi con un esame durissimo con mesi e mesi di anticipo sull’iscrizione (si tiene a dicembre per i liceali che inizieranno l’università al settembre successivo) e che pertanto riescono a superarlo solo quelli che hanno ricevuto per anni un’adeguata preparazione: quelli cioè che hanno frequentato le scuole migliori, ossia quelle private, Eton in primis, ossia quelle più costose e, per la stratificazione intrinseca delle classi sociali britanniche, quelle più bianche. Il caso più eclatante di questo settarismo a lunga gittata è forse questo: gli inglesi sanno che il sindaco di Londra Boris Johnson, plausibile futuro leader dei Tory a livello nazionale, ha frequentato la Primrose Hill Primary School di Cadmen, a nord di Londra; e sanno anche che l’attuale leader dei laburisti Ed Miliband ha frequentato la Primrose Hill Primary School di Cadmen, a nord di Londra. Gli inglesi sanno pertanto che è probabile che i duellanti alle prossime elezioni si ritrovino ad aver frequentato non la stessa università, cosa che ai nostri occhi potrebbe anche capitare, né lo stesso liceo, che ai nostri occhi è già altamente improbabile, ma la stessa scuola elementare, predestinati già a sei anni.
Soffici racconta inoltre di avere incontrato un’altra mamma italiana protettiva e nevrotica in procinto di iscrivere i figli a una scuola inglese seguendo quest’argomentazione: “Non voglio che i miei figli studino in Italia. Perché è un paese marcio con un’istruzione vecchia e allo sbando. Perché i professori sono dei dementi. Perché nessuno li controlla e se ne fregano degli allievi. Perché c’è un lassismo incontrollabile. Perché non motivano abbastanza i ragazzi. Perché c’è un’ignoranza in giro senza pari. Perché è un paese corrotto”. Un sì mirabile cocktail di lampi e cantonate, di intuizioni e fesserie, dimostra che la scuola resta una selva oscura per buona parte degli italiani, incluso il ministro dell’Istruzione che pare avere recentemente proposto una riforma per introdurre nella scuola primaria l’insegnamento della lingua inglese che era stato già introdotto nel 2005, quando il ministro stesso era rettore dell’Università per Stranieri di Perugia. L’oscurità porta all’indeterminatezza se non alla confusione e questa all’ininfluenza e alla conseguente indifferenza da parte delle masse, quindi all’ignoranza su vasta scala.
[**Video_box_2**]Lo stato italiano contribuisce non poco a mantenere la scuola a bassa definizione, tutelando l’idea che un istituto valga l’altro e che la parità di voto all’esame di maturità implichi la parità di preparazione dello studente. Quando prova a scrollarsi di dosso le catene della negazione dell’evidenza, lo stato resta non di rado impigliato nelle spire delle infinite sigle sindacali e parasindacali che remano contro ogni tentativo di stabilire una differenziazione, che renderebbe ufficialmente riconosciuto ciò che tutti sanno e fingono di ignorare: alcuni docenti sono bravi e altri no; alcuni lavorano di più e altri molto meno; ci sono istituti che funzionano e altri che vanno rivoltati come calzini; il personale docente andrebbe di conseguenza valutato in base all’effettiva capacità e non all’anzianità e ai diritti acquisiti su cui campano i sindacati stessi. Mica facile. Tanto per dire, lo scorso novembre l’allora ministro Carrozza aveva lanciato in un’intervista alla Stampa l’idea di estendere alle università il test Invalsi, che dal 2008 rivela con preoccupante costanza come a pari conoscenza di italiano e matematica uno studente del nord venga mediamente valutato peggio di uno del sud, a riprova della disparità di livello nelle scuole italiane. Tempo un giorno e la Carrozza si era ritrovata sulla scrivania un’indignata nota sottoscritta da Adi, Adu, Andu, Cipur, Cisl, Cnru, Cnu, Cobas, Conpass, Csa-Cisal, Flc-Cigl, Link, Rete29Aprile, Snals, Sun, Udu, Ugl e Uil Rua che diffidava il ministro dallo “imporre un particolare modello di scuola escludente, incapace di valorizzare le differenti intelligenze”.
Niente di tutto questo in Inghilterra, dove la scuola è full HD e tutti i dettagli sono in bella mostra. Lo scotto pagato oltremanica è stato tremendo: avere trasformato la scuola pubblica in zattera della Medusa, eccesso evitabile ma collaterale a una scelta culturale precisa. In Inghilterra si ritiene che la nazione funzioni meglio se guidata da una élite funzionante, e si presuppone – per intrinseco snobismo – che le élite funzionino meglio se impermeabili. Pertanto per capire quali scuole sono migliori gli inglesi non hanno bisogno di consultare le tabelle dell’Ofsted, il regio corpo che ispeziona le scuole britanniche: basta sapere quanti ex alunni celebri hanno avuto in tempi recenti e la scrematura è fatta. Non solo: agli inglesi basta controllare i risultati degli esami di maturità. L’esame è scritto, unificato nazionalmente, e i risultati arrivano in busta chiusa durante l’estate dopo essere stati emessi da una commissione centrale che valuta secondo criteri univoci, così da garantire che gli studenti meglio valutati siano davvero più bravi degli altri, senza che il liceo di provenienza vada tarato. Vale ovviamente anche l’inverso: i licei con gli studenti più bravi sono sicuramente migliori di quelli con gli studenti più scassati. Oxford, Cambridge e le altre università d’eccellenza possono poi fidarsi della valutazione della maturità per effettuare una prima scrematura nelle loro ardimentose selezioni del meglio del meglio del meglio.
La tragedia dell’istruzione italiana risiede in questo, se proprio vogliamo trovare un nodo gordiano: c’è una lampante ma ancora parzialmente inconfessata disparità nei voti di maturità fra regione e regione, liceo e liceo. La votazione è nazionalizzata sulla scala dei centesimi ma la valutazione non lo è; quindi chi prende 100 in un liceo può essere meno bravo di chi prende 80 in un altro liceo. La scuola italiana è organizzata in maniera tale da non far capire se uno studente sia più bravo di un altro e, peggio ancora, da impedire di rendersi conto su criteri oggettivi e verificabili del fatto che un liceo sia migliore di un altro – sfido chiunque a dimostrare che un liceo che sforna 100, 100 e lode, 100 e bacio accademico a profusione sia effettivamente migliore di quello in cui il massimo viene raggiunto solo e soltanto da chi ha effettivamente reso il massimo per cinque anni.
Questo perché, al contrario di quello inglese, il fondamento culturale italiano è che lo stato funzioni meglio se viene mantenuta una parvenza di egualitarismo mentre dietro una facciata di pari opportunità offerte a tutti si cela un metodo di selezione confuso nel migliore dei casi o poco trasparente nel peggiore. Una sana via di mezzo fra i due modelli sarebbe auspicabile; se altrimenti la premessa culturale resta la solita, l’anno prossimo sarà inutile mandare i ministri nei propri istituti di provenienza. Tanto vale sorteggiarli.
Il Foglio sportivo - in corpore sano