L'autogoverno dei Marescialli
Il Csm secondo Vietti. “Tempi d’intervento eccessivamente dilatati. Strumenti disciplinari depotenziati. Due modelli di autogoverno in competizione ma ancora non maturi. Il Csm dovrebbe garantire del livello del servizio dei magistrati ai cittadini: Non ho mai fatto mistero di preferire questa versione”.
Roma. Ha guidato da vicepresidente il Consiglio superiore della magistratura in un quadriennio (2010-2014) più turbolento del solito nel quale, tra le altre cose, sono emerse alcune crepe in assetti di potere che si ritenevano in eterno consolidati. Anni in cui la disciplina della magistratura, la sua autonomia e persino i perimetri del suo semi-autocefalo autogoverno sono stati contrassegnati da tensioni forti. Sono stati gli anni dei processi alla strega del “caso Ruby”, finiti in alcuni melmosi rigagnoli perfino davanti al Csm, e dello scontro tra la procura di Palermo e la presidenza della Repubblica sulle intercettazioni illecite nella cosiddetta “trattativa”. E ancora, della rissa da ortomercato tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo sulle attribuzioni di fascicoli “politici”, che ha gettato nello scompiglio e quasi paralizzato l’attività della Procura di Milano, un tempo “faro” della magistratura engagée. Michele Vietti, avvocato torinese, sessant’anni, politico centrista per storia e per vocazione, da oggi ex vicepresidente del Csm, non si scosta dalla sua rigida morbidezza neanche quando sceglie l’aggettivo “pilatesco” per commentare i summenzionati casi, su cui ci si sarebbe aspettati interventi più decisi da parte dell’organo di autogoverno. Per esperienza si dichiara “scettico sulle riforme grandi”, ma al passo d’addio, ora che finalmente martedì scorso, dopo penosa trattativa, sono stati eletti dal Parlamento tutti i nuovi membri laici; ora che, oggi pomeriggio al Quirinale, il nuovo Consiglio superiore della magistratura terrà la sua seduta inaugurale, Michele Vietti può provare a tracciare qualche bilancio più libero dalle esigenze della (ex) funzione.
“Il Consiglio ha le sue dinamiche e i suoi tempi, che certamente sono poco adatti a interventi tempestivi e radicali”, inizia riferendosi ai casi Palermo e Milano, lo strumento della incompatibilità ambientale e funzionale è stato modificato “in una versione che lo confina in uno spazio ristretto tra il procedimento disciplinare e l’irrilevanza”. Così per Milano “sarebbe fuori luogo da parte mia dire oggi chi aveva ragione tra Bruti e Robledo, ma condivido l’idea che lasciare le cose come stavano non sia stata una soluzione salomonica, ma piuttosto pilatesca. In ogni caso i tempi impiegati dal Csm per arrivare a una decisione sono stati eccessivamente dilatati, soprattutto se rapportati al risultato finale”.
L’altra grande grana è stata la “trattativa” presunta tra stato e mafia, e il derivato scontro istituzionale di una parte della magistratura palermitana con il Quirinale. L’impressione è che il Csm, di cui Giorgio Napolitano è il presidente, abbia esitato sul comportamento da assumere anche di fronte a precise prese di posizione del Quirinale. “Il Consiglio era stretto tra il dovere costituzionale di rispettare l’autonomia della giurisdizione e la lealtà e solidarietà nei confronti del suo presidente”, risponde Vietti. “Personalmente penso che la Corte costituzionale sia correttamente intervenuta a salvaguardia delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica, in occasione della decisione sul conflitto di attribuzioni con la procura di Palermo. Più in generale, ritengo che il professor Fiandaca abbia ben inquadrato l’argomento, anche se ovviamente occorre rispettare il lavoro dei giudici ed attendere fiduciosi l’esito della loro decisione”.
Comunque li si voglia giudicare, sono due casi da cui si può risalire a una domanda più generale: il Csm è in grado di svolgere i suoi compiti? Nel sistema di selezione e nomina, nel controllo dell’attività dei magistrati – che è poi quello che interessa ai cittadini: chi vigila se un tribunale lavora male? “Il Csm nasce nel disegno dei costituenti come organo di tutela della autonomia della magistratura rispetto al potere esecutivo – precisa –. Nel corso degli anni tuttavia è emersa e si è fatta sempre più pressante un’altra esigenza: quella di garantire una risposta di giustizia tempestiva ed efficace per il cittadino-utente. Ciò nella consapevolezza che dal buon funzionamento del sistema giudiziario dipende anche la competitività dell’intero sistema paese e perciò della sua economia. Il Consiglio si è trovato così a dover ripensare la propria natura e la propria funzione: non solo garanzia di indipendenza ma anche di efficienza. La dialettica tra queste due finalità induce una frizione tra le spinte corporative della componente togata, che risponde comunque ai suoi elettori-magistrati e alle dinamiche del consenso interno, e la nuova scommessa di diventare un organo certificatore della qualità dei propri amministrati. La delicatissima funzione propria dei magistrati di dispensare i torti e le ragioni, e perciò di garantire la legalità tra i consociati, esige una verifica costante e rigorosa del possesso dei requisiti per svolgerla”. Che significa? Che i magistrati vanno controllati meglio? “Le contraddizioni e le incertezze nella storia del Csm degli ultimi anni stanno tutte qui. Sono in campo l’idea di un autogoverno-autoreferenziale che deve tutelare i propri adepti e l’idea di un governo autonomo che scopre la vocazione di garanzia del livello del servizio che i magistrati debbono rendere ai cittadini. Non ho mai fatto mistero di preferire questa seconda versione”.
C’è poi il problema delle correnti della magistratura: oggi sono palesemente mere lobby e consorterie interne. Il Csm ne è la camera di compensazione. Il tema della trasparenza e del merito in nomine e indirizzi si imporrebbe. Perché nessuno lo affronta, o chiede semplicemente di scioglierli questi “partitini”? “Le carriere non sono un diritto connesso allo status, ma un servizio da guadagnare con una rigorosa selezione in termini di professionalità e di laboriosità. Gli uffici direttivi non sono ‘canonicati’ che premiano l’anzianità, ma ruoli di responsabilità che devono garantire risultati organizzativi in termini di qualità e quantità del servizio. Le valutazioni di professionalità non sono rituali automatici e stereotipati, ma occasioni da non perdere per verificare periodicamente l’adeguatezza del magistrato a fare il proprio lavoro con competenza ed equilibrio. Se le correnti organizzano le diverse sensibilità interne di politica giudiziaria stimolando un circolo virtuoso per elevare la qualità della giurisdizione, ben vengano. Se sono uffici di collocamento per tutelare chi non ha merito per farlo da solo, possiamo tranquillamente farne a meno”. E il controllo disciplinare? “Il processo disciplinare non è un censimento sulle appartenenze, né una giustizia domestica in cui ci si giustifica tra pari, ma la garanzia non solo che gli illeciti tipici vengano puniti con rigore, ma anche che sia garantita la tenuta deontologica dell’intera categoria”. Va bene Vietti, l’elenco è perspicuo, però provi a fare un bilancio un po’ più sbilanciato. “Durante la consiliatura trascorsa sono stati fatti sforzi notevoli per imboccare il giusto cammino, anche se in salita, e spero che si prosegua nell’autoriforma, superando le prevedibili resistenze al cambiamento”. Ugualmente, le audizioni di una Ilda Boccassini, per fare un esempio, in margine all’affaire Robledo sono sembrate più che altro delle rese dei conti interne al Tribunale di Milano. Perché mai i cittadini devono assistere a queste cose? Che rapporto hanno con l’amministrazione della giustizia “i magistrati non sono ‘puri spiriti’, ma uomini e donne con passioni, caratteri, personalità più o meno spigolose. Occorre però che i magistrati si convincano che non servono ‘solisti’ ma ‘coristi’ che mettono le proprie risorse individuali al servizio di un apparato”.
Non vagheggiare alternative di sistema
Poi ci sono le grandi riforme della Giustizia. Sempre a venire. “Sono per esperienza scettico sulle riforme ‘grandi’. Ne ho sentito parlare talmente tanto senza mai nemmeno intravederle, che non ci credo più. Vagheggiare alternative di sistema è sempre stato un alibi per non fare le cose possibili che, inevitabilmente, sono graduali e progressive, purché legate da una logica coerente”. La separazione delle carriere, la responsabilità civile sembrano temi fatti apposta per avvelenare i pozzi, questo è vero. Ma i problemi esistono, o no? “Quanto alla separazione della carriere non ne sento più parlare neanche da chi ne aveva fatto una bandiera. Sopravvivono gli ultimi ‘giapponesi’ che ignorano come, dopo l’introduzione delle incompatibilità territoriali, la percentuale di chi cambia carriera corrisponde a numeri irrilevanti. Sulla responsabilità civile, al di là delle strumentalizzazioni, la soluzione del Parlamento, che ha eliminato l’emendamento Pini e la proposta del ministro Orlando indicano la strada giusta: responsabilità diretta solo dello stato in tutti i casi e diritto di rivalsa senza filtro verso il magistrato in limiti patrimoniali più ampi”. Perché in Italia l’organo di autogoverno di fatto tollera che la magistratura alzi subito barricate a ogni tentato passo di riforma da parte della politica? “Il Csm non ha mai fatto le barricate sulle proposte di riforma; diverso è il ruolo della rappresentanza associativa delle toghe svolto dall’Anm. Certo la politica non deve assumere iniziative con intenti punitivi e la magistratura non deve arroccarsi sempre e comunque in difesa dello status quo, specie oggi quando dovrebbe essere passata la sindrome dell’assedio”. D’accordo, ma il piccolo cabotaggio è stato per anni un alibi all’intoccabilità del sistema, non è vero? “Esiste un riformismo graduale e progressivo che, purché ispirato a una linea coerente di politica giudiziaria, produce meno rumore e più fatti di una rivoluzione annunciata e mai cominciata. Peraltro pensare che in questo clima politico si possa avere quello che non riuscì alla Bicamerale di D’Alema è una pia illusione”. Clima politico? Ma come Vietti, se è il migliore degli ultimi dieci anni? Un leader finalmente legittimato, un patto politicamente sensato col maggior partito d’opposizione. E in più, siamo sul baratro… o adesso o mai più. “Ce lo chiede l’Europa”, per dirlo con la battuta di comodo di tanti politici. “Bene. Se è così si vada in Parlamento e si votino nel giro di tre mesi tutti i disegni di legge del ministro Orlando”.
Ci dica allora qual è a suo avviso la “riforma delle riforme”, quella senza la quale nulla si sblocca e tutto si distrugge. “Per me la ‘riforma delle riforme’ è la riorganizzazione territoriale degli uffici giudiziari di primo e secondo grado con accorpamenti che garantiscano l’economia di scala e la specializzazione; nel civile una forte spinta sui sistemi alternativi di composizione delle controversie e un rito a misura della natura della lite; nel penale la sospensione della prescrizione e i riti alternativi”. Scusi, si potrebbe obiettare che la prescrizione, in un sistema disastrato come il nostro, è spesso l’unica garanzia per un cittadino di non trovarsi a tempo indeterminato nella condizione dell’imputato, alla mercé di magistrati che decidono arbitrariamente i tempi della loro azione. Lei vuole sospenderla? Non è meglio fissare prima i tempi in cui la giustizia deve chiudere il suo ciclo? “E’ un circolo vizioso: se so che il mio reato si prescriverà il mio atteggiamento processuale sarà inevitabilmente dilatorio, pronto a cogliere, o a creare, ogni occasione per non arrivare alla decisione. Certo non si può lasciare solo il magistrato padrone dei tempi del processo. E’ possibile prevedere scansioni temporali predeterminate per ciascuna fase, decorse le quali la prescrizione ricominci a maturare e scatti una responsabilità disciplinare per chi non le rispetta. In ogni caso occorre un forte ridimensionamento della possibilità di ricorrere in appello”. Questo ad esempio frenerebbe un po’ anche gli appetiti professionali dell’altra gran casta in ballo: gli avvocati. “Gli avvocati fanno il loro mestiere. Tocca al legislatore eliminare le paludi in cui si impantanano i processi e alle buone prassi avere la meglio, grazie anche ad atteggiamenti premiali del Csm per chi le adotta e ottiene risultati, invece di trattare tutti allo stesso modo”.
Ministri tecnici e low profile
Il mantra che “le riforme devono essere condivise” è anche suo. La sua stagione del Csm è coincisa in larga parte con quella dei governi tecnici e di larghe intese. Ma questo sforzo di favorire l’intesa, la collaborazione tra la magistratura – finalmente “libera dall’incubo Berlusconi” – e la politica è mancato sia con Monti che con Letta. Quali sono le ragioni di questo “low profile”? “Condivisione non vuol dire indecisione, ma consapevolezza che la giustizia è un terreno minato in cui si discute delle regole che reggono la comune convivenza; perciò non si può procedere né con colpi di mano né a spizzichi e bocconi ma secondo un disegno organico e coerente su cui passo passo con-vincere, nel senso di portare almeno tutti quelli in buona fede su posizioni che giustifichino un ragionevole cambiamento in nome dell’irragionevole situazione esistente. Nel mio ruolo ho avuto con i vari guardasigilli che si sono succeduti un rapporto di piena collaborazione e anche l’intero Consiglio ha ‘tifato’ per le iniziative riformiste sia del governo Monti sia del governo Letta. Cito tra tutte la riforma delle circoscrizioni giudiziarie che, se è potuta andare in porto, lo deve al gioco di sponda tra ministero e Consiglio”.
[**Video_box_2**]Silvio Berlusconi, qualche giorno fa, ha detto una cosa delle sue tipiche, ma non si può proprio liquidarla come propaganda: “La riforma della giustizia? Spero di cuore che renda ogni cittadino certo dei propri diritti e delle propria libertà”. Ha detto quel che pensa ogni italiano: davanti a un qualsiasi tribunale, non siamo certi dei nostri diritti e della nostra libertà. Invece il ministro Orlando sì è lasciato sfuggire un’altra amara verità: “Non riusciamo a mettere assieme una maggioranza dei due terzi sul superamento del bicameralismo, figuriamoci su amnistia e indulto”. Non le pare che il bon ton del “con-vincere”, come lei lo chiama, oramai non sia più sufficiente? “Non è problema di bon ton ma di ‘agibilità politica’, come va di moda dire. Battere i pugni sul tavolo non rende più facile cambiare le cose, anzi talora le complica. E’ la razionalità delle soluzioni che deve agevolarne l’adozione, motivando il governo a gestire con determinazione la navigazione parlamentare e la maggioranza a votarle, trovando quella sintesi tra diversi interessi che è propria della Politica (con la P maiuscola)”. Questa del governo Renzi è una buona riforma, o una riformina, come molti dicono? “Questo decreto contiene alcune cose buone (le disposizioni in materia di separazione e divorzio, sul mutamento del rito e l’aumento degli interessi di mora), alcune cose di cui occorrerà valutare l’efficacia (negoziazione assistita e arbitrato) e alcuni interventi di accanimento terapeutico come quelli in materia di esecuzione, che a mio parere andrebbe radicalmente modificata affidandola a soggetti terzi. Il grosso della riforma è affidato a disegni di legge, anche di delega, che pur con qualche timidezza vanno nella giusta direzione, ma scontano le difficoltà di una navigazione parlamentare incerta e perigliosa in cui il nocchiero dovrà mostrare la sua forza di persuasione”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano