Relazione non alla pari, quella tra Angela Merkel e François Hollande (foto di Eoghan OLionnain, via Flickr)

La coppia che scoppia

Marco Valerio Lo Prete

L’economia francese arranca e il “motore franco-tedesco” dell’Europa non gira più alla pari. Cause, numeri ed effetti.

A sei anni dall’inizio della crisi economica globale, ciascuno può valutare lo stato di salute dell’Unione europea utilizzando la prospettiva che preferisce. I più ottimisti punteranno il dito sui deficit pubblici che tendono a diminuire o sulle politiche monetarie che iniziano a essere espansive. Altri invece sulla crescita economica comunque stentata rispetto agli Stati Uniti o sul tasso di disoccupazione pur sempre elevato rispetto agli Stati Uniti. Altri ancora evidenzieranno le riforme compiute in paesi prima considerati irriformabili, o il fatto che la moneta unica ancora c’è e lotta insieme a noi in tutti i paesi dell’Eurozona. Infine, a seconda dei gusti, ci sono le fiammate elettorali dei cosiddetti “populisti” da denunciare o la deriva tecnocratica di Bruxelles. Almeno in prospettiva storica, però, tutto ciò equivale a fermarsi a guardare la carrozzeria di un’automobile appena coinvolta in un grave incidente. Davvero possiamo evitare di sollevare il cofano e controllare le condizioni del suo contenuto? Meglio di no, se contiamo di andare avanti. Anche perché il “motore” dell’Unione europea e dell’Eurozona, oggi come oggi, è tutt’altro che in buone condizioni. “Coppia franco-tedesca”, “motore”, “asse Parigi-Berlino”, “tandem”, comunque lo si voglia chiamare, quello che per decenni è stato il centro propulsore del processo di integrazione economico e politico del Vecchio continente ha perso colpi. Se cresce troppo la distanza tra la Germania e la Francia, la prima e la seconda economia del continente, come è accaduto negli ultimi anni, se il dislivello di forza politica si fa di conseguenza troppo evidente, come sta accadendo, insomma se si approfondisce il solco fra i due paesi che dal 9 maggio del 1950 – il giorno della dichiarazione del ministro degli Esteri francese, Robert Schuman – pensarono di condividere la produzione di carbone e acciaio e di mettere così le basi della futura integrazione politico-economica dell’area, allora l’Europa come è stata finora non esisterà più.

 

Il rischio che il “motore franco-tedesco” finisca definitivamente in panne è un pensiero fisso per buona parte delle élite francesi e tedesche, seppure spesso camuffato per ragioni d’orgoglio o di convenienza. Ora questo rischio sta diventando senso comune. Sulla prima pagina della Bild, il tabloid tedesco più popolare, lunedì scorso campeggiava questo titolo: “Krankreich flop, Deutschland top”. La parola “Krankreich” è una crasi tra “Francia” e “malato”, ed è associata a “flop”, mentre “Germania” è associata a “top”. Seguiva sulla Bild una lista di indicatori macroeconomici e sociali che testimoniavano lo schiacciante predominio di Berlino su Parigi. E questa è stata l’accoglienza riservata dalla carta stampata tedesca a Manuel Valls, nuovo primo ministro socialista francese, arrivato a Berlino lunedì scorso per il primo bilaterale con la cancelliera Angela Merkel. La consapevolezza che qualcosa si sia incrinato, nel rapporto tra le due capitali, e che molto abbia a che fare con le ripetute défaillances economiche francesi, traspariva dalle stesse parole di Valls. Che prima si è sentito in dovere di specificare che il suo paese “non è il bambino malaticcio d’Europa”. Poi ha ammesso: “Capisco i dubbi e le domande che si fanno i tedeschi, i loro rappresentanti e qualche volta la stampa. Molti essenzialmente pensano: ‘Abbiamo sofferto attraversando una fase di riforme, mentre i francesi non ne sono capaci. Se non lo faranno, non sarà un bene per la Germania’”. E ancora: “Ai tedeschi piacciono i francesi quando questi ultimi mantengono le loro promesse. Ai francesi piacciono i tedeschi quando questi ultimi cercano di capirli”. Se l’appello alla comprensione da parte dei vicini più forti e potenti non è un’ammissione di un “flop” nazionale, allora ci siamo molto vicini. D’altronde Merkel, in pubblico, si mostra comprensiva. Valls non è il primo leader politico francese, da quando Angela è stata eletta cancelliera nel 2005, a raccontarle le formidabili riforme che ha in programma. Forse non sarà nemmeno l’ultimo. Così lei ripete in conferenza stampa che “gli sforzi” di Parigi sono sotto gli occhi di tutti, che il programma di riforme presentato le pare addirittura “ambizioso”, anzi “impressionante” aggiungono in ogni occasione i suoi collaboratori per accontentare qualche retroscenista del Monde o del Figaro. Poi, però, ognuno a casa sua, ed ecco che si torna a misurare tutta la distanza, quella tra il dire e il fare, e quindi la distanza politica tra Parigi e Berlino. Al punto che Valls a fine agosto ha licenziato in tronco il ministro più gauchiste del suo governo, quell’Arnaud Montebourg (ereditato dal primo ministro precedente, Jean-Marc Ayrault) che in un’intervista al Monde aveva sbottato a modo suo contro la conclamata remissività di Parigi: “Dobbiamo alzare la nostra voce. La Germania è ferma nella trappola dell’austerità che ha già imposto a tutta l’Europa”. Risposta di Valls: “Un ministro dell’Economia non può usare certe parole per riferirsi a un partner europeo”. Spinto Montebourg alle dimissioni, il primo ministro lo ha sostituito con l’ex banchiere d’affari Emmanuel Macron.

 

L’onta verso Merkel è vendicata, ma per certo non è sufficiente un curriculum vitae riformista per riequilibrare l’asse tra Parigi e Berlino. E’ indicativo, in proposito, il processo di formazione della nuova Commissione europea che la prossima settimana dovrà essere confermata (o meno) dal Parlamento di Bruxelles e quindi incarnare il potere esecutivo dell’Ue fino al 2019. Il presidente della Repubblica francese, il socialista François Hollande, eletto nel 2012 per cambiare volto all’Europa rigorista (“Le changement c’est maintenant”, era uno dei suoi slogan), da mesi già ai minimi storici di popolarità, ha dovuto accettare che alla presidenza della Commissione Ue andasse il lussemburghese Jean-Claude Juncker, conservatore. Era lui il candidato scelto dai Popolari europei – quindi con l’assenso di Merkel – in caso di vittoria alle elezioni continentali del maggio scorso. Così Hollande ha puntato a un altro posto chiave della Commissione, il portafoglio degli Affari economici e monetari. Era quello dell’arcigno e austero Olli Rehn, il finlandese che per anni ha bacchettato chiunque sviasse rispetto alla ricetta rigorista e riformatrice di Bruxelles. Francia inclusa, ça va sans dire. La Commissione per gli Affari economici guidata da Rehn, specialmente negli anni della crisi, è diventata potentissima, ha oscurato la presidenza addirittura, e anche fisicamente ha traslocata al centro di Bruxelles. Per questo Hollande e Valls al posto di Rehn ci avrebbero visto benissimo l’ex ministro delle Finanze francese, Pierre Moscovici, che nella sua lunga carriera un pareggio di bilancio l’ha visto soltanto in cartolina. Merkel, come ha scritto l’Economist, è rimasta “inorridita” alla sola idea di mettere “una volpe a guardia dei polli”. Dopodiché ha scelto di far valere tutta la sua pragmatica influenza. Così ora Moscovici è sì al posto voluto da Hollande e Valls, ma sopra di sé si ritrova due vicepresidenti di Commissione fautori del rigore fiscale e con i quali dovrà trovare di volta in volta un’intesa. Non solo: Juncker ha sottratto a Moscovici le competenze sulla regolazione finanziaria (finite al Commissario inglese per volontà di David Cameron) e un po’ di soppiatto – come rivelato dal Foglio questa settimana – perfino la supervisione sulle riforme del mercato del lavoro, passata alla conservatrice belga Marianne Thyssen. Insomma ora Hollande e Valls hanno il loro uomo all’Avana, ma nel frattempo l’Avana conta molto meno di qualche settimana fa. Merkel, di conseguenza, essendo riuscita a “commissariare” di fatto Moscovici, sarà oggi un po’ meno “inorridita” di come l’aveva descritta l’Economist.

 

Sono lontanissimi i primi anni 90, quando uno scambio di lettere pubbliche tra il presidente francese socialista François Mitterrand e il cancelliere tedesco cristiano-democratico Helmut Kohl dettava a tutti gli altri governi i tempi della futura integrazione monetaria e politica. Quando il cancelliere Kohl compariva sulle reti televisive francesi per sostenere il “sì” al referendum sul Trattato di Maastricht, e il “sì” alla fine effettivamente recuperava terreno nell’opinione pubblica, fino a vincere e a rendere decisivo quel passaggio elettorale per dare avvio alla moneta unica. Decisivo come fu pure l’avallo, già allora tutt’altro che scontato, della Corte federale tedesca di Karlsruhe. In quegli anni, un depotenziamento strisciante come quello praticato oggi ai danni del francese Moscovici sarebbe stato inconcepibile: allora, figurarsi, Parigi accettava di dar vita al Sistema delle Banche centrali confidando nella propria capacità di far pesare il suo banchiere centrale rispetto all’ortodossia della Bundesbank.

 

Sono lontani, a dire il vero, pure i primi anni 2000, quando il presidente neogollista Jacques Chirac, affiancato dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, era diventato il catalizzatore di tutti i reticenti del pianeta che non volevano invadere l’Iraq con la “Coalition of the willing” guidata dagli Stati Uniti. A giudicare col senno di poi, fu proprio in quei mesi che si consumò un importante strappo tra Berlino e Parigi. Da allora il divario iniziò a essere palese, il motore iniziò a fare le bizze. Le due capitali, assieme, chiesero infatti a Bruxelles di poter sforare il tetto del 3 per cento al rapporto deficit/pil. Fu uno choc per la Commissione Ue e per la Banca centrale europea: dove sarebbe finita la credibilità dei vincoli esterni sulle finanze pubbliche? Alcuni piccoli stati del nord opposero resistenza, ma Schröder disse che il Patto di stabilità e crescita era tale perché prevedeva anche la “crescita” e non solo la “stabilità” – vi ricorda qualcuno? – e alla fine i due pesi massimi del Vecchio continente l’ebbero vinta, complice anche l’Italia che si schierò a favore di un atteggiamento permissivo di Bruxelles. Tuttavia, mentre il governo tedesco utilizzò quello “sconto” sul deficit per rendere accettabile agli occhi dell’opinione pubblica una lunga serie di radicali riforme del lavoro e del welfare (l’ormai celebre “Piano Hartz”), il governo francese approvò una riforma delle pensioni tutt’altro che definitiva e per il resto pensò solo ad abbassare le tasse nel breve termine, lasciando immutati i meccanismi di funzionamento dello stato, del welfare e del suo mercato del lavoro. A dieci anni di distanza, il dato più impressionante che discende anche da scelte così diverse compiute a quel tempo, è racchiuso  nella misura del prodotto interno lordo (pil) pro capite. Nel 1990, secondo le serie compilate in dollari dalla Fed statunitense, il pil pro capite di un cittadino francese e quello di uno tedesco erano quasi identici, 27.800 dollari contro 27.900. Nel 2003, idem: 32.870 dollari contro 32.900. Da quel momento però, riforme Hartz o non riforme Hartz, Berlino ha preso il largo: nel 2012 il pil pro capite di un francese era di 34.200 dollari, quello di un tedesco di 38.200 dollari.

 

Certo, il sorpasso dell’economia tedesca ai danni di quella francese non è stato realizzato soltanto grazie all’Agenda 2010 di Schröder. La rincorsa era partita da lontano. Prima ci fu una robusta ristrutturazione industriale avvenuta ai tempi della riunificazione tra Repubblica federale dell’ovest e Repubblica democratica dell’est, quando il volto più torvo della globalizzazione – cioè la concorrenza a basso costo – si palesò anzitempo ai confini con i paesi dell’est. Allo stesso tempo le aziende tedesche che non delocalizzarono chiesero per esempio, e progressivamente ottennero dai sindacati, di poter abbandonare la contrattazione nazionale e di sfruttare le possibilità della contrattazione aziendale, con annessa moderazione salariale. La moneta unica che mancò di apprezzarsi, come invece avrebbe fatto il marco tedesco, fece poi il resto mettendo le ali alle esportazioni made in Deutschland.

 

Oggi la diversa resilienza dei due apparati produttivi negli anni della crisi spiega almeno una parte del divario: nel 2009 la Francia ha perso 3,1 punti di pil rispetto al 2008, la Germania addirittura 5,1 punti. Poi però la prima è risalita molto lentamente: più 1,7 per cento (2010), più 1,7 (2011), zero (2012) e più 0,2 (2013). La seconda in maniera decisamente più reattiva: più 4,2 per cento (2010), più 3 (2011), più 0,7 (2012) e più 0,4 (2013). I conti pubblici ovviamente non potevano che risentirne. Se dieci anni fa Parigi e Berlino chiedevano uno sconto sul deficit all’Ue e lo ottenevano, oggi invece Parigi è costretta ogni anno a reclamare più tempo per far scendere il deficit sotto il tetto del 3 per cento che si allontana (oltre il 4 per cento il rapporto deficit/pil atteso per quest’anno). Tutte le volte deve fare i conti con le reprimenda di Bruxelles e con i consigli paternalistici di Berlino che nel frattempo ha appena approvato per il prossimo anno il primo bilancio in pareggio, tra entrate e uscite, dal 1969.
Nel 2003 la spesa pubblica in rapporto al pil era al 53,4 per cento in Francia e al 48,5 per cento in Germania. Dieci anni dopo, la prima è salita ancora fino al 57,1 per cento, la seconda è scesa al 44,7 per cento. Più di tredici punti di differenza. Considerata la garanzia implicita dovuta al fatto che mai e poi mai la Germania lascerà cadere la Francia sotto i colpi della speculazione internazionale, e visto pure lo “scudo” messo a disposizione di tutta l’Eurozona nel 2012 dalla Banca centrale europea di Mario Draghi, il fatto che lo spread tra Oat francesi e Bund tedeschi non sia finora decollato potrebbe trarre in inganno. Il problema è che, tra conti poco in ordine e crescita anemica, anche le prospettive future di sostenibilità del debito pubblico francese peggiorano. Secondo le previsioni di Price Waterhouse Coopers, fondate su dati del Fondo monetario internazionale, nel 2020 la Francia sarà l’ottava economia del mondo, da quinta che era nel 2013. La Germania sarà scavalcata soltanto dall’India e passerà dal quarto al quinto posto. Tutto sommato non è dunque un caso se, negli ultimi due anni, le tre principali agenzie di rating del pianeta hanno deciso di togliere la “tripla A” al debito francese, finora considerato inattaccabile alla stregua di quello tedesco.

 

La grandeur appare sempre più scalfita. Dal 2000, secondo i calcoli dell’Economist, il costo unitario del lavoro nel settore manifatturiero è lievitato in Francia di 28 punti percentuali, mentre in Germania è cresciuto soltanto dell’8 per cento. Contrattazione aziendale e moderazione salariale avallate dai sindacati hanno contribuito a rendere Berlino più competitiva. Così, se nel 2000 la produzione industriale francese equivaleva al 50 per cento di quella tedesca, oggi è pari solo al 40 per cento. Nel 1998, le esportazioni francesi erano il 56 per cento di quelle tedesche, oggi sono scese al 40.

 

I francesi pagano sulla loro pelle il dazio connesso al sorpasso avvenuto. Infatti il tasso di disoccupazione in Francia è al 10,3 per cento, in Germania è al 5,3 per cento. Dai tempi della caduta del Muro di Berlino, la forbice non era mai stata ampia come oggi. Il tasso di occupazione, cioè il rapporto tra gli occupati e la popolazione in età di lavoro, in Germania è passato dal 65 per cento del 1980 al 71 per cento del 2010, mentre in Francia si è fermato al 64 per cento. Il politologo ed economista tedesco Henrik Uterwedde, in un saggio pubblicato l’anno scorso dall’Institut français des relations internationales nell’ambito del Comitato di studi sulle relazioni franco-tedesche finanziato direttamente dai due governi, ha osservato che “mentre la Germania è in gran parte riuscita a superare le sue debolezze economiche con riforme e aggiustamenti strutturali, e conosce oggi una nuova dinamica di crescita e occupazione, la Francia lotta ancora contro la stagnazione, la deindustrializzazione e la diminuzione della competitività”.

 

[**Video_box_2**]E’ possibile attendersi a breve un riequilibrio all’interno della vecchia “coppia”? Lo scetticismo, almeno in Germania, la fa da padrone. In Francia, questa settimana, la confederazione degli industriali (Medef) ha suggerito un piano per creare 1 milione di occupati in più nel giro di cinque anni, invocando anche più flessibilità sul famoso limite delle 35 ore di lavoro settimanali. Apriti cielo. Perfino il primo ministro Valls, che negli scorsi anni si era espresso per superare un tabù che ricorda molto da vicino quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in Italia, ha precisato che non è nelle intenzioni del governo discuterne. Un altro campanello d’allarme viene dagli ultimi sviluppi interni alla compagnia aerea di bandiera francese. La dirigenza di Air France quest’estate aveva proposto di creare una linea low-cost a livello europeo, ampliando il raggio d’azione della controllata Transavia. I piloti in risposta hanno proclamato il 15 settembre scorso uno sciopero a oltranza che continua ancora oggi: non accettano l’idea che all’interno del gruppo per cui lavorano possano coesistere piloti di altri paesi con contratti meno ricchi e garantiti di quelli nazionali. Il governo detiene il 15,9 per cento dell’azionariato del gruppo, perciò Valls si è sentito in diritto di esprimersi pubblicamente prendendo le parti della dirigenza e di tutti gli altri dipendenti contrari allo sciopero “corporativo” che costa 20 milioni di euro al giorno. Ma alla fine i piloti l’hanno avuta vinta: il progetto Transavia Europe si è eclissato e tutt’al più ci sarà un potenziamento della linea low cost all’interno dei confini francesi. Non mancano dunque i segnali che all’estero fanno dubitare della possibilità di un colpo di reni riformatore. Simon Kuper, columnist del Financial Times, ha scritto di recente: “Le riforme non arrivano mai per la semplice ragione che se la Francia è quella che è, è perché i francesi la vogliono così. L’alto tasso di disoccupazione nel paese è, almeno in parte, una scelta. La maggioranza dei lavoratori preferisce rimanere illicenziabile piuttosto che aprire a un mercato del lavoro più flessibile che aiuti i più giovani a inserirsi. I francesi riconoscono quel che c’è di sbagliato in Francia, ma hanno ferie generose, una sanità decente, pensioni precoci, una notevole longevità e 70 anni di pace alle spalle. Le persone ambiziose cui tutto questo non piace possono votare con i piedi e andarsene a Londra. I presidenti della Repubblica hanno il ruolo di sacrifici umani. Perché i francesi brontolano, ma poi si assicurano del fatto che nulla cambi”. E’ l’idea che si è fatto pure John Vinocur, già direttore dell’International Herald Tribune, che in un intervento sul Wall Street Journal ha citato questa settimana il libro di Cécilia Attias, ex moglie di Nicolas Sarkozy, per descrivere la situazione attuale, nella quale i cittadini paiono posseduti da “apatia e passività”, “tristezza e paura”. “La particolarità francese – scrive la Attias – è il rifiuto di confrontarsi con la crisi attuale e la volontà quasi masochistica di non uscirne, mentre si continua ad accusare il mondo intero di essere la causa di tutti i problemi”. Così espliciti, quando si parla di Francia, non possono esserlo nemmeno i politici tedeschi, solitamente molto diretti. Ma sul sito dell’ambasciata tedesca a Parigi campeggiano ancora i risultati più che parlanti di un sondaggio sulle “relazioni franco-tedesche nel cinquantenario del Trattato dell’Eliseo” siglato nel 1963 dal generale Charles De Gaulle, allora presidente della Repubblica francese, e Konrad Adenauer, allora cancelliere della Repubblica federale tedesca. I francesi intervistati oggi associano alla Germania innanzitutto la cancelliera Merkel, poi la birra, Berlino, le automobili tedesche e quindi il rigore e l’austerità. I tedeschi intervistati, invece, associano alla Francia “Parigi, città dell’amore”, la Torre Eiffel, il vino rosso, la baguette e la cucina. Far ripartire di nuovo alla pari il motore franco-tedesco? Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Perché un riequilibrio economico e dunque politico, oggi, sembra poterlo favorire soltanto Berlino. Se non volontariamente, magari a causa del rallentamento che per forza di cose sta interessando anche la prima economia dell’Eurozona.