La fabbrica dello sbadiglio
Il varietà è morto e neppure il talk show si sente troppo bene. Senza sangue e arena, senza un Berlusconi da sputacchiare e infilzare, il dibattito che viene dopo il tg è solo noia.
Avreste mai immaginato un giorno – voi tutti, politici, giornalisti e signora opinione pubblica – di farvi dettare l’agenda politica da Alighiero Noschese, da Loretta Goggi o da Oreste Lionello, dalla ribalta dunque de “Il Bagaglino”, con le orecchie posticce e la gobba di spugna di un Giulio Andreotti lanciato al culmine di un numero di avanspettacolo?
Eppure è così, questo è il fatto, Lucia Annunziata è riuscita a bruciare Michele Santoro portandosi in scena, ops, in puntata, Sabina Guzzanti. In “Mezz’ora” ha fatto meglio di “Servizio pubblico” e siccome il varietà è morto – deceduto nei teatri, a maggior ragione nella versione televisiva – non se la passa tanto bene il talk perché, alla fine, il cortocircuito tra parola e intrattenimento è arrivato al testacoda.
“Crozza”, dice Carlo Freccero, che di televisione se ne intende, “è solo la Littizzetto di Floris. Ha il compito di portare il brivido nella liturgia del politicamente corretto ma la tivù nulla può quando c’è già il net a fare i baffi alla Gioconda. Neppure Daniele Luttazzi potrebbe essere una novità in un talk di prima serata visto che le battute più esplosive sono belle che pronte in rete e nessuno più, avendo a disposizione il clic, aspetta di farsele raccontare dal comico. La televisione non è più il luogo del torneo. Con questi talk, perfino con Michele Santoro, ormai uniformato, senza più un antagonista, senza più quel Berlusconi, la tivù è diventata il luogo dello sbadiglio”.
Senza più antagonisti, la tivù è ancora un agone. I cento minuti di pura parola li reggono solo due ospiti, Berlusconi naturalmente e Matteo Renzi. La trasmissioni, quando non sono cornici, devono sforzarsi nella frammentazione. “Matrix”, su Canale 5, si difende. Giovedì sera Telese (e senza avere Sabina Guzzanti ospite!, piuttosto con le incursioni di Giovanni Marinetti tra i Cinque stelle, la ruspante Taverna e il bad-boy Di Battista), ha superato la prova Santoro, lo ha doppiato in seconda serata. Ma la parte del leone, generalmente, la fa Bruno Vespa. “Porta a porta”, ormai trasformato in una macchina di mobilitazione più ottomana che prussiana, non conosce tregua. In un solo pomeriggio, mercoledì di questa settimana, a partire dalle tre del pomeriggio Vespa ha macinato la puntata sui preti pedofili, quindi quella sui sindacati con la Camusso, poi quella con le gemelle Kessler, un’altra con Carlo Conti e la sera, poi, dopo essere andato a cena al ristorante La Pergola dell’Hilton (dove, sempre per lavoro, si fa per dire, ha dovuto assaggiare ben quattordici vini) è ritornato infine in Rai per la diretta delle 23 con le decapitazioni e Angelino Alfano ospite. “Tutta flessibilità e tutto un lavoro di squadra”, così si legge nella lettera di ringraziamento allo staff vespiano. E si capisce che non c’è gara. Il povero Giovanni Floris che, da “Otto e mezzo”, chiude puntuale per non sforare se stesso, al confronto, sembra proprio un dilettante.
Il cimitero del varietà, dunque, e il camposanto della politica. Questo il tema, questa la situazione. Il microfono dei conduttori è, ormai, un idrante sfollagente. Il pubblico scappa e tutto quell’affanno a farsi contemporanei – lo spazio web, i social, la diretta nel bel mezzo del flusso – ripete nella metodologia ciò che la tivù ha da sempre fatto.
Sarà anche vero che nel frattempo la rete è diventata la fonte primaria dell’informazione ma l’Italia è un posto pieno di vecchi dove tutti guardano la tivù. Già le signorine che smistavano le telefonate sotto la guida sapiente di Renée Longarini, nel “Portobello” di Enzo Tortora (tra loro c’era Paola Ferrari), facevano la multimedialità in tempo reale e la televisione di oggi soccombe nel circoscritto ambito dei talk per mancanza di ciccia narrativa.
“E’ uno spettacolo di teatro tra attori consanguinei” per dirla con il massmediologo Nuccio Bovalino, un rimestare nel flusso interscambiabile tra rete e rete, tanto non si distinguono argomenti, ospiti, servizi e scalette. Con quelle facce da agenti immobiliari, poi, pure i conduttori si assomigliano. Tutto è sovrapponibile e non può più darsi tivù del talk senza quella che Fulvio Abbate chiama “la stampella comica” . Si prescinde dal giornalismo, va da sé, più che a un capo redattore ci si rivolge a un impresario, tanto sono fondamentali i comici. Valga, su tutto, l’apparizione mesta di Roberto Benigni. Fu l’asso tratto dalla manica di Massimo Giannini nella prima puntata di “Ballarò”. A proposito di “Portobello” è degna di nota la proposta di Fulvio Abbate: “A riprova dell’assoluta utilità” dice il marchese, “per sciogliere i nodi dialettici del dibattito mi propongo nel ruolo di Pappagallo e ripetere così, sollecitato dagli ospiti, le parole-chiave e verificare l’esatta comprensione delle stesse. E dunque ecco che durante i titoli di coda di ‘Agorà’, Maria Elena Boschi mi fa ripetere la parola ‘riforma’, nel finale de ‘L’Aria che tira’ c’è Massimo Cacciari che mi scandisce nell’orecchio ‘ZeitGeist’, quindi Stefania Giannini, a ‘Omnibus’ mi aiuta a pronunciare distintamente ‘Review’ e ‘Spending’. Ebbene sì, voglio fare il succedaneo del pappagallo di ‘Portobello’”.
Il giornalismo ha trovato dunque un succedaneo, nella comicità laddove la comicità, quando non fa piangere, fa dormire. Per amor di patria qui si tace della penosa esibizione, sempre a “Ballarò”, di Paolo Rossi il cui effetto sfollagente ha sfregiato i dati d’ascolto, numeri delicatissimi specialmente adesso che Rai3, a differenza della scorsa stagione, quando c’era Floris al timone, non beneficia più di una programmazione più debole delle altri reti di Viale Mazzini. Anzi. La fiction infuria e l’ascolto manca.
Manca l’ascolto, latita il verbo. La distruzione del significato delle parole passa attraverso le forche caudine della qualità. E’ tutto un continuo ripetersi che costa poco. Su questo mantra Urbano Cairo ha preso la scoppola di questi giorni. Come il “Borghese gentiluomo” di Molière che presto impara a distinguere tra prosa e poesia, così Cairo, alla pagina dei conti a posto alterna i versi della sinistra a modino facendo viepiù de La7, più di quanto non lo fosse stata nel passato, la Cattedrale del politicamente corretto. Tutto ciò per infestare di un unico monotono ronzio di talk politico il palinsesto per poi ricavare i resti di ciò che sfugge al microfono-sfollagente dei Floris, dannatamente costoso per di più, l’ex conduttore di “Ballarò” che riesce a essere di sollievo per il pubblico solo quando, dalla scrivania di “Otto e mezzo”, dice: “Adesso c’è il Punto di Paolo Pagliaro”. Si cambia registro ed è musica per le orecchie di chi non vede l’ora che torni Lilli Gruber.
Ciccia narrativa, allora. E qualità. Che manca. “Appunto”, dice Giovanni Minoli che con il “Faccia a faccia” ebbe a fabbricare il talk dei tempi d’oro, “tutto si risolve in una sorta di scambio tra chi porta la propria gratuità, l’ospite, e chi offre visibilità, e cioè la trasmissione. Nel frattempo che gli altri generi – i games, le serie, la fiction – comunque funzionano, il talk langue. Se chi invita paga, chi è invitato, poi, una volta che è retribuito deve offrire una professionalità a garanzia di ascolti e qualità. Possono anche crearsi delle fasce sulla base dei risultati, com’è normale nelle regole del mercato e i politici, infine, potrebbero stornare il guadagno alle casse del partito. Sarebbe una cristallina e limpida forma di finanziamento della politica. Potrebbe essere un’idea, no?”.
Il talk è, effettivamente, il prodotto più economico. Con il microfono impugnato al modo di un lacrimogeno, tutta la spesa è risolta in quattro taxi per quattro cariatidi da portare in studio. Vista la qualità del dibattito – già l’idea di affrontare la discussione della minoranza Pd provoca narcolessia – e la malizia spilorcia di chi da padrone, o direttore di rete, costringe poi gli autori a dare fondo alla fantasia con il giornalismo del giorno dopo e le comparse reclutate nella stessa compagnia di giro, è fin troppo facile immaginarne gli esiti. Ma è quel narrare che manca alla narrazione, insomma: l’agone del talk è il luogo dove più di ogni altro si sente l’assenza di Silvio Berlusconi nella scena politica e senza più l’antagonista, l’ospite che spolvera la sedia nell’apoteosi del teatro comico, nessuno riesce più a essere protagonista. Più che un all news, La7, diventata un all talk risulta all’ascolto come quelle radio su cui si sintonizzano perennemente i tassinari di Roma: come quelli ruminano perennemente Totti, Totti e Totti, così questa – su un piano nobile, per carità – mastica eternamente politica, politica e politica. Se però i tassinari hanno Totti, agli spettatori – pur viziosi di parola – dal mattino alla sera, dal lunedì alla domenica, tocca di sorbirsi la Serracchiani. Tutto questo succede un po’ in tutte le trasmissioni di tutte le reti, generaliste e no, e una menzione la meritano i malcapitati ospiti del fine settimana radunati tra le tarde quindicine di tempi un dì gloriosi o tra le schiere di sconfortati semi-vip desiderosi d’ascensore sociale, quello – va da sé – della visibilità.
[**Video_box_2**]La stagione televisiva, totalmente ammorbata dall’apnea renziana, non ha saputo offrire brividi al pubblico di telespettatori. Maria Elena Boschi, suvvia, non ha l’appeal di Mara Carfagna. Ancora non c’è nessuno che possa reggere il confronto con Daniela Santanchè e già Laura Ravetto ha molte più carte di una qualunque Federica Mogherini, fosse pure in un dibattito tutto in lingua inglese. L’ombra di nessun Cesare Previti si disegna alle spalle di Matteo Renzi, figurarsi quella di un Marcello Dell’Utri ed è così che, definitivamente privati di sangue e arena per come ci si ritrova nei palinsesti, sempre più a modino, l’unica vera notizia di “Servizio pubblico”, nella sua prima puntata, diventa un’assenza.
Tutto è in apnea e giusto nel giorno in cui Giorgio Napolitano veniva chiamato a testimoniare in merito alla “Trattativa”, giusto dunque nel momento più gustoso del canovaccio, a marcare visita da Santoro era giusto Luigi De Magistris. Il magistrato, sindaco di Napoli, campione ormai capovolto dell’altro cortocircuito, quello del giustizialismo che sopravvive solo per tramite di colpi mediatici, pur annunciato, non si presentava. E spegneva così il climax. C’era però Sabina Guzzanti ed è stato allora che il comicismo politicista (e qui, giuro, non c’è giudizio politico, bensì di pura scienza teatrale), ha incontrato il requiem. Facendo altresì sfollare la gente già paga peraltro di dose umoristica avendo apprezzato – ed era da apprezzare assai – lo stesso Santoro impegnato, a inizio puntata, in un numero di parodia di Renzi alla prova della lingua inglese. Uno sketch messo in scena con sapienza e maschera. Come mai la signora Guzzanti, pur “lavoratrice dello spettacolo”, avrebbe saputo fare. Fiasco dopo fiasco la signora – si sa – è ormai nel solco di Roberto Benigni. La schiera dei fiati s’affolla. Trombe e tromboni degenerano. E il canone comico, immerso nella marmellata dell’ideologicamente corretto dove l’ammicco non produce il cacchino plautino (dove solo Ficarra & Picone fanno da cassazione), bensì lo sbadiglio del dibattese, il gramelot recitativo il cui apice guasto è una fissazione: il sospetto come anticamera della verità, nientemeno. In eterna replica. E con i telecomandi in fuga.
Bravo, bravissimo Santoro, nel momento in cui levano le tende quelli di #teatrovalleoccupato, proprio adesso che l’Opera di Roma va in pezzi, salta la stagione a Parma e non c’è più pace in tutta Italia per il Carro di Tespi, almeno lui – figlio della tradizione degli Scarpetta, dei De Filippo, Titina e Peppino a essere più precisi – sa far teatro. In un pezzo unico, quello del mr. Renzi alle prese con la lingua inglese, ha fatto crollare la scena per quanto ne ha chiamati di applausi. Un gran bel pezzo dove però si pativa l’assenza della spalla. Non proprio Vauro ma ancora una volta quel Berlusconi che, con Santoro, seppe costruire una scena che già tra cinque anni, non di più, arriverà a rallegrare “Techetechetè”, la fortunatissima striscia di collage tivù in onda su Rai1 quando la stagione dei talk finisce e, finalmente, in estate, si vedono le cose belle. E importanti. Degne del varietà.
Il Foglio sportivo - in corpore sano