Paolo Finoglio, “L’incontro tra Clorinda e Tancredi”, dal ciclo della “Gerusalemme liberata”, 1640-’43 (Conversano, Pinacoteca comunale)

La guerra cantata

Marco Barbieri

Contro l’islam che sgozza, messe e preghiere non bastano. Torquato Tasso ha scritto un poema che è amore, sensualità, adorazione, gemma della lingua, e anche guerra di religione.

Aveva rischiato di vedersi tagliare la mano destra, accusato di aver ferito un modesto pittore della corte spagnola, Antonio de Segura. Miguel de Cervantes perse invece per sempre l’uso della mano sinistra durante la battaglia di Lepanto. E forse in quell’occasione perse anche il gusto dell’epopea, avendo provato a esercitarla in armi più che in versi. Si accorse fin da allora che esser cavalieri nell’animo – più che sui campi di battaglia – può anche bastare. La guerra di religione ha un teatro persino più adeguato e sufficiente nel cuore dell’uomo.

 

Tutto vero. A meno che il nemico si concretizzi in qualcosa di più invadente di un mulino a vento. O che l’ambizione poetica sia più pervasiva, e miri, oltre all’immensità del cuore, anche al cosmo e alla storia. All’uno e all’altra, per tutta la vita, ha fissato occhi febbrili Torquato Tasso, anima in pena e orgoglioso sintetizzatore di un mondo, di una cultura e di un sogno, quello della cattolicità cristiana, che non aveva paure e non si dava limiti, se non subendo quelli che pone il cuore dell’uomo, le sue emozioni, i suoi amori, le sue pene.

 

Pochi anni dopo, mentre il reduce di Lepanto pubblicava il primo romanzo moderno (il “Don Quijote”), il colto poeta inglese, John Milton, non senza pagare al Tasso un tributo diretto di poesia e di cultura, scrive forse l’ultima cosmogonia, quel “Paradiso perduto” che altra fortuna ebbe rispetto alle “Sette giornate del Mondo creato”. A lui, al Tasso, che dunque non si era risparmiato nemmeno un poema sul cosmo (un poema sul Mondo creato, appunto) resterà l’orgoglio dell’ultima poesia epica sulla storia, con la “Gerusalemme”: per lui “Conquistata”, per i suoi posteri, anche per quelli con il ciglio alzato e la penna intinta nell’inchiostro rosso, solo e soltanto la “Liberata”. Tra l’una e l’altra versione ci sono quasi vent’anni, la prima (Gerusalemme Liberata) viene conclusa pochi anni dopo Lepanto. L’altra (Gerusalemme Conquistata) l’anno prima della morte del poeta. Vuol dire che per circa la metà della sua vita – il Torquatino, come veniva chiamato il figlio del colto e presto dimenticato Bernardo, morì poco più che cinquantenne – fatta di un elenco sterminato di rime, dialoghi, poemi, discorsi e studi, tanti studi, si dedicò a un’opera rivolta a rammentare la prima crociata. Un’idea che nacque prima ancora che nell’aria di Lepanto si alzasse l’odore di barba bruciacchiata del Gran Visir Sokollu (Mehmed Pascià Sokolojevic).

 

Celebrare la prima crociata, negli anni del conclamato scontro di civiltà e di religione, negli anni della riforma cattolica, non era solo ripensare al passato, ma produrre insegnamento per il futuro. L’epica è la poesia che tramite il diletto (irrinunciabile strumento della meraviglia) punta diritto al giovamento. Poesia civile. Sì. Poesia che insegna, che guida, che ricorda e ammonisce. E suggerisce. Solo dopo le isteriche (ma grandi, e utili spesso) lezioni di De Sanctis e di Croce si discute di “poesia” e di “allotria”. Come se l’ambizione di dare giovamento, di insegnare, fosse (o sia) qualcosa di diverso dalla poesia. Quanta poesia e letteratura civile è stata grande poesia e grande letteratura. Certo, ci vuole l’orgoglio di una civiltà che vuole crescere e prosperare, insieme alla consapevolezza di una legittima e autoironica inquietudine, sempre governata, mai repressa.

 

La retorica non sarà mai poesia. Ma la poesia può essere retorica e come retorica – nella intuizione di Ezio Raimondi – è poesia senza aggettivi, poesia possibile, incardinata nei paradigmi della cultura letteraria di fine Rinascimento. Progetto storico e culturale, sfida letteraria e poetica tout court, di un gigante del pensiero come Tasso, che vuol essere tutto; non rinuncia nemmeno a essere fintamente leggero, precursore di Arcadia – s’ei piace ei lice – con una favola pastorale, l’“Aminta”, destinata nel tempo a emozionare e condizionare più della “Gerusalemme”. Ma è nella “Gerusalemme”, Liberata e Conquistata, che il Tasso sfida Dante e Virgilio (dopo aver ereditato, ruminato e assimilato tutta la lirica petrarchesca), e Omero sopra tutti, rinvigorendo le figure retoriche, trasfigurandole in figure antropologiche; trasformando il viaggio testuale in un percorso di interpretazione della vita, della storia e del mondo.

 

Solo la cristianità post tridentina poteva osare tanto, sfidando in un unico contenitore il sacro e la sua profanazione, la magia nera e bianca, i miti della guerra e dell’amore, la bellezza di Armida e l’eroicità di Goffredo, in un’unica tessitura storica, la prima crociata, riproponibile non solo come testo, ma come fatto, come episodio storico, auspicabile e riproponibile persino per il destinatario, committente, Alfonso II d’Este, cui Tasso dedica insieme al poema un’ottava che lo sprona a rilanciare una nuova crociata: “Oh s’avvenisse mai che contra gli empi / che tutte infesteran le terre e i mari, / e de la pace in quei miseri tempi / daran le leggi a i popoli più chiari, / duce s’en gisse a vendicare i templi / da lor distrutti e i violati altari, / qual ei giusta faria grave vendetta / su ‘l gran tiranno e su l’iniqua setta!”.

 

Altro che la “violenza incomparabilmente superiore”, invocata oggi. Molto di più e molto più sistematico progetto. Un tutto che sfida il nulla, un vero che attingendo al verosimile (signori, qui si arriva d’un balzo al Manzoni e al fondamento della letteratura moderna, non solo italiana!) deve smentire il falso, vincendolo anche sul terreno della piacevolezza e del diletto poetico. In ciò “giovando”, arricchendo, costruendo il presente e il futuro, agganciato fortemente al passato più solido.

 

In questa logica progettuale della poesia epica non è casuale la scelta di una città, come protagonista. E’ passato il tempo – archiviato ormai per il Tasso poeta della cristianità – del protagonismo epico-cavalleresco che dai cicli bretoni e carolingi ha sempre messo in luce l’eroe. L’“Orlando”, Innamorato o Furioso, non sarà più il “campione” singolo e teatrale. Solo il Tassino progetta un Rinaldo, che poi diventerà prestissimo, appena adulto, la premessa della Gerusalemme. E’ la città, il luogo dell’organizzazione civile e della vita sociale, l’oggetto dell’epopea cristiana. In questo Torquato Tasso soffre di una vertigine creativa, in cui si contrappone persino a Omero, solo apparentemente cantore di una città, Troia, e della sua guerra, invece bardo dell’ira di Achille. Ancora uomini, singoli, che diventano Odisseo, o Enea, ma mai luoghi di uomini convertiti: da convertire è il mondo, uomo per uomo; e la città è il mondo. La città è la patria umana e celeste. C’è chi ha addirittura intuito nell’impianto delle venti parti dell’addizione erculea di Ferrara, che Tasso conosceva tanto bene, da frequentatore della corte estense, ma anche da recluso per sette anni nell’ospedale di Sant’Anna, lo schema dei venti canti della “Liberata”. L’asimmetria urbanistica si rispecchia nell’asimmetria dell’impianto dell’opera (che ha il suo scioglimento oltre la metà dei canti, al XIII e XIV) e del verso, con il ricorso esasperato all’enjambement. I venti canti diventeranno ventiquattro (libri, non più canti) nella “Conquistata”, in una sfida infinita alla classicità, in una emancipazione dalla modernità (la città perfetta) che fissasse occhi e cuore all’eterno, incarnato nella storia, classicizzato.

 

Di quella città, di quel territorio vuol sapere tutto, pur non muovendosi mai dall’Italia (tranne che per un breve viaggio in Francia): “Perché io vorrei il sito particolare de la città (…) nel sito particolare dapoi si considera a qual parte del mondo la città sia volta e a quai venti esposta”. Un’acribia da geografo che gli fa scoprire, nella Conquistata, la differenza di prospettiva che si genera nella città alta e in quella bassa (Gerusalemme, come Bergamo, l’altra città della sua geografia esistenziale). Rigore documentario finalizzato a un mondo da salvare, tutto, senza perdere nulla. E per farlo ecco il supporto della meraviglia, del verosimile che integra il vero per renderlo cantabile: “Scrissi di vera storia e d’eroi veri, / ma gli accrebbi e gli ornai, quasi pittore / che finga altrui di quel ch’egli è migliore”.

 

Se in Spagna l’epopea della Reconquista diventa un carattere nazionale, il progetto di cristianità da affermare è per Tasso sfida poetica, culturale, storica. Universale, cattolica. La guerra – le guerre – diventa un tragico accidente. Necessario persino, per redimere il mondo. Per convertirlo serve la spada, quanto il libro. Ma Torquato sa usare solo il libro. E in questo è un gigante, misconosciuto, perché ridotto a macchietta preromantica da una modernità che ha travolto la fede cristiana e la poesia – e la cultura – sua figlia.

 

[**Video_box_2**]Il destino dei giganti è di portare nani sulle spalle. Il destino dei ponti è di riconoscere protagoniste le sponde. Tasso è gigante e ponte. Ponte tra un mondo – una poesia e una filosofia – precristiano e uno cristianizzato. A sua insaputa diventerà ponte, e quindi trascurato rispetto alle rive collegate, tra la fine della classicità e i turbamenti della modernità, persino psicanalitica. “Fratello spirituale” per Giacomo Leopardi, che sulla sua tomba e davanti alla sua quercia sul Gianicolo si inginocchiò e pianse; protagonista di un dramma di Goethe. Tasso è un po’ Manzoni, per restare ai confini italici, e un po’ Proust: chi non lo legge lo detesta, e molti che l’hanno letto l’hanno detestato ancora di più. Vale per Tasso come per Proust. Qualcuno li ama in modo assoluto. L’ambizione di una tela di ragno che, a trame fitte, possa trattenere tutto il sapere – la storia, l’arte, la cultura, la natura, l’amore, la musica, la pittura – è la medesima per entrambi. Il senso che pervade questa intenzione è opposto: antimodernità contro modernità estrema. La nevrosi che si genera è la stessa. Torquato vuol essere all’altezza di presentarsi al cospetto di Dio, del Dio che con il Cristo crocifisso ha salvato il mondo, portandogli i talenti moltiplicati; Marcel vuole sfidare quel Dio, o solo il suo Io, creando un Gotha più alto e più bello di quello derivante dalla nobiltà di lignaggio; esclusivo, forse solo per sé.

 

Dopo i secoli delle scoperte geografiche, che fecero il mondo più piccolo, quanto più lo scoprirono grande e diverso; dopo gli anni in cui le potenze politiche e militari si trovarono fragili e incapaci di governare il mondo, sempre più frantumato e sempre più esposto ad armi, popoli e appetiti diversi; dopo gli anni delle sfide alla fede cristiana, sia filosofica che pastorale, l’incredibile Torquato si mette sulle spalle il dovere di una sintesi poetica e quindi culturale che sia adeguata alla rinnovata e riformata cattolicità. Non per dovere, ma per necessità di fede; con lo zelo di un vescovo, che come san Carlo Borromeo si rimetteva a calcare i sentieri della diocesi, così il poeta cattolico percorre tutte le strade della poesia, edificando la chiesa cattedrale, fatta di stupore, di incanto, di estasi radicata nella storia e rivolta vertiginosamente all’eterno.

 

Una grandezza così non ha paura di guerre. Anche se non è la guerra fine a se stessa. Goffredo di Buglione raccomanda ai suoi, dopo il vittorioso attacco: “Ite, e curate quei c’han fatto acquisto / di questa patria a noi co ’l sangue loro. / Ciò più conviensi a i cavalier di Cristo, / che desio di vendetta o di tesoro. / Troppo, ahi! Troppo di strage oggi s’è visto, / troppa in alcuni avidità de l’oro: / rapir più oltra, e incrudelir i’ vieto”. Il ritorno alla patria, promessa di patria celeste, non autorizza a crudeltà. Non ci si pente della morte impartita. Ma del “troppo”. Nella riconquista – che è un ritorno alla patria – nella fine dell’esilio ci deve essere misura, un onore (Milton evoca un non dissimile “native honor” del “Paradiso perduto”), un decoro, un’etica che solo il barocco trasformerà in etichetta, estendendo l’etica a tutti gli atti quotidiani della vita, anche ai più minuti: un diminutivo/vezzeggiativo che diventerà dispregiativo.

 

Quando quantità e qualità si confondono inizia l’incubo della modernità e della storia dell’occidente. Tra i tanti sensi di colpa, se l’occidente ha davvero una colpa, questa è il culto della modernità, o peggio della contemporaneità. L’incapacità di riconoscersi sospesi (o transeunti) tra passato e futuro, su quel ponte che dà vertigine ma che non può diventare casa o città. La modernità, anzi la contemporaneità, è a due dimensioni; la terza (lo spazio e la storia) o la quarta (qui è il tempo, ma dobbiamo davvero aspettare Proust) sono perdute, come il Paradiso di Milton. La contemporaneità, come colpa dell’occidente, è un piano su cui si può solo esistere, magari lavorare: un piano inclinato, in cui il divenire storico è incessante, obbligato, senza possibile contatto con il passato, se non il tempo necessario per allontanarsene. Il passato dell’occidente e della sua ossessione di contemporaneità è sempre e solo “indietro”. A monte. Peccato che a monte ci sia sempre un lupo. A valle pascolano gli agnelli, che accettano timorosi anche l’accusa di intorbidare l’acqua.

 

L’antichità, la radice, il monte, il passato è sempre un lupo. L’animale, la ferocia, a cui la cultura moderna e contemporanea non vuole ribellarsi, ma da cui vuole liberarsi sociologicamente, senza conversione, solo scendendo a valle. Scendere a patti con il lupo e con i suoi ritorni di ferocia, che è sempre ferocia religiosa, è l’unico obiettivo misericordioso di una civiltà, che si immagina liberata dal lupo così come dalla religione. La civilizzazione è un processo di discesa a valle; dal monte alla città. Per l’ambizione dell’epica tassesca è la città che deve essere liberata e conquistata alla fede, altrimenti resta preda, prima o poi, della ferocia che torna dal passato; del sacro violento, delle religioni che vogliono affermare un Dio senza infedeli.

 

La Gerusalemme della prima crociata, liberata e conquistata dalla poesia del Tasso, è il ritorno all’Eden, al Paradiso perduto, luogo in cui Dio scopre gli infedeli (Adamo ed Eva), ma non li sgozza, li caccia, in attesa di un ritorno. Preparando un ritorno, un ponte; una croce che faccia da ponte. La poesia epica del Tasso è una guerra cantata, perché sia di giovamento a ogni guerra a ogni spargimento di sangue necessario per riconnettersi al passato, al Sepolcro, dove tutto ebbe origine e salvezza.