Tra Califfato e Mondo Nuovo. Paradossi belgi sotto il segno jihadista
Il processo per terrorismo che si è aperto ieri ad Anversa a carico di quarantasei appartenenti al gruppo Sharia4Belgium ha visto in aula solo otto degli accusati, tra i quali il trentaduenne ex portavoce Fouad Belkacem, già detenuto: gli altri sono in Siria, a combattere per il Califfato.
Roma. Il processo per terrorismo che si è aperto ieri ad Anversa a carico di quarantasei appartenenti al gruppo Sharia4Belgium, ufficialmente sciolto nel 2012, ha visto in aula solo otto degli accusati, tra i quali il trentaduenne ex portavoce Fouad Belkacem, già detenuto: gli altri sono in Siria, a combattere per il Califfato.
Il Belgio è il paese europeo che, in rapporto alla popolazione, conta il più alto numero di jihadisti – circa trecento – partiti per combattere in medio oriente. Prima dell’attentato del 24 maggio scorso al museo ebraico di Bruxelles, nel quale morirono quattro persone, le cronache dal “plat pays” ci avevano soprattutto abituato, negli ultimi tempi, a novità degne del “Mondo Nuovo” di Huxley in tema di eutanasia. In Belgio da febbraio è estesa anche ai bambini, può essere praticata su persone anziane non malate ma “spaventate dalla solitudine” e ora, con il caso dello stupratore omicida Frank Van Den Bleeken, si sta trasformando in pena di morte alternativa all’ergastolo su richiesta del condannato (in un paese che si pensava la pena di morte l’avesse abolita). Meno noto il primato jihadista, di cui ha scritto sul Figaro di domenica il senatore belga Alain Destexhe. Liberale, ex segretario generale di Medici senza frontiere e autore nel 2009, con il giornalista Claude Demelenne, del pamphlet “Lettre aux progressistes qui flirtent avec l’islam réac”, Destexhe accusa i governanti belgi di aver ignorato a lungo il fenomeno del radicalismo islamico: “Il piccolo Belgio ha già conosciuto una decina di processi per terrorismo islamico. E tuttavia è stato necessario l’attentato di Mehdi Nemmouche contro il museo ebraico di Bruxelles e il problema rappresentato dai belgi in Siria, con la prospettiva del loro ritorno, perché il grande pubblico prendesse coscienza dell’ampiezza della minaccia”. Destexhe ricorda che, in Afghanistan, il famoso comandante Massoud fu assassinato da tunisini residenti in Belgio, muniti di falsi passaporti belgi: “Quell’episodio avrebbe dovuto battere un colpo di avvertimento. Ma la maggior parte dei politici ha scelto di non ascoltare i sermoni sempre più radicali che nelle moschee affermano la superiorità dell’islam sui valori occidentali, e di non dire nulla, piuttosto che correre il rischio di ‘stigmatizzare’ o di inimicarsi una comunità che ha sempre più peso elettorale”.
Il Belgio, le cui regole per la concessione della cittadinanza sono “le più generose d’Europa”, nella capitale e in città “come Anversa o Verviers, è minato dal comunitarismo islamico, senza disporre di una dottrina di riferimento in materia di integrazione”. Quando le autorità “hanno appreso della presenza di belgi in Siria, la prima risposta ufficiale è stata di tipo umanitario… gli aspiranti terroristi erano per lo più giovani e sono stati visti come vittime della società… c’è voluta l’esasperazione di qualche borgomastro fiammingo e qualche messa in scena spettacolare come il video dove un bambino di sette anni, originario di una comunità di Bruxelles, chiama al jihad sotto lo sguardo compiaciuto del padre, perché ci si svegliasse”. Eppure, spiega ancora Destexhe, “il politicamente corretto fa ancora più danni in Belgio che in Francia”. C’è chi, come il quotidiano Soir, chiede di “investire nello scambio, nella scuola, nel lavoro”. Ma è possibile “uno ‘scambio’ con un jihadista il cui unico scopo è quello di distruggere la nostra società?”, chiede Destexhe. E ricorda il “giovane predicatore di Anderlecht, città più nota per la sua squadra di calcio che come focolaio di radicalismo, che aveva ventimila fan su Facebook, prima di sparire in Siria facendo appello alla distruzione del Belgio”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano