Jean Monnet in un'illustrazione del Time

L'errore di Monnet

Marco Valerio Lo Prete

Piccoli passi e grandi crisi rafforzano l’Ue. Ma è sempre vero? No. Uno studio di Zingales & altri.

Roma. “L’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi”, scrisse nel 1976 Jean Monnet, ideatore della dichiarazione di Robert Schuman che nel 1950 lanciò l’Alta Autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, embrione della futura integrazione politico-economica dell’area. E’ probabile tuttavia che uno dei padri fondatori dell’Unione europea – al quale in Italia si sono ispirate esplicitamente personalità come Tommaso Padoa-Schioppa, Romano Prodi e Mario Monti – abbia peccato d’ottimismo. La crisi della moneta unica iniziata nel 2009 potrebbe poi definitivamente smentirlo. Almeno stando a tesi e numeri contenuti in un recentissimo studio di Luigi Guiso (dell’Einaudi Institute finanziato dalla Banca d’Italia), Paola Sapienza (Northwestern University) e Luigi Zingales (Università di Chicago, editorialista del Sole 24 Ore).

 

I tre economisti, prima di incrociare abilmente alcune serie storiche di dati macroeconomici e sondaggi d’opinione effettuati dall’Eurobarometro, ricostruiscono il pensiero di Monnet e la ratio della sua politica dei “piccoli passi”. “Dal punto di vista dei funzionalisti, l’integrazione non è il risultato di un processo democratico, ma il prodotto degli sforzi di un’élite illuminata”. Il meccanismo è quello della “reazione a catena”. Meccanismo che si avvia con la condivisione a livello sovranazionale di alcune funzioni, meglio se apparentemente specialistiche (esempio: carbone e acciaio), dopodiché politici nazionali ed elettori si convinceranno dei benefici e saranno incentivati ad accettare una maggiore integrazione. Alla base di ciò, c’è “l’assunto per cui le contraddizioni si risolvono sempre con un passo in avanti, non con un passo indietro, e ciò accresce il sostegno al progetto europeo”. Dovrebbe valere anche per l’Unione economica e monetaria, “Emu” in inglese, “lo stesso nome di quell’uccello australiano che non sa camminare all’indietro”, disse una volta Padoa-Schioppa. Solo che i sondaggi analizzati da Zingales & co. dicono anche altro: l’eurofilia è cresciuta fino al 1992, salvo poi cominciare a scemare. Ecco perché.

 

Guiso, Sapienza e Zingales, osservando i primi 15 paesi che hanno aderito all’Ue, riconoscono “un continuo miglioramento del sentimento filoeuropeo durante il periodo che porta al Trattato di Maastricht (1992): al suo picco, nel primo trimestre del 1992, i sostenitori dell’integrazione nell’Europa meridionale erano il 69 per cento, nell’Europa centrale il 62, mentre nell’Europa del nord il 54 per cento degli intervistati credeva che l’appartenenza all’Ue fosse di beneficio per il loro paese”. Dopodiché cominciano i guai per lo schema di Monnet.

 

I “passi” in avanti compiuti, agli occhi dell’opinione pubblica, sono sembrati troppo lunghi o comunque mal coordinati: a un anno dall’approvazione di Maastricht, crollavano infatti i consensi per il completamento del mercato unico. Anche se reggevano i consensi per una maggiore integrazione politica, soprattutto in quei paesi in cui si partiva da livelli più alti: “I paesi con istituzioni relativamente inefficienti sembrano più felici di essere parte dell’Ue”, sperando in una correzione dei propri limiti istituzionali. Anche l’allargamento a est dell’Ue, nel 2004, ha scalfito l’europeismo nei paesi considerati. Livello di disoccupazione e spread tra i propri titoli sovrani e il Bund tedesco sono gli indicatori che meglio predicono la disaffezione dei cittadini: un punto percentuale di disoccupazione in più, secondo i tre economisti, equivale in media a un punto in meno di sostegno alla membership.

 

[**Video_box_2**]Anche così si spiegano gli effetti del terzo “momento spartiacque” – dopo Maastricht e l’allargamento a est – identificato dagli autori, cioè la crisi dell’Eurozona iniziata nel 2009. Effetti però non sempre scontati. Per esempio nei paesi meridionali, Italia inclusa, è cresciuto il numero di quanti sostengono che Bruxelles si muove nella direzione errata, ma è aumentato ancora di più il numero di quanti imputano ai propri governi errori perfino peggiori. Inoltre, in alcuni paesi, l’immagine della Banca centrale europea (Bce) si è deteriorata molto più di quella della moneta unica, specialmente nell’europeriferia. Cioè proprio in quei paesi in cui i tre economisti valutano che la politica monetaria della Bce abbia deviato maggiormente dalla politica che sarebbe stata richiesta dalle esigenze economiche del paese (e calcolata con la regola di Taylor). A fronte di tutto ciò, “nella totalità dei paesi, eccezion fatta per l’Italia, resiste una forte maggioranza a sostegno dell’euro”. Ecco dunque il baco del metodo Monnet: oggi, stando ai sondaggi, per la prima volta in Europa “non c’è il desiderio di andare avanti, ma è troppa la paura di tornare indietro”. Di crisi in crisi, di piccolo passo in piccolo passo, “l’integrazione europea è avanzata ed è diventata quasi irreversibile”. Come voleva Monnet. “D’altra parte però questa strategia ha funzionato fino a oggi al costo di mettere a rischio la futura sostenibilità del progetto”. Perché tutto si può permettere oggi l’Europa, tranne che “restare immobile”. La “reazione a catena”, di “natura non democratica”, può finire in un “meltdown”, che si traduce in italiano con il termine “collasso”.