Se questo è uno scafista
Un caos politico e sociale che i media chiamano emergenza, ma che a guardare bene è un conflitto a bassa intensità. Cosa succede nei porti siciliani dopo gli sbarchi, tra interrogatori e giovani trafficanti. Un’inchiesta.
Il primo scafista che si riesce a guardare negli occhi nel porto di Augusta, nella provincia di Siracusa, è egiziano e ha da poco compiuto diciotto anni. Appollaiato in un angolo, all’esterno dell’ufficio della capitaneria di porto, si contorce le mani e piange. Appena sbarcato, nella silenziosa marcia percorsa in fila indiana per compiere il breve tragitto che separa il molo dai tendoni che servono per la prima accoglienza, ha cercato di scappare a piedi, ma è stato fermato immediatamente dalle forze dell’ordine. E questo davanti allo sguardo attento del sostituto commissario Carlo Parini, direttore del Gicic, il Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della procura di Siracusa (sulle cui operazioni vigilia il sostituto procuratore Antonio Nicastro) con una piccola squadra di dieci uomini fra poliziotti, agenti della Guardia di Finanza, ufficiali della polizia marittima. Il commissario pronuncia una sola parola: “Essayed”. Poi socchiude gli occhi, lui che è alto e robusto come un gigante buono, corporatura e lineamenti ereditati forse dai suoi avi garibaldini, si siede e, imperscrutabile, aggiunge: “Aspettiamo”. Essayed è il cognome di un’aristocrazia a noi ignota, quella di una famiglia di pescatori trasformati in trafficanti di uomini. Ma a vederlo, questo rampollo dell’aristocrazia del racket degli esseri umani, suscita solo pena. Magro, faccia scavata, occhi fuori dalle orbite, sta seduto per terra e singhiozza. “E’ perché ha capito che è fottuto”, spiegano i carabinieri. Perché sa che a casa non tornerà per un po’, che il suo battesimo di fuoco è finito male. A meno che decida di parlare, di accettare di essere confidente della polizia, di aiutare a trovare i basisti, che non sono qui in Sicilia. Gli ultimi basisti di un certo rilievo che sono stati arrestati in Italia se ne stavano in un appartamento milanese ad aspettare i migranti sbarcati per ricevere l’ultima tranche dei soldi pagati dalla famiglia ai sensali, quelli che hanno offerto il viaggio in qualche villaggio, dove da decenni vanno a predicare un nuovo verbo, la lieta novella della fuga in Europa.
Forse però lui, il giovane scafista appena diventato maggiorenne, non era stato addestrato bene: si è fatto prendere con le carte nautiche di tutti i porti italiani nella tasca dei jeans, e delle lamette per tagliarsi i polsi, nella speranza di farsi mandare in un ospedale invece che in carcere, per poi riuscire a fuggire. “O piangi o parli, tutte e due le cose non le puoi fare”, gli spiega un carabiniere, che lo incalza in un angolo del porto. E’ un pomeriggio di fine estate e il Foglio riesce ad assistere agli interrogatori dei presunti scafisti e alle deposizioni dei profughi in un ufficio della capitaneria di porto, grazie alla disponibilità degli ufficiali dell’Interforze, che vogliono mostrarci l’altro volto, ignoto, dell’emergenza immigrazione. Anche se sarebbe meglio parlare di un esodo inarrestabile, una guerra sporca e atroce mai dichiarata, che dall’inizio del 2014, secondo il rapporto “Fatal Journeys: Tracking Lives lost during Migration” reso noto a Ginevra dall’Oim, ha provocato solo nel Mediterraneo almeno 3.072 vittime.
Così ci siamo infilati nei porti siciliani per vedere cosa accade quando, concluse le operazioni di protocollo per accogliere in Italia i profughi salvati, seppelliti i sommersi, comincia il lavoro complesso delle indagini giudiziarie per dividere i buoni dai cattivi, i fuggitivi dagli scafisti, per cercare di dirigere e di controllare il flusso del traffico degli esseri umani, che si riversa tutti i giorni soprattutto nei porti della Sicilia orientale.
Passata l’angoscia del suo primo viaggio fallito, Moser, troppo giovane per essere scaltro, troppo vecchio per evitare il carcere, parla, ma quando parla, non si viene a capo di nulla perché la sua versione, confermata dai profughi, fa intuire fino a che punto la guerra contro il traffico degli esseri umani sia già stata persa in partenza, perché bisognava intervenire prima, perché ormai è troppo tardi. Moser spiega che dopo l’ultimo trasferimento dei passeggeri da una barca di ferro a un carretta di legno, trasbordo fatto per tenersi la barca in buone condizioni da riportare indietro, quando gli italiani stavano per arrivare per salvare i profughi, gli scafisti veri sono tornati in Egitto. E lo hanno lasciato da solo a tenere il timone per dare tempo al mercantile italiano di arrivare. Perché ormai dall’Egitto i trafficanti mandano i più giovani per non perdere marinai-scafisti addestrati, preziosi come il petrolio. E poi sanno che se hanno sedici anni nessun poliziotto avrà cuore di mandarli in un carcere minorile. Oggi l’interprete è un egiziano, e tutti lo chiamano Aldo, ma poi ci sono anche Giovanni e Giacomo, soprannominati così in omaggio al popolare trio di comici. Aldo fa domande ai profughi perché così parlano più volentieri, e racconta al Foglio di essere amareggiato. “Ora dal mio paese mandano i ragazzini in mezzo al mare a fare gli scafisti. Ora i trafficanti mandano i picciotti”, spiega, accaldato dopo ore di colloqui, che si sono svolti in uffici senza aria condizionata in una giornata afosa e umida. Poi Aldo si rivolge al commissario Parini e gli segnala che il numero 12 e il numero 21, dei profughi sbarcati, potrebbero essere scafisti.
Quest’anno ad Augusta ne hanno arrestati già duecento, i trafficanti hanno capito che stanno rischiando troppo e quindi mandano i più giovani perché la loro agenzia di viaggi per esseri umani in fuga, gestita con capacità imprenditoriale, non può permettersi di perdere troppo personale specializzato. Costi di gestione aziendale. Gli scafisti delle organizzazioni egiziane sono quelli con cui poliziotti e investigatori preferiscono avere a che fare, perché per gli egiziani trasportare immigrati e profughi e portarli su fino a Milano ormai è un antico mestiere, e molti lo fanno con professionale cura dei loro passeggeri, per evitare che muoiano. Altrimenti si sparge la voce e chi vuole andare via dall’Africa si rivolge alla concorrenza.
Se i barconi arrivano dalla Libia, invece, la storia è diversa, più atroce, incontrollabile. Sulle coste libiche a dirigere il traffico ci sono i briganti del Terzo millennio, milizie armate di fucili e bastoni, che reclutano pescatori maghrebini, soprattutto tunisini, qualche volta anche egiziani, senza scrupoli. Li addestrano velocemente in modo improvvisato gli africani che accettano di fare gli scafisti per pagarsi il viaggio, senza sapere come fare a governare le correnti del mare perché loro, il mare, non lo avevano mai visto, prima di arrivare in Libia. I trafficanti prendono i soldi, anche pochi, ma maledetti e subito, e poi non importa se i passeggeri affogano a poche miglia dai porti.
Gli interrogatori proseguono. Nel frattempo sullo schermo della capitaneria di porto si proietta una sequenza di immagini riprese durante il salvataggio. Una carretta blu e bianca si avvicina a una petroliera che sta per salvare centinaia di profughi. Sembra quasi vuota. Sul ponte poche decine di immigrati. Sequenza successiva: escono dalle stive come topi altre decine di uomini, donne e bambini. Terza sequenza: sono tutti fuori, a centinaia. Con le mani si aggrappano al mercantile, anche per evitare di andare a sbattere col rischio che la nave si inabissi. Solo dopo, finiti gli interrogatori, sentiti i testimoni, si saprà che i veri scafisti sono già andati via, prima che il mercantile arrivasse a salvarli, sulla nave buona, per così dire, di ferro.
Il giovane Moser, seduto per terra e appoggiato a un muro, dopo qualche ora smette di piangere e alza lo sguardo, incerto, sconcertato, verso gli ufficiali dell’Interforze di Siracusa. E racconta parzialmente ciò che è successo prima dell’arrivo del mercantile che li ha salvati. Spiega al traduttore che, dopo un litigio violento fra gli organizzatori del viaggio – organizzatori che stanno diventando sempre più voraci, ubriacati e storditi da viaggi facili che fruttano circa un milione di euro a ogni traversata – con lo scafista rimasto sulla carretta fatiscente a tenere a galla una nave troppo piena, lui è rimasto da solo al comando della carretta. Durante il litigio uno dei pirati, che si sentiva a rischio perché la sua merce era troppa e pensava di non potercela fare a rimanere a galla, ha fatto entrare acqua nella barca per far capire che era disposto ad affondare, piuttosto di imbarcare altri profughi. Ma era un gesto fatto solo per creare panico e deviare l’attenzione dei salvatori italiani sulla carretta, e permettere ai trafficanti e agli altri scafisti di fuggire, di tornare indietro, indisturbati, in Egitto.
In una stanza del porto commerciale di Augusta, Aldo scrive in arabo la dinamica dell’ennesimo sbarco avvenuto a 150 miglia dalle coste siciliane. I poliziotti leggono il suo verbale, ma sanno già che non c’è bisogno di tradurre: questa volta non ci saranno altri scafisti da arrestare. Sono stati più furbi. In una stanza, seduti per terra, i profughi mangiano, dopo aver testimoniato. Hanno sguardi sereni, sanno che il loro contributo verrà premiato. Non c’è tempo per soffermarsi, riflettere, filosofeggiare, analizzare. Il sole sta tramontando e bisogna prepararsi per un nuovo sbarco. Altri uomini, donne e bambini di cui non sappiamo né sapremo nulla – tranne per i profughi siriani che arrivano con ori, gioielli, migliaia di dollari cuciti dentro gli abiti, i loro ricordi di vite agiate nei piccoli bagagli, e dicono di aver preferito rischiare la sorte in mare piuttosto che morire sotto le bombe di Bashar el Assad – scendono silenziosamente da un altro mercantile che ha messo a disposizione il suo equipaggio per portare i profughi in porto. Molti arrivano dall’Eritrea, dalla Nigeria, dalla Somalia, dal Ghana. Sono africani, sono quelli che vengono accolti con più compassione, perché ai piedi hanno ceppi invisibili. Nuovi schiavi d’Africa. Miserabili, valgono poco, qualche centinaio di euro al massimo per traversata. Vengono tenuti per mesi prigionieri nei capannoni vicino alle coste libiche. Picchiati, torturati – alcune donne violentate hanno mostrato persino i segni delle scariche elettriche. Maltrattati dai libici, che hanno un profondo odio razziale verso i neri, e sono i primi a morire.
Mare nostrum e mare monstrum. O per dirla con meno poesia: che cosa accade quando si spengono i riflettori sulle facce stranite ma sorridenti dei profughi salvati, stupiti di averla scampata, e sui volti compenetrati e compassionevoli dei salvatori? Cosa succede nei porti siciliani, dove ogni giorno si abbatte una nuova bomba umanitaria, si comincia a tessere la delicata trama delle indagini giudiziarie? Si comincia, ci si prova almeno, a dividere i buoni dai cattivi, i profughi dagli immigrati clandestini, le vittime dai carnefici, gli scafisti dai passeggeri. E infine gli scafisti per caso da quelli professionisti. E bisogna affidarsi all’esperienza e all’intuito, e riconoscere con uno sguardo, nel gruppo di migranti appena sbarcato, chi può essere assoldato come collaboratore o confidente, perché senza il loro aiuto non si va da nessuna parte. E’ a questo punto che Mare nostrum, finita l’efficienza del ripescaggio e la retorica del “no child left behind”, diventa un limbo nel quale squadre sparute di investigatori, poliziotti, carabinieri lavorano in trincea, lontano dai burocrati italiani ed europei, per gestire l’emergenza, per ricreare il simulacro della giustizia. Ed è qui che ci si scontra ogni giorno con la banalità del male del traffico degli esseri umani. Dentro agli uffici spogli delle capitanerie di porto, dove si cerca di gestire con un mix di sapienza e intuito un esodo inarrestabile. E anche con il timore di sbagliare, ora che in Europa si aggira lo spettro dell’Is, perché fra finti palestinesi, veri siriani, scafisti scafati e scaltri maghrebini, non si sa mai chi entra, chi esce, chi si ferma e chi sia davvero pericoloso.
Per vedere l’altro volto, sconosciuto, dell’emergenza umanitaria, bisogna venire quaggiù, per riuscire a infilarsi nei porti fra Siracusa e Ragusa, dove arrivano a migliaia, anche quattromila profughi in un solo fine settimana. Anche se poi quando si guarda negli occhi gli scafisti arrestati, si capisce che in fondo non hanno nulla da dire. Basta leggere le loro parziali confessioni, contenute in centinaia di verbali, mentre nella stanza di fianco pazienti interpreti ascoltano i profughi, che accettano di testimoniare. Per riconoscenza e per convenienza, per un tacito patto con i propri salvatori, per ripicca contro chi li ha tenuti stipati dentro una stiva con la misura di un tappo d’acqua al giorno, quando va bene. Attenti però a non svelare nulla, se invece chi guidava il barcone era come loro, un disperato affamato. O magari un organizzatore del racket che, giunto in Italia, deve poi portarli fino al nord. Fino a Milano, di preferenza, dove spesso da Messina o da Siracusa i siriani arrivano a bordo di un taxi, se hanno i soldi per permetterselo. Altrimenti c’è il treno.
Le confessioni degli scafisti iniziano sempre con la stessa frase rituale: “Voglio collaborare, non pensavo di aver commesso alcun reato contro lo stato italiano, datemi uno sconto di pena”. Gli scafisti sanno che se sono incensurati e collaborativi, con le attenuanti rimarranno in galera per sei mesi e poi espulsi, e grazie ai voli charter del Viminale potranno tornare a casa con un biglietto gratuito e ricominciare da capo. Ricominciare salendo su barconi dove stipare uomini, donne e bambini, vivi e qualche volta già morti, ammazzati sulle coste libiche, guadagnando diverse migliaia di euro (dipende dall’organizzazione). E in fretta. Perché come i calciatori, gli scafisti hanno una data di scadenza e dopo due arresti, tre al massimo, il gioco si fa troppo rischioso, le condanne diventano più lunghe e se si parla, se si collabora con la polizia italiana, alle famiglie può accadere qualcosa.
E’ dentro questi porti, che il Foglio per diversi giorni ha cercato di capire la dimensione di un caos politico e sociale che i media chiamano per comodità emergenza, ma che a guardare bene è un conflitto a bassa intensità, ma non annoverato nemmeno fra quelli che compongono il puzzle della “Terza guerra mondiale, ma a pezzi”, di cui ha parlato con solenne e grave semplicità Papa Francesco.
Da mesi sappiamo tutto del meccanismo di salvataggio, dell’eroismo dei militari che sottraggono i profughi al mare e alla morte, della generosità delle petroliere e dei mercantili che fanno servizio taxi dal Canale di Sicilia alla rada dei porti per portare in salvo ogni giorno che Dio manda in terra centinaia di disgraziati. Più complicato è sapere che cosa succede poi, dopo gli sbarchi. Assistiti gli ammalati, fornita acqua agli assetati, pane agli affamati, scarpe agli scalzi, coperte calde e giocattoli ai bambini, bisogna poi cominciare a comprendere cosa è successo sulle loro carrette durante il viaggio. Per illudersi, più che altro, di poter vincere una battaglia di monitoraggio e gestione dell’ordine che è già stata persa in partenza contro il traffico seriale degli esseri umani.
Un traffico che, paradossalmente ma certo non inspiegabilmente, viene amplificato dal dispositivo di Mare Nostrum. Perché noi siamo europei, e apparteniamo a una civiltà che rispetta la vita umana. E se si sa che davanti alle coste libiche i briganti armati, una volta incassati i soldi, ammazzano i passeggeri o li mettono su canotti gonfiabili che affondano poche ore dopo la partenza, allora bisogna andare a salvarli a tutti i costi. Anche pagando il prezzo di favorire, nostro malgrado, il lavoro dei trafficanti. Di creare aspettativa e dunque mercato. Dentro i porti, dopo gli sbarchi, tutta l’attenzione è verso gli scafisti. Bisogna prenderli, aumentare i numeri degli arresti per dimostrare che qualcosa si può fare contro il traffico degli esseri umani, anche se qui lo sanno tutti che questa guerra sarà difficile vincerla, che è appena cominciata e durerà anni. E’ anche facile dire che gli scafisti sono criminali, bisogna arrestarli, inasprire le pene, convincerli a smettere di fare i terminali delle organizzazioni criminali che usano gli esseri umani in fuga dalle guerre e dalla miseria come fattore di lucro, o carne da macello da lanciare in mare verso le nostre coste, soprattutto siciliane, per alimentare il caos, sostenere il mercato o la tensione politica.
Può sembrare rassicurante leggere le comunicazioni della polizia di stato, che conta i numeri degli scafisti arrestati (121 a Ragusa oltre 200 a Siracusa solo nel 2014), portati negli istituti penitenziari, ormai ribattezzati le carceri degli scafisti. Ma poi quando si riesce, come ha fatto il Foglio, a rimanere per giorni e notti nei porti siciliani, dove arriva la maggioranza dei migranti, e si osserva da vicino cosa accade a ogni nuovo sbarco, la prospettiva cambia. E’ lì, dove si accolgono i profughi sbarcati, che c’è da dividere i buoni dai cattivi. Qui si premia chi collabora, si punisce chi ha vessato i passeggeri. E si chiude un occhio sui minorenni – la nuova generazione di scafisti egiziani e tunisini – nella speranza di farli rimanere in Italia a studiare, e interrompere la loro carriera di trafficanti di uomini.
(primo di due articoli)
Il Foglio sportivo - in corpore sano