I fasti della rivoluzione culturale di Amazon al Washington Post

Jeff Bezos sta traghettando il giornale fuori dalle anguste logiche della capitale senza foga rottamatoria: vuole esportare anche nella redazione i princìpi che hanno reso Amazon l’“everything store” più grande del mondo.

New York. Jeff Bezos non ha un obiettivo preciso per il Washington Post, ma sa come raggiungerlo. Conosce la strada, sulla meta ragiona lungo la via. E le vie del proprietario di Amazon non sono infinite – perfino l’ego di Bezos ha un limite – ma poco ci manca. Si tratta, in fondo, di esportare anche nella redazione del giornale che ha acquistato poco più di un anno fa per 250 milioni di dollari i princìpi che hanno reso Amazon l’“everything store” più grande del mondo (almeno fino all’affermazione di Alibaba, ma questa è un’altra storia). “Esplorare e inventare” è il diktat che regna sovrano a Seattle, un’indicazione ambigua, che non significa nulla se non che nelle tavole della legge di Bezos la capacità di cambiare, di reinventarsi è il prologo che introduce il decalogo. Tutto ciò che è statico, stabile, chi si compiace della fissità, delle rendite di posizione, dei miglioramenti prevedibili e degli scambi oculati è automaticamente squalificato. Il bezosismo è una filosofia liquida.

 

Nel libro “The Amazon Way” – pubblicato attraverso la piattaforma di self-publishing di Amazon, ovviamente – John Rossman, ex manager della compagnia, spiega che quando si inizia a parlare di un dipendente come di un “solid guy” significa che stanno per indicargli la porta. E’ noto il monito del padrone ai manager di Amazon: “Non voglio che questo posto diventi un country club”, ed è ironico che Bezos si trovi a rimaneggiare il brand che per generazioni ha rappresentato l’America dei country club, della fissità, delle rendite di posizione, delle feste della sinistra al caviale, dei salotti e del potere gestito come si faceva una volta. Un anno fa Bezos ha detto che avrebbe fatto del Washington Post un “bundle”, un pacchetto cartaceo-digitale organico per ravvivare il senso della capitale per l’hegeliana preghiera del mattino.

 

Poi ha cambiato idea e strategia, ha sperimentato cose nuove, ha smantellato dipartimenti e ne ha creati ex novo, ha investito molto su ingegneri che fanno il lavoro oscuro e ha sbattuto la porta in faccia alle rockstar della redazione, primo fra tutti Ezra Klein, che si è portato una parte della squadra di secchioni del suo Wonkblog al sito Vox a fare explanatory journalism in purezza con grafici, animazioni e voiceover. Klein aveva chiesto al nuovo proprietario un investimento con molti zeri, certo che a una mente tanto aperta non sarebbe sfuggito il contributo decisivo della giovane promessa del giornalismo a base di dati. Con amazoniano senso del turnover, Bezos lo ha congedato, facendo venire a molti il dubbio che il genio della distribuzione online non avesse la minima idea di come funzionava il mercato dei media. S’era fatto sfuggire l’enfant prodige che tutti cercavano e tutti volevano. Eppure aveva ragione lui: Vox fa numeri deludenti ed è ai margini del dibattito, mentre i volenterosi (e meno costosi) giornalisti che hanno sostituito Klein & Co. fanno un lavoro egregio che trae autorevolezza dal brand storico. “Vogliamo essere fraintesi per lunghi periodi di tempo”, ha detto qualche anno fa al raduno degli azionisti di Amazon.

 

Il serafico modo in cui ha sbrigato la pratica Wonkblog è un po’ il paradigma della gestione del Post in questo primo anno di aspettative e fraintendimenti. Bezos ha fatto fin qui una rivoluzione tranquilla, forse deludendo chi si aspettava un saggio di quel decisionismo feroce che nell’ambiente tecnologico viene gentilmente descritto con il termine “disruptive”. Ha tagliato meno teste di quante ci si potesse aspettare, ma che teste. Nei corridoi del Post si diceva che l’editore, Katharine Weymouth, sarebbe rimasta in sella un anno soltanto, e così è stato, mese più mese meno. Ieri l’ultima rappresentante della famiglia Graham ha lasciato il Washington Post, orgoglio di una casata riverita in quella città che è contemporaneamente capitale del mondo libero e paese piccolo in cui la gente mormora. L’ultimo frammento dell’anima del Post se n’è andato con lei, dicono i nostalgici di un’epoca fatta di ricevimenti, biglietti scritti a mano, gole profonde, saghe di Camelot, bretelle e maniche arrotolate, un tempo in cui gli avversari politici erano gentiluomini e le escursioni dei presidenti fuori dal talamo erano universalmente note e benevolmente taciute. Per decenni il Washington Post è stato l’incartamento di una “mitologia molto più grande della realtà”, come ha scritto Vanity Fair alcuni anni fa, e nel 2008, quando le cose si sono messe davvero male – e per male s’intende un buco da 193 milioni di dollari – Weymouth, nipote di Don Graham, ha lanciato una campagna di ridimensionamento delle ambizioni nazionali e globali del quotidiano sotto il titolo: “For and about Washington”.

 

Il giornale doveva essere fatto di storie che riguardavano Washington in funzione di Washington, scritte seguendo rigorosamente il canone della capitale. Era un modo elegante per dire che il foglio di respiro internazionale che un tempo buttava giù presidenti a spallate e formava opinioni in tutto l’occidente stava diventando un giornalone di provincia. Qualcuno dice che in realtà era proprio questa la vocazione impressa dalla leggendaria Katharine Graham, per decenni pietra angolare della vita sociale della capitale, e il Post è diventato un animale di portata internazionale soltanto perché la redazione premeva per uscire dalle logiche vagamente paludate della capitale. Non si poteva mica scrivere sempre di party e di congiure di palazzo. Ben Bradlee, il più importante fra i direttori del Post, ha usato la sua influenza presso i Graham per trovare una mediazione fra la forza centripeta dell’editore e quella centrifuga dei cronisti, ma in fondo per i Graham il primato del giornale americano di portata nazionale e globale poteva tranquillamente tenerselo il New York Times.

 

[**Video_box_2**]Oltre il “for and about Washington” - Nel 2008 tutti gli uffici di corrispondenza americani sono stati chiusi, la direttiva editoriale era di trascurare o affidare alle agenzie qualunque vicenda non fosse immediatamente riconducibile alla dimensione politica federale, dunque niente cronache locali o corrispondenze, salvo casi di gravità eccezionale. Sei anni e duecento licenziamenti dopo l’inizio della campagna per la riduzione del Post a icona locale, Weymouth si è presentata davanti alla compagnia per spiegare che la strategia è radicalmente cambiata, si va verso l’espansione su scala nazionale, lo ha deciso quel signore che ama esplorare, inventare e farsi fraintendere. L’obiettivo si chiarirà nel tempo, intanto muoviamoci, cresciamo, basta con la logica micragnosa dell’austerità, questa è l’idea. Bezos in un anno e rotti di gestione del Post ha portato molte modifiche misurabili: il quotidiano cartaceo ha perso in media 30 mila copie al giorno, attestandosi attorno alle 400 mila, ma i visitatori unici sono aumentati del 43 per cento, arrivando a 32 milioni al mese. Il direttore, Marty Baron, lascia intendere che il target è di arrivare a cento milioni, e il bacino non è soltanto Washington né l’America, ma l’intero modo anglofono. Altro che “for and about Washington”. Il Post ha firmato un accordo che permette agli abbonati di un centinaio di giornali locali americani di accedere ai contenuti aggirando il paywall, un classico cambio merce digitale: il giornale offre contenuti giornalistici e ottiene dati da scandagliare a scopo pubblicitario. Il direttore generale Steve Hills dice che l’obiettivo finale è dare accesso agli articoli del Post agli utenti di Netflix, Spotify, Amazon Prime e altri servizi che consentono l’accesso a un mare di dati già raffinati su comportamenti e preferenze degli utenti. Si sta lavorando sulle pubblicità native, altra questione infiammata.

 

Rottamare stanca - Nella nuova gestione sono state assunte cinquanta persone in redazione e venticinque ingegneri per sviluppare storie multimediali modellate su un genere che il New York Times ha preso a esplorare da qualche tempo. Sul sito sono state inaugurate nuove sezioni: Storyline spiega concetti complessi di policy con grafici e tabelle, Morning Mix è il collettore di link per la lettura del mattino, su PostEverything vengono pubblicati a ciclo continuo brevi interventi di esperti di qualunque settore. Un passo alla volta Bezos sta smantellando tutti gli steccati che dividono la compagnia, per raggiungere l’obiettivo che un caporedattore descrive così: “Dobbiamo essere tutto per tutti”. E’ l’immateriale cambiamento di mentalità che Bezos sta cercando di suscitare un passo alla volta in un ambiente che ha rituali e regole d’ingaggio  immutabili. E’ the Amazon way, bellezza.

 

[**Video_box_2**]L’affronto supremo al giornale “for and about Washington” è che il laboratorio sperimentale dove stanno creando il Post del futuro è a New York. Che questo non comporti un problema per la mentalità cosmopolita di Bezos, uomo che ha in odio il concetto stesso di confine, solenne impedimento per il business model di Amazon, è ovvio. Meno ovvio che il padrone non si sia imbarcato in un’opera di rottamazione radicale della vecchia classe dirigente politico-giornalistica. Non ci sono tracce per il momento di un’epurazione degli insider da parte degli outsider che hanno preso il palazzo. E’ vero che il nuovo editore, Frederick J. Ryan, ha contribuito a fondare una delle novità giornalistiche più proficue dell’ultimo decennio, Politico, ma l’uomo è noto per la sua lunga navigazione nella capitale, frequenta i club e le feste giuste, ha entrature in tutti i circoli e in tutte le fondazioni che contano, insomma è un pezzo della mobilia dell’establishment, non un nerd della Silicon Valley che è venuto a spiegare a Washington come sarà il futuro. E a ben vedere anche Politico in larga misura risponde alle logiche del giornalismo tradizionale. Non è nemmeno una guerra generazionale. Bezos ha chiesto un maggiore coinvolgimento in redazione a Bob Woodward, il cronista del Watergate, che negli ultimi tre anni ha firmato una quindicina di articoli sul quotidiano e si è dedicato più che altro a scrivere libri e a pontificare. Il Post di Bezos è un pasticcio di contraddizioni, ma “menti potenti possono sostenere potenti incoerenze”, dice Bezos.