Un bluff chiamato Parigi
Ma quale rivolta contro Berlino, la Francia va solo in cerca di clemenza
Dopo il rinvio sul deficit, perché fidarsi di Hollande e Moscovici? Renzi ammicca ma fa il primo della classe. E il Portogallo s’incazza.
Roma. Per dare la misura (risibile) della soi-disante “rivoluzione” o del così detto “strappo” francese contro l’austerità imposta a Parigi dall’Europa, basterebbe descrivere la mortificazione subita da Pierre Moscovici ieri sera. I parlamentari del Partito popolare europeo si sono chiesti quali garanzie possa dare un eurocommissario agli Affari economici in pectore – sebbene sotto tutela berlinese – che minaccia di “far rispettare” a tutti quelle stesse regole che da ministro dell’Economia francese non era riuscito a rispettare in casa propria. Ha fatto scalpore l’annuncio arrivato dall’Eliseo mercoledì: Parigi raggiungerà la soglia del 3 per cento nel rapporto deficit/pil solo nel 2017, dopo due rinvii, violando i patti europei. L’interrogativo è dunque quello sollevato da Sylvie Goulard, europarlamentare del gruppo Alde, sul Financial Times: “Il resto d’Europa dovrebbe rassegnarsi al fatto che la Francia non sa rispettare la parola data?”. A sospendere il giudizio – almeno fino all’autunno, quando verrà presentata la legge finanziaria – è Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, il quale riferendosi alla Francia ha detto che senza una rapida attuazione delle riforme le misure espansive della stessa Bce verranno “depotenziate”. Draghi si riferiva all’acquisto di titoli cartolarizzati dalle banche deciso ieri all’unanimità dal Consiglio direttivo (riunitosi a Napoli), che si aggiunge ai mille miliardi messi a disposizione degli istituti di credito nel corso dei prossimi due anni per incentivare i prestiti e, infine, ai tassi d’interesse quasi a zero. Draghi “confida” nelle buone intenzioni parigine, ma “è il momento di metterle in pratica”. I mercati europei hanno risposto con un tonfo alle nuove misure della Bce, ritenute insufficienti. Le ripetute défaillance francesi motivano le rampogne di Angela Merkel (“ogni paese è responsabile di fare i suoi compiti a casa per rilanciare la competitività”).
Gli investitori manifestano la preoccupazione dell’élite tedesca: se le promesse di François Hollande resteranno sulla carta – l’Eliseo se la prende comoda sulla riduzione della spesa pubblica di 50 miliardi, non intende toccare né il tabù delle “35 ore” né rendere più flessibile il mercato del lavoro affiché le imprese possano licenziare e assumere con facilità – l’alleato francese, ormai distaccato da Berlino, perderà ulteriormente competitività. E il prestigio internazionale? Dopotutto Parigi dispone della bomba atomica (la Gran Bretagna è l’unico altro paese ad averla nell’Unione europea), ha una sua grandeur residua. Ragione per cui la Germania non lascerà la Francia al suo (declinante) destino. Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ieri in visita a Londra, non ha resistito alla tentazione di tuffarsi nella querelle anti tedesca: ha offerto “solidarietà” al presidente François Hollande – “nessuno ha il diritto di trattare gli altri paesi come studenti” –, alimentando la percezione di una “convergenza” tra Roma e Parigi per ottenere più flessibilità sui conti, salvo poi aggiungere che “il 3 per cento noi lo rispettiamo”, da primo della classe. D’altronde Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia deputato a trattare con Bruxelles, non seguirà il suo omologo Michel Sapin. “Quello che accomuna Italia, Francia e altri – ha detto Padoan al Foglio – è che la congiuntura della zona euro è molto deteriorata”. Non bastano dunque il rinvio del pareggio di bilancio al 2017, certificato dal governo italiano nel Def, o l’uscita muscolare di Renzi a mettere Roma e Parigi sullo stesso piano: si condivide lo stesso habitat, non l’orizzonte né, a ben guardare, le basi di ri-partenza. L’economista Marco Fortis ha sottolineato che l’Italia ha un avanzo primario positivo (le entrate superano le spese nel bilancio pubblico), a differenza di altri paesi avanzati – Spagna, Francia, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti – i quali presentano ampi deficit pubblici.
[**Video_box_2**]Chi ha fatto davvero i compiti a casa - Lo stesso vale per Grecia (deficit previsto dall’1,6 nel 2014 all’1 nel 2015) e Portogallo (dal 4 al 2,5). Paesi mediterranei che hanno sperimentato la sorveglianza della Troika e si sono opposti alle insistenze di Roma e Parigi sulla flessibilità, avendo le credenziali per farlo. La reattività della Grecia alle riforme è stata “significativa”, dice l’Ocse: fatto 100 il massimo risultato, Atene ha un punteggio di 84 (Parigi 42, Roma 31, Berlino 20). Il caso del Portogallo, poi, è esemplare: in tre anni ha introdotto 400 provvedimenti legislativi per migliorare la competitività delle imprese, riuscendoci. Lisbona è passata dal 48esimo al 31esimo posto nella classifica “doing business” (su 180 paesi). Non a caso il primo ministro Pedro Passos Coelho la settimana scorsa ha detto che “c’è sufficiente flessibilità”, come ha ripetuto Draghi, e “alterare le regole in corsa sarebbe terribile”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano