Le avventure dell'anatema che impedisce la chiesa del divorzio. Una puntuta risposta al gesuita causidico
Lo strappo nella morale tradizionale non ha basi storiche e teologiche. I gesuiti cercano le radici nella chiesa orientale, ma non va bene nemmeno il divorzio greco.
Il Sinodo che si è aperto non entrerà nella storia per i suoi documenti ma per il significato che viene attribuito all’evento: quello di uno “strappo” nella morale tradizionale, riassunto dalla formula del primato della prassi pastorale sulla dottrina. La tesi viene suffragata da interventi storici e teologici deliberatamente fuorvianti, come l’articolo del gesuita Giancarlo Pani apparso, alla vigilia del Sinodo, sulla “Civiltà Cattolica”, con il titolo “Matrimonio e seconde nozze al Concilio di Trento” (Quaderno n. 3943 del 4 ottobre 2014). In questo saggio l’autore rievoca la storia di “uno dei decreti più innovativi del Concilio di Trento: quello sul matrimonio, detto ‘Tametsi’”, affermando che nel canone settimo del documento, la Chiesa, mentre condanna la dottrina di Lutero e dei riformatori, “lascia impregiudicate le tradizioni dei greci che, nel caso specifico, tollerano le nuove nozze”.
I Padri conciliari avrebbero infatti addolcito il testo, evitando di portare anatema contro la prassi vigente in alcune colonie veneziane dove si ammetteva la possibilità di divorzio e di nuove nozze in caso di adulterio, secondo il costume invalso nella chiesa scismatica greca. Padre Pani, che giustifica questa prassi, scrive che anche al cristiano “poteva accadere di fallire nel proprio matrimonio e di passare a una nuova unione; questo peccato, come ogni peccato, non era escluso dalla misericordia di Dio, e la Chiesa aveva e rivendicava il potere di assolverlo. Si trattava proprio dell’applicazione della misericordia e della condiscendenza pastorale, che tiene conto della fragilità e peccaminosità dell’uomo. Tale misericordia è rimasta nella tradizione orientale sotto il nome di oikonomia: pur riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio proclamata dal Signore, in quanto icona dell’unione di Cristo con la Chiesa, sua sposa, la prassi pastorale viene incontro ai problemi degli sposi che vivono situazioni matrimoniali irrecuperabili. Dopo un discernimento da parte del vescovo e dopo una penitenza, si possono riconciliare i fedeli, dichiarare valide le nuove nozze e riammetterli alla comunione”. Questa è per padre Pani, la lezione di misericordia che proviene dal Concilio di Trento. “Oggi – conclude – appare singolare che al Concilio in cui si afferma l’indissolubilità del matrimonio non si condannino le nuove nozze per i cattolici della tradizione orientale. Eppure questa è la storia: una pagina di misericordia evangelica per quei cristiani che vivono con sofferenza un rapporto coniugale fallito che non si può più ricomporre; ma anche una vicenda storica che ha palesi implicazioni ecumeniche”.
Ma qual è la verità dei fatti? Il Concilio di Trento fu convocato, come è noto, per far fronte al protestantesimo. Lutero e Calvino avevano negato o svuotato del loro significato i sacramenti della chiesa, tra cui il matrimonio. Il Concilio volle dunque ribadire solennemente, anche su questo punto, la retta dottrina. L’11 novembre 1563, nella sessione XXIV, fu promulgato un decreto sul Sacramento del matrimonio che comprendeva dodici canoni. Il testo del settimo è il seguente: “Se qualcuno dirà che la Chiesa sbaglia quando ha insegnato e insegna che, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei coniugi; e che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; e che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema”.
[**Video_box_2**]Gli ambasciatori della Repubblica di Venezia avevano chiesto e ottenuto dai Padri conciliari che il canone, pur ribadendo l’indissolubilità del matrimonio, evitasse di scomunicare esplicitamente chi diceva che il matrimonio si può sciogliere per l’adulterio dell’altro coniuge. La richiesta nasceva dalla preoccupazione di non creare divisioni nelle isole greche soggette alla Serenissima, dove molti cristiani seguivano i riti orientali pur essendo guidati da vescovi latini. Il significato di questo canone, nella sua formulazione finale, tuttavia non ammette alcun dubbio. Esso costituisce una definizione dogmatica dell’indissolubilità del matrimonio. In quel momento il nemico da combattere erano i protestanti e non i greci e il Concilio anatemizza le affermazioni dei protestanti che negavano l’indissolubilità intrinseca del matrimonio. Il fatto che non si condannasse esplicitamente la prassi degli orientali non significava in alcun modo un’accettazione del loro divorzio. Il canone tridentino, benché direttamente anatemizzasse solo i protestanti, perché accusavano la Chiesa di errare, condannava indirettamente anche coloro che vi si opponevano sul piano del comportamento.
A Trento, inoltre, i Padri conciliari mostravano di credere che i greci dissolvessero il matrimonio solo in caso di adulterio, mentre da oltre un secolo la pratica del divorzio andava dilagando. Già prima della caduta di Costantinopoli (1453) il Sinodo patriarcale concedeva il divorzio per cause come le seguenti: 1) seria malattia di una delle due parti; 2) completa incompatibilità di carattere; 3) diserzione di una delle parti per un periodo di tre anni, o anche meno; 4) delitto da parte di uno dei coniugi seguito da sentenza comportante notevole disonore; 5) mutuo consenso in casi speciali approvati dal Patriarca per ragioni di cui egli si dichiarava l’unico giudice. Il matrimonio aveva dunque perduto il carattere di indissolubilità e si poteva sciogliere a volontà, come ancora oggi accade. Gran parte dei casi praticati dai greci cadevano poi direttamente sotto l’anatema del canone 5 del Concilio di Trento, che stabilisce: “Se qualcuno dirà che il vincolo matrimoniale può essere sciolto per eresia, per incompatibilità di carattere o per l’assenza intenzionale da parte di un coniuge, sia anatema”.
Gli altri casi vi cadevano indirettamente. Va ricordato infine che se prima della promulgazione del decreto tridentino la prassi greca poteva essere scusata, dopo il Concilio fu considerata grave colpa, condannata da numerosi pronunciamenti della chiesa. Nel 1593 Papa Clemente VIII (1592-1605) emanò un’istruzione sui riti degli italo-greci in cui stabilisce espressamente che i vescovi non dovevano, per nessun motivo, tollerare il divorzio e che se qualcuno era stato approvato doveva essere dichiarato nullo e invalido. Urbano VIII (1623-1644) compilò una professione di fede da imporsi ai membri della chiesa greca scismatica che venivano ricevuti nella chiesa cattolica. Questo documento contiene una dichiarazione che, sebbene l’adulterio possa giustificare una separazione, non rende assolutamente lecito contrarre un nuovo matrimonio. Benedetto XIV (1740-1758), nella sua istruzione per gli italo-greci (1742), ripete, parola per parola, il decreto di Clemente VIII. Di fronte alla rilassatezza di costumi che si andava diffondendo in materia matrimoniale tra i polacchi, lo stesso Benedetto XIV, con il decreto Dei miseratione del 3 novembre 1741 ordinò che in ogni diocesi venisse nominato un defensor vinculi, il cui compito doveva essere quello di impugnare ogni mozione per decreto di nullità; e in caso che il decreto venisse accordato, di fare appello a un tribunale superiore. Il principio della doppia sentenza conforme, consacrato dal Codice di Diritto canonico del 1917, è stato recepito nella codificazione promulgata da Giovanni Paolo II con la costituzione apostolica Sacrae Disciplinae Leges del 25 gennaio 1983, ma oggi viene messo in discussione dal partito kasperiano.
L’articolista della Civiltà Cattolica mostra di ignorare come proprio all’interno della Compagnia di Gesù, canonisti come i padri Franz Xaver Wernz (1842-1914) e Pedro Vidal (1867-1938) e teologi come il padre Giovanni Perrone (1794-1876), hanno già affrontato il problema che egli ritiene inedito, dimostrando come le nozze more graeco ricadano sotto la condanna della Chiesa. Il padre Perrone, uno dei più illustri esponenti della scuola teologica romana nel XIX secolo, trattando “de Graecorum more ac praxi” nella sua opera fondamentale sul matrimonio, spiega come l’errore dei greci proviene dalla prassi e non dalla dottrina, ma non è per questo meno grave e il Concilio Tridentino in nessun modo tollera o può tollerare (nullo modo tolerat imo nec tolerare potest) una prassi contraria alla dottrina della Chiesa (De matrimonio cristiano, Dessain, Leodii 1861, vol. III, pp. 359-361). La posizione di chi nega l’indissolubilità del matrimonio è formalmente eretica. La posizione di chi pur accettando in tesi l’indissolubilità del matrimonio la ammette nella prassi viene definita dal padre Perrone “prossima all’eresia”. Tale è la censura che secondo i teologi e i canonisti più sicuri cade sulla posizione del cardinale Kasper e di coloro che la condividono.
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