Facebookisti Anonimi
Ci siamo iscritti a Facebook, ormai parecchi anni fa, per farci riconoscere, per l’irresistibile tentazione di mettere nel profilo una foto di vent’anni fa in cui siamo venuti bene, per avere con noi le vite degli altri e per farci compagnia.
Ci siamo iscritti a Facebook, ormai parecchi anni fa, per farci riconoscere, per l’irresistibile tentazione di mettere nel profilo una foto di vent’anni fa in cui siamo venuti bene, per avere con noi le vite degli altri e per farci compagnia. Come stai, Maria Rossi, quanto tempo, ma sei sempre uguale sai. E io? Ti ricordi, eravamo in classe insieme, dimmi che non sono cambiata, guarda quanta strada ho fatto, quanti nipoti, che bei pensieri. E tu, che se ci incontriamo davvero non mi saluti mai, non importa: tanto siamo amici su Facebook. Il posto dove tutti cercano, scrive il New York Times, di essere se stessi. La migliore versione di noi stessi, quella presentabile, che faccia una buona (prima) impressione. Perché se conosciamo qualcuno di nuovo, la prima cosa che faremo sarà cercarlo su Facebook, e giudicarlo dalle foto, dagli amici, dagli status. Potrebbe non bastarci la certezza che non si tratti di uno psicopatico, potremmo rattristarci per uno squarcio del suo salotto, per una brutta battuta o per la condivisione di un link sulle malattie misteriose. E’ il pericolo di essere un po’ troppo noi stessi, ed è anche la rassicurazione che ci dà Facebook: è tutto fondato sull’identità, chi siamo, dove viviamo, quali foto di gattini ci piacciono, quanto siamo spiritosi, dove andiamo in vacanza. Si può mentire, certo, ma già sentiamo su di noi lo scherno dei compagni di liceo, le risate degli ex fidanzati (un gioco che si fa spesso è quello di scambiarsi via email “status imbarazzanti” di persone conosciute).
Un po’ di verità, nonostante i nostri sforzi di sembrare qualcun altro, nonostante il tentativo di reprimere il peggio, trapela sempre, almeno fino alla distruzione del senso di Facebook, cioè fino alla costruzione dell’anonimato. Ha scritto ieri il New York Times che tra poche settimane sarà pronta una nuova applicazione per smartphone che ci permetterà di essere noi stessi, nei gruppi di discussione online su Facebook, ma con un altro nome. Ci chiameremo “fiore nel deserto”, magari, per manifestare tutta la nostra rabbia contro i politici corrotti, o “vento di passioni” per insultare quelle che rubano i mariti delle altre, “cardellino” per dichiarare morta tutta la letteratura. In certe circostanze, dicono da Facebook, può essere utile non essere se stessi: Josh Miller, product manager che guida l’operazione da un anno, pensa che in questo modo le persone potrebbero sentirsi più libere di esprimere opinioni, non dovendo assumersi la responsabilità della propria identità. L’anonimato sembrava tutto quello che Mark Zuckerberg detestava, e in fondo è il contrario di quello che si è inventato: un posto con nomi e facce, dove gli account con nomi di fantasia, non riconoscibili, vengono spesso disattivati.
[**Video_box_2**]Eravamo preoccupati perché Zuckerberg sapeva tutto di noi, conservava i nostri messaggi, ci chiedeva il numero di telefono, curiosava nel nostro maldestro tentativo di essere sempre noi stessi, adesso saprà anche quale nomignolo abbiamo scelto per travestirci, per uscire dalla gabbia di quel noi stessi, e che cosa pensiamo veramente quando scegliamo, ad esempio, di diventare un troll. Come Norman Bates, a un certo punto ci vestiremo come nostra madre e daremo sfogo alla gelosia, all’impazzimento, alla condanna di tutte le debolezze umane. Poi torneremo a commentare, rasserenati, foto di spaghetti con le vongole e di torte di compleanno, con il nostro vero nome, la nostra vera faccia, quella migliore.
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