Palermo è talmente indifferente da non battere più di mezzo ciglio al cospetto del nulla che la sta divorando (foto di Enzo Sellerio)

Damnatio Palermo

Roberto Puglisi

Una grande città trasformata dalla crisi in un grande Ucciardone. Dovrebbe amministrarla Leoluca Orlando, sindaco a scomparsa. Il canone dell’immobilità gira la chiave: prigionieri i palermitani, prigioniero il sindaco, incatenato alla retorica che non sazia.

Se pensate a Palermo – e non le appartenete – immaginate una prigione senza grate né sbarre. Non ce n’è bisogno. Il canone dell’immobilità basta per chiudere a chiave, per serrare le manette ai polsi. Prigionieri i palermitani, fisicamente, tra cortei di protesta e di fame, piogge autunnali annunciate, eppure fatali per la circolazione libera di uomini e cose. Prigionieri i palermitani, mentalmente, nell’impossibilità di vagheggiare una via di fuga, un’uscita di sicurezza da qualche parte. Prigioniero il sindaco di Palermo, il Professore, Leoluca Orlando. Incatenato alla retorica che non sazia, ammanettato, nella lussuosa cabina di Palazzo delle Aquile, alla carcassa di una città che annega. Prigioniero di Orlando, Leoluca Orlando – Luca lo chiamano, oppure, il SinnacOllanno, tutto attaccato –, vittima e carnefice della speranza che un giorno suscitò, fabbricando una narrazione fascinosa col marchio della “Primavera”, in anni lontanissimi: era l’epoca della prima sindacatura costellata di maxi-processi ed eroi antimafia.

 

Tutta la schiuma delle parole si è infine ritirata, svelando la nudità. Tutta la risacca è tornata al mare. E’ rimasto un paesaggio di alghe e conchiglie vuote. Il simbolo della damnatio, della condanna di Palermo è il guscio senza polpa. Tutte le formule che occorrevano per reggere l’incantesimo non servono più.

 

Se pensate a Palermo – e siete uomini liberi – dimenticate gli scatti del luogo comune, della metafora, perché credete di conoscere, ma non conoscete. Scordate la bonomia dello zio di Johnny Stecchino, Paolo Bonacelli, che, in siculiano, in uno slang sicilnazionale, si lamenta del “ciaffico ttentacolare”, sputacchiando saliva e folclore in faccia a Roberto Benigni. Non saranno né l’ironia né il talento di un attore comico a cambiare le carte in tavola e il domani di una comunità rattrappita in se stessa. Non sarà l’arte del paradosso a far sbocciare il riso, mentre si consuma il Palermicidio perfetto. E i palermitani come operano nello sfacelo? Da immobili, appunto. Maledicono talvolta. Mimano cenni di protesta. Non azzardano un passo. Condannati, in fila quieta e rassegnata, sospesi sull’abisso. E non c’è più nemmeno il lato ridicolo della faccenda, il sarcasmo che permette di scovare un dettaglio di buonumore, un appiglio, nella più cupa delle tragedie. Le cose sfasciate sono talmente avanti da sopravanzare l’omeopatia del sorriso.

 

Dimenticate le foto oscene ed eroiche. I Riina, i Provenzano, le trattative, i processi, le bandiere dell’impegno. La mafia resta una vicenda terribilmente seria. E’ l’antimafia di rito panormitano, quaggiù creata e da quaggiù propagandata, a non esserlo più, ridotta a scimmiottamento di passione civile. Quelle belle bandiere furono ammainate. Antimafia oggi significa – fatti salvi il coraggio e la buonafede dei pochi coraggiosi in buonafede – esibizione di distintivi, califfato della prepotenza, liturgia del complottismo da cui è illecito dissentire, se non si vuole essere tacciati di collaborazionismo. Il dualismo mafia-antimafia appare comunque irrilevante nel dramma quotidiano. Palermo va alla deriva, con i suoi gusci vuoti. Reagisce, ormai con distacco, al mantra della legalità, che è commercio, marketing, certificato per costruire patrimoni e carriere, rilasciato da apposite agenzie. La città (con)dannata ha fiutato l’impostura, si è ricongiunta a Sciascia nel suo atto finale, alla denuncia sui “professionisti dell’antimafia” che valse allo scrittore l’ingiuria di quaquaraquà. Va alla deriva, certo, immobile, ma con gli occhi aperti.

 

Palermo prigioniera è un’esperienza suprema di sopravvivenza, riservata ai residenti. Si comincia dalle bagattelle, per raccontarla, da eventi che altrove sarebbero contorno, breve di poche righe in colonna. La pioggia, per esempio, ovunque evento meteorologico, quaggiù biblica sciagura, testimonianza della malevolenza di un dio. Cade, come sempre accade, ai primi di ottobre, e sempre trova una comunità indifesa. Colpa dei tombini strapieni, della cattiva manutenzione? Colpa della rete fognaria, del destino acquatico e baro? Bastano quattro gocce per allagare un popolo, dalla borgata marinara di Mondello alla stazione centrale. L’attraversamento dell’asse viario assume la mitologia di un’impresa epica. Agli incroci e ai semafori gli automobilisti intrattengono pattuglie di turisti con la messinscena di affollate naumachie. Come mai si narra della pioggia, per riferire della damnatio? Perché si colgono, già qui, i tratti somatici dei prigionieri e della prigione. Quando non sono impegnati a “curnutiarsi” (a darsi reciprocamente del “cornuto” per sfogo) dai finestrini delle macchine bloccate, gli autoctoni rimangono tranquilli, soddisfatti del canone dell’immobilità. Nessuno alza più di mezzo sopracciglio, se la piena dai marciapiedi arriva fino alla maniglia dello sportello. Non è impianto di civiltà londinese, atarassia buddista orientata verso una più composta visione della vita. Si tratta di celle che non consentono l’evasione. Il palermitano è fatalista. Boccheggia nella sua disperazione di un metro quadrato, perseguendo la riduzione del danno. Muoversi potrebbe addirittura peggiorare la situazione, seppure ci voglia una sfrenata fantasia per immaginarlo. Nessuno osa osare, mentre la pioggia allaga e riga i finestrini, gli oblò del carcere.

 

Il canone dell’immobilità si rivela compiutamente nella penitenza del corteo irrinunciabile, unificandosi al romanzo della scomparsa: tutti archetipi del decadimento in atto. Le strade traboccano di esistenze piagate, di ex lavoratori che non lavorano, di impiegati della formazione professionale finiti sul lastrico, sfiniti dalla predicazione di un presidente della regione – il celebre Rosario Crocetta – quello che aveva solennemente giurato: “Non farò macelleria sociale”. Deve essere andato storto qualcosa se, nell’affinare i marchingegni della macchina burocratica in ossequio alla rivoluzione crocettiana, la Sicilia si è trasformata in una macelleria totale, con famiglie appese in vetrina, simili a teste di capretto. E non è che fosse un godibile spettacolo la Trinacria sciupona, ben oltre i propri mezzi, ingrossata dalle file dell’occupazione clientelare. Era fetida. Ma non lo è neanche questa carnezzeria periferica che trita innocenti e colpevoli insieme. Martedì scorso è stato il giorno del grande assedio. Tutti, proprio tutti, si sono dati appuntamento sotto le finestre della presidenza, a Palazzo d’Orleans. Il canone dell’immobilità non è stato scalfito dalle urla che però si sono sentite con pena e chiarezza. C’erano i forestali e i formatori, figli dell’opulenza trascorsa, costretti a battersi per ricevere la carità di stipendi arretrati. A margine, i palermitani, incaprettati nella coda, con la solita e quieta aria di rassegnazione. Da una parte, il romanzo della scomparsa: l’isola muore e sparisce negli stenti dei semplici che ieri riuscivano a sbarcare il lunario e adesso soffrono la fame del brontolio di stomaco, non per posa letteraria. Dall’altra, Palermo nella sua prigione, appesa al clacson, congelata, indifferente, abituata al massacro.

 

[**Video_box_2**]Talmente indifferente è Palermo da sopportare il romanzo della propria scomparsa, da non battere più di mezzo ciglio al cospetto del nulla che la sta divorando. Riecco il duplice rivelarsi di una malattia fisica e mentale. Nella strage dei negozi che chiudono per mancanza di economia e tracciano il diagramma di una crisi avvitata su se stessa. Ha calato la saracinesca perfino il bar Mazzara della centralissima via Magliocco, ritrovo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, passerella della dolce vita, gettando nello sconforto gli estimatori delle sue arancine al burro. Il virus si diffonde nella malinconia delle case invendute e sfitte, ché nessuno compra sebbene tutti cerchino di vendere. Mini-regge languiscono crocifisse a uno stinto cartello del prezzo. Dalle roccaforti borghesi di viale Strasburgo, alle villette nobiliari di via Libertà, agli antichi manieri di piazza Politeama, si assiste alla processione degli immobili, nel senso del Canone e dell’edilizia. L’epidemia deflagra sotto i colpi dei rifiuti ormai “ttentacolari” più del “ciaffico”. E non si ode sussurro di Vespri. Il rimedio della riduzione del danno contempla il vezzeggiativo, tra l’orrido e il confidenziale, il trucco del ridicolo e del pietoso che non sana. L’immondizia, per esempio, è chiamata “munnizza”. Definizione dialettale, familiare, di reciproca vicinanza. Non si può cambiare. Si possono inventare orrende tenerezze per contenere lo sgomento.

 

La risacca ha lasciato la nudità esposta, con le uniche parole disponibili. Tre parole per spiegarsi: non sole, cuore, amore. Rassegnazione, scomparsa, penitenza. Ci si rassegna alla scomparsa per una penitenza che si ritiene meritata, per scontare la colpa di averla amata davvero questa città di splendore e di macerie, che si narra nel ricongiungimento di parabole irriducibili, nello splendore delle macerie. Colpevoli e condannati per avere nutrito la follia della rinascita.

 

Ancora nelle bagattelle, c’è la risacca. C’è un palermitano di alto mare, uno che conosce le onde e – proprio perché le conosce – decise, lustri fa, di andare via, abbandonando gli scogli. Torna, il palermitano di mare aperto, il Viaggiatore Consapevole che non si fa abbindolare. Da buon cittadino, si appresta a pagare una cartella esattoriale. Solo che, quaggiù, non è sufficiente corrispondere il costo della cittadinanza, se non c’è la penitenza in aggiunta. Il palermitano di alto mare capisce che l’unica è recarsi personalmente in persona presso il domicilio dell’ufficio preposto. Va e trova l’apocalisse. Una marea di uomini e di donne, nell’imbuto dell’attesa, dall’alba, con pizzini volanti, assurti al rango di sovrani elementi giuridici del turno. Una moscacieca di stanze, di rincorse, di figuranti che non sanno rispondere e somigliano alle tre scimmiette della storiella, non vedenti, non parlanti, non udenti. Ciò che in democrazia – pagare le tasse – rappresenta uno scomodo dovere da assolvere senza ulteriori perdite di tempo, a Palermo diventa rito borbonico, certificato di sudditanza, penitenza, appunto, cui corre l’obbligo di rimarcare le distanze tra i servi della gleba che stanno quaggiù e i valvassini del potere lassù. Ovviamente, il Viaggiatore Consapevole maledice gli dèi che lo convinsero a “scendere”, come i Residenti Obbligatori maledicono il dio della pioggia. Si consuma nel sottoscala di un Olimpo di dèi corrucciati la scenografica sofferenza delle persone.

 

[**Video_box_2**]Se pensate a Palermo – e non le appartenete – penserete, forse, che qui ci sia almeno un nume benigno, “Leoluca Orlando, sindaco”. Lo penserete perché avrete sentito parlare benissimo di lui. Del suo impegno antimafia. Della Primavera che dichiarò di volere impiantare, durante i mesi della prima sindacatura, promettendo alla capitale mafiosa la svolta, il vento della riscossa. Perciò, sareste assai sorpresi di constatare quanto sia basso l’indice di gradimento del Professore – lo è sul serio professore, con acume di cultura profonda e ama il vezzeggiativo del titolo universitario – tra i suoi compatrioti, sodali di processione. Una disapprovazione vidimata dai dialoghi urbani, dagli sfregi sui giornali online, dai fischi che si mischiarono agli applausi nel corso dell’ultimo Festino di Santa Rosalia, la patrona delle disgrazie locali (corollario per i forestieri: non è un dato inerte. Ogni palermitano ha ben presente l’importanza di applausi e fischi, quando il primo cittadino pro tempore si inerpica sul gigantesco carro della Santuzza, per dare fiato al propiziatorio: “Viva Palermo e Santa Rosalia!”). Ciò accade in virtù del sortilegio che provoca la dissolvenza di Luca, nella città della scomparsa. Anche il Professore è vittima di un maleficio. Ai tempi in cui la risacca non c’era, i precetti orlandiani ribollivano di spuma e di speranza. Era una fascinazione dolcissima, la pillola regalata al malato grave con la promessa di guarigione. Antimafia, passione, rivoluzione, i capisaldi che componevano il vocabolario Leoluchiano, distanti dall’avvento dei cavalieri dell’apocalisse: rassegnazione, scomparsa, penitenza. Tre sindacature passarono, dalle primavere agli inverni. Gli speranzosi scoprirono di avere partecipato al gioco dell’oca, con dadi stregati, per ritrovarsi alla casella di partenza. Un po’ è stato il gioco dell’oca, un po’ è l’oggettiva incommensurabilità dei problemi a rendere invincibile la stregoneria. Il sindaco si va dissolvendo. Ogni proclama si mangia un pezzo dell’Orlandismo. Ogni dito puntato verso il futuro ricade nella desolazione del presente. Lui, il SinnacOllanno, combatte con le armi note, con il ripetersi della narrazione contro l’evidenza della catastrofe. Indica simboli che si rivelano boomerang. Aveva eletto la Favorita, il polmone verde, il parco reale di alberi e di asfalto, a nuovo Teatro Massimo, a presidio della rinascenza. Il risultato? Un astruso piano di chiusura sperimentale, poi rinnegato, che ha scontentato i pedonalizzatori selvaggi e i feticisti del tubo di scappamento. Aveva additato, il Professore, nel cantiere del tram, la chiave di volta della mobilità metropolitana. Per ora stravince la beffa dello zio di Johnny Stecchino intrappolato nel “ciaffico” di un perenne ingorgo causa lavori. E chissà se giungerà puntuale per i titoli di coda del film, lo zio che parlava siculiano. Senza contare l’apartheid delle pedonalizzazioni concepito con l’intento di punire gli automobilisti, che ha contribuito moltissimo alla vertigine dell’indice di gradimento. Il cantiere tranviario fu proclamato da eloquenti cartelloni pubblicitari che ritraevano ectoplasmi, stretti nell’abitacolo della macchina, avviliti per il caos, nonché presi in giro dalla didascalia: “Non ci scusiamo per il disagio”. E siamo alle bagattelle, alle annotazioni marginali di piogge, munnizza, ingorghi, disagi per l’invisibile posteggio. Piccole cose che svelano. Il male fisico e mentale sta nell’abitudine all’agonia, nel canone che inchioda amministratori e amministrati all’immobilità.

 

Se non siete palermitani e pensate a Palermo, come ossessione letteraria, non vi meravigliate della polpa di fiele sotto la corteccia. Non meravigliatevi del riflusso di spuma e speranze contro il primo cittadino pro tempore. E nemmeno dell’affetto da compagni di pena che si nasconde dietro il disappunto. Leoluca Orlando – come Diego Cammarata, il predecessore – è carceriere e carcerato, imputato e giudice. La lima che viola la cella, il secondino che la richiude, restando incastrato nell’ingranaggio.

 

Se non siete palermitani, in fondo, questa è solo una favola di chiavistelli immaginari, nell’Ucciardone – penitenziario cadente e coerente col contesto, tuttora in funzione – senza sbarre, né mura di cinta. Una suggestione che brucia in forma di metafora, oppure si spegne all’istante. Qualcosa che non vi riguarda, un libro che si può gettare via, oltre il paralume del comodino, perché viene a noia, perché è diventato troppo surreale. In caso contrario, vi riconoscerete nella polpa, vi specchierete nella nudità.

 

Se siete Viaggiatori Consapevoli, tornerete, volendo tornare, fingendo di volere scappare, attratti dalla decomposizione, inorriditi, paghi di un’illusione di salvezza. Ritornerete, per affrontare con circospezione il tragitto dall’aeroporto al centro. Sbarrerete la porta di casa, una incantevole ridotta patrizia, ricolma di affreschi, soffitti altissimi, di arazzi luminosi, scene di caccia adornate d’oro. Una dimora per compensare con gli ornamenti interni la nudità dell’esterno. Palermitani di alto mare, rosi dai sensi di colpa, telefonerete agli amici che non partirono, ai palermitani di scoglio, per rinfacciarvi reciprocamente l’errore. Metterete il naso alla finestra di rado, subendo uno strano rimpianto, nel gioco dell’oca di tutte le partenze e di tutti i ritorni.

 

Se siete residenti obbligatori, se non siete andati via, se ora è troppo tardi per farlo, la damnatio, la condanna di Palermo, è un demone con cui avete già imparato a convivere. La nudità è solo un altro modo di vestirsi. L’invisibilità è un espediente per proteggersi, per non soffrire troppo nella dissolvenza. Si può resistere, agonizzando, anche da immobili. Se tutto è prigione, catena arrugginita ai polsi, cosa sarà mai il piacere della libertà? Se tutto è abitudine al peggio, che male può fare questa dannazione, la botola che si spalanca, annunciando l’inferno?

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