Euroincentivi
La nuova “Draghi rule” puntella Renzi sul Jobs act e provoca Merkel
Chi fa le riforme perde nelle urne, si diceva. Ora chi non le fa soccombe, dice il banchiere. Cosa è cambiato. Berlino parla di “investimenti”. Industria loffia in Italia. I politici e i nuovi “incentivi”. L’assist ragionato al Jobs act di Renzi.
Roma. Esisteva finora la “maledizione di Jean-Claude Juncker” – lanciata alla metà degli anni 2000 dall’allora primo ministro lussemburghese divenuto oggi presidente della Commissione Ue, citata pure da capi di governo europeisti come Romano Prodi e Mario Monti – secondo la quale i governi sanno quali sono le riforme necessarie ai rispettivi paesi ma allo stesso tempo non sanno come essere rieletti se decidono di attuarle davvero. Da qualche ora, però, c’è anche la “regola di Mario Draghi”, speculare e contraria alla maledizione di cui sopra: “Oggi i governi sanno che, se non faranno le cose giuste, spariranno dalla scena politica perché non verranno rieletti”, ha detto il presidente della Banca centrale europea durante la sua trasferta statunitense che si è conclusa ieri a Washington. Draghi è convinto che la “Juncker’s curse”, come è stata ribattezzata nei circoli brussellesi, sia ormai invalidata dalla lunga crisi dell’Eurozona. Mentre l’austera Finlandia ieri perdeva comunque per mano di Moody’s la sua tripla A sul debito pubblico a causa delle grame prospettive di crescita, il ragionamento del banchiere centrale puntellava (perfino generosamente) Matteo Renzi, e tutti i governi che si cimentano con le riforme, mentre interpellava (criticamente) la Germania. Ecco perché.
“Siamo d’accordo con il Fondo monetario internazionale (Fmi) sulla necessità di dare la priorità a investimenti pubblici efficaci che aumentino la produttività, pur tenendo conto dello spazio fiscale limitato in alcuni paesi dell’Eurozona”, ha detto ieri Draghi intervenendo a Washington. Poi il presidente della Bce ha ribadito che il Consiglio direttivo di Francoforte è “unanime” nell’impegno a “usare ulteriori misure non convenzionali” se necessario a contrastare un “periodo troppo lungo di bassa inflazione”. Draghi ha invitato a non vanificare gli sforzi fatti sul fronte del consolidamento fiscale e a insistere sulle riforme strutturali. Quindi ha concluso così: “Condivido totalmente l’appello della direttrice del Fmi (Christine Lagarde, ndr) contenuto nel suo rapporto Global policy agenda”. Un rapporto che è stato alla base dei lavori ufficiali e degli incontri ufficiosi di questi giorni negli Stati Uniti; 18 pagine in cui la Germania è l’unico paese europeo chiamato esplicitamente e individualmente in causa, addirittura per tre volte. Perché la ripresa nell’Eurozona è in stallo, con il concorso “di investimenti inaspettatamente deboli in Germania” (uno); perché “gli investimenti in infrastrutture dovrebbero essere sostenuti lì dove i gap possono essere chiaramente identificati (per esempio il mantenimento e l’ammodernamento delle infrastrutture in Germania)” (due); e perché “una crescita bilanciata richiede che le economie in surplus rilancino la domanda interna (per esempio, la Germania)” (tre). Con tutto ciò Draghi si dice “totalmente” d’accordo. Unendosi così a quanti, in questi ultimi giorni, hanno messo il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble, “sotto pressione” (“unter druck”, come titolava ieri il quotidiano finanziario Handelsblatt). E non senza qualche piccolo risultato, pare. Perché perfino quella “specie esotica” di ministro rigorista, come l’ha dipinto il quotidiano tedesco, non proprio a suo agio nel clima più pragmatico che caratterizza l’altra sponda dell’Oceano atlantico, alla fine ha aperto alla necessità di “investimenti” nel proprio paese. Senza concedere nulla sul Patto di stabilità e crescita che vincola i conti pubblici di tutti gli altri, sia inteso. Ma almeno un segnale c’è.
Lo registrava ieri con enfasi pure il New York Times, in un articolo in prima pagina di Jack Ewing (capo della redazione economica in Europa) e Alison Smale (capo della redazione tedesca). Nell’articolo si dava conto di un altro indizio: la cancelliera Angela Merkel, in una conferenza stampa a Berlino, ha ammesso che le previsioni economiche per il suo paese sono “piuttosto peggiorate” e ha aggiunto che il suo esecutivo sta considerando come incoraggiare gli investimenti, specialmente “nel settore digitale”. “Investimenti nel digitale, non solo in ponti e strade come comunemente si pensa quando si parla di ‘infrastrutture’”, aveva detto Draghi proprio due giorni fa a New York, “specialmente per quei paesi che hanno spazio fiscale per sostenere la domanda”. Quella di Schäuble e Merkel è dunque un’apertura, per un paese in cui “negli anni 90 gli investimenti erano pari al 23 per cento del pil – ha scritto ieri Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore – Oggi sono scesi al 17 contro il 20 per cento della media Ocse. In soldoni ogni anno ne mancherebbero all’appello per 80 miliardi”. Berlino che rilancia la sua domanda interna non sarà un toccasana per tutti gli altri paesi che “spazio fiscale” non ne hanno, ma una stampella sì. Chi si ferma, anche nell’Europa del nord, è perduto. E’ la nuova “regola di Draghi”.
[**Video_box_2**]Ieri Draghi è tornato sullo spettro deflazionistico che incombe sull’Eurozona frenando i consumi e rigonfiando i debiti pubblici e privati. Il “trend” discendente dei prezzi è colpa di “fattori globali” ma “più recentemente” del “debole livello della domanda aggregata”. Su quest’ultimo fronte è bene che si muova chi può farlo, leggi Berlino. Perché il pareggio di bilancio nel 2015 è “un oggetto di prestigio”, ma può rivelarsi “privo di significato economico” se raggiunto a scapito della crescita in Germania e altrove, come hanno scritto alcuni think tank tedeschi due giorni fa. Merkel è avvertita.
Come è avvertito pure Renzi. E soprattutto i suoi oppositori apparentemente irriducibili. Quelli che, mentre si approva la legge delega per riformare il mercato del lavoro, non sanno nemmeno troppo bene che linea tenere. La riforma dell’articolo 18 riguarda un’infima quota di lavoratori italiani; anzi no, la riforma in realtà è annacquata; anzi no, la riforma non conviene approvarla in tempo di crisi; anzi no… Di fronte a questo impazzimento, Draghi è intervenuto a distanza, di slancio e senza nemmeno il solito inciso cautelativo del tipo “prima di giudicare dovremo vedere i decreti applicativi”. No, il banchiere centrale, a chi a New York gli ha chiesto se non si rischino effetti catastrofici nel momento in cui nel nostro paese si scalfisce il diritto al reintegro automatico del lavoratore licenziato, ha risposto così: “No, non penso che nella situazione attuale un mercato del lavoro flessibile causerebbe licenziamenti di massa”. Primo, perché “la disoccupazione in Italia è talmente alta che evidentemente gli imprenditori che volevano licenziare hanno già trovato il modo per farlo”; secondo, perché licenziare “non sarà così tanto più facile” se le nuove regole si applicheranno solo ai nuovi assunti nel settore privato (con buona pace del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che agita lo spauracchio della Thatcher); terzo, perché in realtà è la situazione attuale, con la flessibilità tutta sulle spalle di giovani iper precari, che “crea incertezza e comprime la domanda”.
Renzi dunque vada avanti, sembra dire Draghi mentre l’Istat pubblica l’ennesimo dato poco esaltate sulla produzione industriale (più 0,3 per cento ad agosto, meno 3,7 rispetto a un anno fa). Le “cose giuste” da fare le conoscono tutti, da anni. La crisi prolungata le ha rese solo più urgenti: l’elevata disoccupazione, per esempio, muta “gli incentivi” per i politici, secondo Draghi. E sempre la crisi inaridisce quelli che finora erano stati due palliativi cui ricorreva la politica: la crescita europea cui agganciarsi o la spesa pubblica improduttiva cui attingere. Ecco perché la regola di Juncker, valida per i tempi normali, è diventata obsoleta in tempi straordinari. Vivacchiare non è più un’opzione nelle mani dei governi. Ormai vale la regola di Draghi: se non fai le cose giuste, puoi sparire presto dalla scena politica.
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