La rete non è più il paradiso
Cade l’illusione che internet regali libertà e renda migliori. Non ci crede più nemmeno Rampini. La civiltà occidentale è la più infatuata di progresso. Ma l’idea di progresso assoluto, immancabile e garantito, non mi entra in testa.
Da anni mi sentivo solo. Sentirmi solo non mi inquieta molto, anzi. Mi succede però da tempo di non trovare qualcuno che capisca quello che intravedo a proposito di mondo digitale, internet, web, social network eccetera. Mi sorprende e trovo umoristico il fatto che ogni tanto, anche molti intellettuali, proclamino con soddisfazione, illuminandosi, come se fosse una loro originale scoperta, che l’informatica “gli ha cambiato la vita”: cosa che una volta si diceva di un grande amore, di una conversione religiosa, di un intervento chirurgico, della scelta di emigrare o di cambiare lavoro.
Il mio istinto, forse sano, forse perverso, mi ha prima consigliato e poi costretto a non avere niente a che fare con questo recente Brave New World. In fatto di rete sono un totale analfabeta, come probabilmente nel prossimo futuro soltanto gli animali riusciranno a essere. Questa compagnia non mi dispiace affatto.
Ho riletto da poco uno scritto di José Bergamin che si raccomanda soprattutto per il suo titolo: “Decadenza dell’analfabetismo”. Mi ha deluso, lo ricordavo migliore. Ma ogni volta che decade qualcosa di antico o precedente e ritenuto negativo, qualunque tipo di “analfabetismo” riguardante un qualche abbiccì della civiltà progressiva, credo che ci sarebbe da chiedersi che cosa precisamente sta succedendo. Che cosa decade di buono insieme a ciò che decade di cattivo. L’idea di progresso assoluto, cioè immancabile e garantito, non mi entra in testa: dovrei considerare la nostra vita presente, l’attuale umanità, con tutte le sue abitudini mentali e fisiche, come il più alto valore raggiunto nella storia delle civiltà umane e della civiltà umana occidentale, che è fra tutte la più appassionata, devota, infatuata di progresso.
Ora Federico Rampini, un giornalista che ho sempre stimato nonostante la sua palpabile aureola snobistica, perché sa correre subito lì dove succede qualcosa di veramente nuovo, ora è proprio uno come lui a farmi una gradita, inaspettata compagnia.
Rampini possiede tutte le competenze giuste che io non mi sogno di avere. Eppure nel suo libro “Rete padrona. Il volto oscuro della rivoluzione digitale” (Feltrinelli, 278 pp., 18 euro) nutre le mie stesse convinzioni. E’ vero che io (devo dirlo) ci sono arrivato prima: ma non avevo, non ho mai avuto né cercato tutte le prove per giustificare una tale inamovibile diffidenza antinformatica. Rampini invece ha percorso tutta la strada, la conosce a memoria in tutte le sue tappe e le sue svolte, sa tutto dei maggiori protagonisti di questa storica impresa. Può affermare con competenza ciò che si poteva intuire per istinto, solo che l’istinto, che può intuire bene, rischia sempre di essere cieco, perché pretende di vedere al buio.
Ho letto “Rete padrona” in uno stato di sovraeccitato ottimismo. Beninteso, nessuno fermerà o rallenterà l’espansione del potere dei nuovi Signori dell’universo, che soccorrevoli e premurosi hanno infilato con dolcezza, come in una Fabbrica del cioccolato, miliardi di esseri umani, tutti consenzienti e quasi sempre entusiasti. Ma Rampini, mezzo americano com’è, vissuto in California al momento giusto e ora stabilito a New York, ha capito ciò che innumerevoli intellettuali italiani non riescono ancora a concepire: che il paradiso informatico, la religione digitale, se non di fatto, è ideologicamente in declino e negli ultimi anni ha manifestato con progressiva accelerazione tutti i vizi nascosti nelle sue celebrate virtù.
Internet non dispensa libertà, non rende migliore la nostra vita e il nostro cervello. I geniali e giovanissimi ingegneri-imprenditori di Silicon Valley non sono né dei Leonardo da Vinci né dei benefattori dell’umanità. Oggi siamo tutti sotto il loro controllo e (per usare una parola passata di moda) siamo tutti “manipolati” come mai prima tecnologie della comunicazione erano riuscite a fare.
[**Video_box_2**]Davvero molto bello che un tipo informato come Rampini si sia convertito dall’ottimismo al pessimismo o scetticismo tecnologico. Lo dice lui stesso fin dalle prime pagine: prima credeva, ora no, prima era innamorato, ora è deluso. Vale la pena di sentire la sua voce: “I grandi amori sono pericolosi. Preparano delusioni, ferite incurabili. I miei ultimi viaggi a San Francisco mi lasciano in bocca un sapore dolceamaro (…) L’inondazione di nuova ricchezza dalla Silicon Valley si traduce anche in una frenesia immobiliare, che trasforma San Francisco in un cantiere perpetuo. I capitali debordano, le ruspe avanzano, i nuovi grattacieli si innalzano a una velocità da paese emergente. Le ‘bolle’, o la distruzione creativa, fanno parte del Dna californiano dai tempi della febbre dell’oro (…) Quando ci andai ad abitare quattordici anni fa, era in atto un’altra febbre, il boom di Internet, la new economy (…) Alle porte di San Francisco, imboccando l’autostrada 101, entravo nel cyber-universo di Internet. Oppure, andando a ritroso nel tempo, rivisitavo i miti fondatori della mia giovinezza: il Free Speech Movement di Berkeley che inaugurò la contestazione studentesca quattro anni prima del Maggio ’68 parigino, il radicalismo pacifista, la Summer of Love musicale, le prime battaglie vincenti dell’ambientalismo moderno. Ma anche la rivolta anti-stato (…) Oggi arrivo a San Francisco da New York. Ma ormai a San Francisco avverto un disagio, un’inquietudine. Per la velocità con cui si bruciano le illusioni, si tradiscono gli ideali, si sovvertono le utopie. Nel 2000 ancora c’era una tribù di hacker delle origini, quelli che avevano sognato Internet come una prateria aperta, un bene pubblico; accerchiati e assediati da colossi che allora si chiamavano Microsoft, Aol, Yahoo. Poi la fiaccola dell’innovazione passò nelle mani di Steve Jobs con Apple e di Larry Page e Sergey Brin con Google. Più di recente ancora, i social network Facebook, Twitter. Tutti promettono, all’inizio, di inventare un capitalismo nuovo. Disdegnano il profitto. Finché scopri che stanno creando una società diseguale quanto il vecchio capitalismo newyorchese. Perseguono gli stessi disegni egemonici, monopolistici. Ancora vestono come hippy, ma dentro i volti di tanti ventenni sognatori spunta una macchina pronta a tritare tutto ciò che ne ostacola i programmi di conquista”.
Senza nessuna voglia di rimproverare Rampini per avere creduto nell’utopia, quella macchina tritatutto forse si vedeva in azione fin dall’inizio. Le macchine che dicono di produrre libertà sono ambigue. Moltiplicano il potere nelle tue mani e quindi il gusto di un potere che vuole espandersi, la cui logica è solo quella di crescere, divorando tempo e spazio, spezzando vecchi vincoli per crearne di nuovi.
Rampini racconta le parabole di Bill Gates e di Steve Jobs, di Microsoft e di Apple. “Spodestata l’Ibm, Gates però divenne a sua volta uno spietato monopolista”. All’inizio Apple è “la piccola mela che si distingue dai colossi informatici. Poi però, quando il successo gli arride, Jobs si sforza di costruire un sistema chiuso, impenetrabile. E al tempo stesso diventa l’artefice di uno sfruttamento ignobile della manodopera cinese, in quegli stabilimenti Foxconn che lui si rifiuta perfino di visitare”.
Google, fondato dai “ragazzini” Larry Page e Sergey Brin, comincia con l’escludere “ogni pubblicità dai risultati del suo motore di ricerca” ma poi diventerà “la più gigantesca macchina pubblicitaria del pianeta”. Facebook e Twitter nascono come sorridenti giocattoli “per renderci tutti più vicini tra noi, più amici e comunicativi”, ma la loro trasformazione ne fa velocemente delle “macchine di distruzione della nostra privacy, ci spiano per vendere le informazioni sui nostri gusti e sui nostri consumi al migliore acquirente”.
Dunque macchine e ancora macchine. Rampini è costretto a ripetere questa vecchia parola dietro cui si spalanca una lunga storia che all’improvviso, trent’anni fa, ci si è rifiutati di leggere. La macchina è un mezzo che facilmente diventa scopo perché contiene uno scopo, lo fa intravedere, lo produce, lo impone. Nessuna tecnologia è soltanto uno strumento che ci lascia uguali a noi stessi, a come eravamo prima di usarlo. La ruota contiene il correre come scopo. Il fuoco fa nascere il desiderio e il bisogno sia di cuocere e riscaldarsi che di incendiare. Cose risapute, idee da bambini che per magia sono state dimenticate nell’ultimo mezzo secolo quando si è trattato di televisione e di informatica. Si è detto: tutto dipende dall’uso che ne fai, l’uso che sei libero di farne. I fatti hanno mostrato il contrario. Le macchine usano chi le usa, non meno di quanto facciano con loro gli utenti. Mai abbiamo avuto a che fare come oggi con macchine così potenti, polimorfe, versatili, intelligenti, promettenti, divertenti, magiche. La possibilità di dominarle si è vertiginosamente ridotta e questa diminuzione di libertà sia individuale che collettiva è il vero evento, il vero contenuto della rivoluzione digitale. Quanto più la macchina è intelligente, tanto più intelligentemente sequestra la tua intelligenza. Sarai anzi proprio tu a delegare volentieri, come fosse una liberazione, ciò che prima facevi in proprio: ricordare, orientarti, ponderare e scegliere, visualizzare, organizzare conoscenze e dati, eccetera. L’intelligenza artificiale è un’intelligenza senza corpo e senza psiche, i cui effetti derealizzanti sono calcolabili, ma non ancora calcolati e messi in conto.
Anche l’universo digitale, vengo a sapere, ha già avuto un suo Orwell. Si chiama Dave Eggers, è l’autore di un romanzo, “The Circle”, di cui Rampini dice che è “una formidabile allegoria orwelliana del nuovo totalitarismo digitale, abile nel mascherarsi dietro le bandiere progressiste, pronto a schierarsi con tutte le cause nobili per la salvezza del pianeta, ma spietato nel sorvegliare le nostre anime”.
Ecco comparire qui, inaspettatamente, una parola desueta: anime. Siamo dotati di anime? Dobbiamo crederlo? Lo crediamo al di qua e al di là di ogni concezione religiosa? Mortale o immortale o appena un poco più longeva di noi, l’anima si fa viva ogni volta che qualcuno si mostra molto, troppo interessato, più interessato di noi stessi a farne uso: un uso indiscreto, invadente. La tecnologia digitale ci rende liberi? Divertitevi con questo giochetto: provate a decidere di farne a meno per una settimana, magari quando siete in vacanza. Ce la fate? No? Dov’è finita la vostra libertà o anima?
Non a caso, il convertito al pessimismo o al realismo Federico Rampini dice che “Internet ci rende liberi” è il primo articolo diede o dogma del Nuovo mondo progettato nella Silicon Valley. Questa religione, come altre, in certe circostanze dà forza, un senso di padronanza che però può trasformarsi in qualcosa che somiglia a un delirio o sogno infantile di onnipresenza e onnipotenza.
Straordinari effetti psichici. Eccezionali effetti sociali. Vertiginosa moltiplicazione di desideri e bisogni. Purché rigorosamente limitati a quelli che le nuove macchine comunicative e informative offrono. Sempre meno cose e attività sono concepibili senza l’uso di queste protesi tecniche. Del resto lo stesso spazzolino da denti elettrico aveva già qualcosa di sinistramente comico: annunciava l’avvento di una vita domestica in cui basterà guardare il frigorifero con l’intenzione di aprirlo, perché si apra.
State tranquilli: Rampini non è né un luddista né un apocalittico. Sono io che sono tentato di esserlo. Per questo mi compiaccio di sentirgli dire che lui non riesce a fare a meno della Google Map, del suo tablet sottile e leggero, di Amazon che gli fa ricevere a casa libri introvabili. E’ lui ad ammettere che la sua produttività è aumentata rispetto ai tempi in cui aveva bisogno di un telefono, di una stenografa, di un fax. Ma ora che è tornato in California per “andare a vedere da vicino il laboratorio del futuro” si rende conto di una semplice verità spesso dimenticata e a volte riscoperta: che “il progresso è tale se ne restiamo noi i padroni”.
Padroni? Di che cosa siamo padroni? Neppure, o a mala pena, della nostra vita strettamente privata. Loro invece, i demiurghi della rete che Rampini senza ritegno chiama “i nuovi Padroni dell’universo”, dettano le regole del futuro e di che cosa va considerato progresso. Proprio loro “sono stati all’origine di una nuova religione, con tanto di certezze assolute, condivise dalla tecno-casta sacerdotale di esperti che serve i loro interessi”.
Sarà così. Ma questo, mi sembra, sarebbe il meno. C’è forse qualcuno che non sia adepto della stessa religione promossa e custodita dalla tecno-casta? Le “masse” della sociologia reazionaria o rivoluzionaria? Il “pubblico” della sociologia liberale e democratica? Sembra di no. Quella religione si è impadronita di tutti gli utenti. I quali non pregano nessun Dio, ma ubbidiscono alle loro amate abitudini tecniche.
Rampini ogni tanto sembra spaventarsi di quello che dice e pensa ora. Sente di avere ormai opinioni che in passato non avrebbe condiviso. Così, per tranquillizzarsi, a volte fa un passo indietro e scrive: “Sono convinto che, nel bilancio finale tra i costi e i benefici della modernità, ci sia ancora un segno positivo. Dobbiamo vaccinarci contro un pessimismo cosmico che troppo spesso è un handicap psicologico della vecchia Europa, e dell’Italia in modo particolare. Tuttavia lo stesso dibattito americano, di cui vi racconto diversi episodi in queste pagine, è animato da una corrente modernissima di critici del totalitarismo tecnologico”.
Queste righe sono rivelatrici. E’ probabile che Rampini, se fosse rimasto a vivere in Italia, non sarebbe arrivato a mettere insieme un così pesante e documentato atto di accusa come “Rete padrona”. Vivendo negli Stati Uniti ha capito che l’èra gloriosa, l’età dell’innocenza entusiasta, sono finite. Le opinioni più avanzate e d’avanguardia nel grande paese in cui la rivoluzione informatica è nata, sono opinioni che rendono difficili gli entusiasmi del passato. In un libro brillante, puntiglioso e sinceramente disgustato come il suo, le righe che ho appena citato sono le meno felici. Che bisogno c’era di dire che “nel bilancio finale tra i costi e i benefici della modernità” il segno è positivo? Chi può credere che sia possibile un bilancio “finale”? Nessuno ha ancora visto la fine, mi sembra. E poi dobbiamo davvero “vaccinarci contro un pessimismo cosmico”? Chi ne è affetto? Attualmente, di ottimisti sulla Rete e ogni tipo di gadget ce ne sono più in Europa e in Italia che negli Stati Uniti, paese nel quale Rampini ha respirato un’atmosfera di nuova critica radicale all’utopia tecnologica. Al leopardiano “pessimismo cosmico” gli italiani mi sembrano impermeabili. Se non usiamo di più le nuove tecnologie è solo per pigrizia. La stampa italiana è abitata invece da molti pappagalli che cantano ancora le lodi di un’idea di libertà comunicativa illimitata e ininterrotta: quella che sembrò vera vent’anni fa, ma ora è sia vecchia che falsa.
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