L'eutanasia di Brittany e l'incapacità liberal di spiegare per cosa si vive
La drammatica vicenda personale della giovane è fitta di implicazioni sulla culture war americana sul fine vita, battaglia che qualche anno fa sembrava vinta senza appello dai sostenitori dell’autodeterminazione, della disposizione totale della propria condizione mortale con la firma di una liberatoria e l’aiuto di un medico.
New York. Brittany Maynard ha già dietro lo specchio del bagno le pillole che il 1° novembre la uccideranno. La decisione è presa, ma non è irrevocabile, ché in questa materia la volontà, con le sue balze e suoi testacoda, è sovrana. Un medico dell’Oregon le ha prescritto i farmaci per indurre una morte dolce e assistita, come previsto dalla legge dello stato in cui la ragazza s’è trasferita per farla finita prima che il tumore al cervello le consumi le facoltà mentali. Il corpo della ventinovenne americana è sano, potrebbe sopravvivere per mesi mentre il cancro prende dolorosamente il sopravvento e costringe la famiglia all’angoscioso spettacolo di una sofferenza percepita come gratuita e senza scopo. L’operazione chirurgica per fermare l’espansione della massa tumorale ha avuto successo, ma poi il male si è presentato in forma ancora più aggressiva, lasciandola di fronte a opzioni cliniche anche più spaventose della malattia che si proponevano di curare. A quel punto i medici le hanno dato al massimo sei mesi di vita. Così assieme al marito ha deciso di trasferirsi dalla California in uno dei cinque stati americani dove il suicidio assistito è legale, e ha dedicato le sue energie a sensibilizzare l’America sulla possibilità estrema che viene offerta a chi si trova in condizioni simili alle sue.
“Ho messo in programma di festeggiare il compleanno di mio marito il 26 ottobre con tutta la famiglia. Se le mie condizioni non migliorano radicalmente, morirò poco dopo”, ha scritto in un editoriale pubblicato sul sito della Cnn. Quello di Brittany non è un desiderio di morte, ma la certificazione di una condizione insolubile che comporta sofferenze per lei, per la sua famiglia, per chi dovrà prendersi cura del suo corpo martoriato: “Non voglio morire. Ma sto morendo. E voglio morire alle mie condizioni”. La drammatica vicenda personale di Brittany è fitta di implicazioni sulla culture war americana sul fine vita, battaglia che qualche anno fa sembrava vinta senza appello dai sostenitori dell’autodeterminazione, della disposizione totale della propria condizione mortale con la firma di una liberatoria e l’aiuto di un medico.
[**Video_box_2**]Il columinst del New York Times Ross Douthat nota che in questi anni di forsennato allargamento del consenso liberal sulle questioni più controverse, dall’aborto alle relazioni affettive, il diritto alla dolce morte non ha avuto la stessa fortuna. Solo una manciata di stati permette il ricorso alla “morte dignitosa”, come la chiamano. Brittany ha deciso di raccontare la sua storia anche per spiegare all’America che non tutti i malati terminali come lei hanno le risorse, le condizioni, la tenacia, il sostegno per trasferirsi in luoghi dove i medici sono legalmente autorizzati a prescrivere i farmaci letali che la ragazza ha deciso di ingerire fra un paio di settimane. Il suo impegno estremo è anche la conseguenza del rallentamento della battaglia per il fine vita. Quello che Douthat riscontra è un inaspettato cambiamento dell’inerzia ideologica all’interno del movimento liberal, come se la sinistra americana dell’autodeterminazione e della volontà come ultimo tribunale intorno al proprio destino si fosse improvvisamente scoperta “male equipaggiata nel tentare di dare un senso alle sofferenze” e più in generale alla vita. I sostenitori del suicidio assistito hanno gioco facile quando “criticano l’inadeguatezza delle politiche del fine vita”, ma la cosa si complica quando sono costretti a rendere ragione delle sofferenze, cioè a spiegare per che cosa vale la pena vivere. Su questo scoglio la culture war si è incagliata.
Il Foglio sportivo - in corpore sano