Arriva la nuova crisi finanziaria?
Stime tetre, no nuove idee. Dal Guardian al Wsj, gli economisti dicono che la liquidità non va all’economia ma ai giochi finanziari sregolati. Allarme: di nuovo come nel 2008? Renzi prova con il taglio fiscale Irap.
Roma. Qualcuno deve avere rubato le vacche grasse. Sono passati quasi sette anni dall’inizio della crisi, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008. Esperti anglosassoni ed europei iniziano ad avanzare una domanda terribile: visto che la liquidità non si trasferisce agli investimenti nell’economia reale, seguirà un’altra bolla finanziaria, e poi una nuova recessione?
Nessuno sembra sapere che fare. C’è un cupo presagio che emerge dalle premesse e dalle conclusioni della convention annuale del Fondo monetario internazionale tenutasi a Washington lo scorso fine settimana. I banchieri centrali e i governanti hanno lasciato il consesso con “la generale percezione che la ripresa è diventata più debole di quanto si prevedeva ed è più accidentata lungo l’intero universo delle economie avanzate ed emergenti”, per usare la sintesi di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea. La crescita insomma non si vede e, anzi, il calo delle esportazioni e della produzione industriale della Germania ha allarmato i mercati – ora si teme la terza recessione in Europa nel giro di quattro anni – perché soprattutto la domanda interna è ferma.
Tuttavia, a livello globale, nessuno degli attori sa offrire indizi su come uscire dalla spirale negativa, faceva notare il Wall Street Journal. Il Fmi ha reiterato il mantra ripetuto dal 2008 chiedendo “misure forti e ambiziose”. Il gruppo del G20 non s’è pronunciato rinviando la strategia d’azione al prossimo incontro di novembre. Al fondo della questione c’è un sentimento di impotenza del gotha dell’economia globale scaturito dalla consapevolezza che gli ingenti stimoli monetari di questi anni – prodotti da Federal Reserve, Bank of Japan, Bank of England (anche in parte dalla Bce) – non si trasmettono all’economia e non si tramutano in posti di lavoro, e quindi in investimenti e crescita. Stati Uniti e Gran Bretagna sono “bright spots”, lucciole solitarie, e tuttavia le controindicazioni generali ai sovra-stimoli non mancano. L’ha rilevato il direttore del Fmi Christine Lagarde – “si stanno assumendo pochi rischi sul lato economico, e troppi invece su quello finanziario” – mentre José Viñals, consigliere del Fmi, ha rincarato la dose: “I policy maker devono affrontare un nuovo squilibrio economico: non si assumono abbastanza rischi in sostegno della crescita, ma aumentano gli eccessi sul versante finanziario”. Tradotto: i soliti vizi non sono finiti, ad esempio i derivati sono aumentati dall’inizio della crisi, il cash delle Banche centrali va a ingrossare la speculazione sia dentro sia fuori dalle Borse, tornate pericolosamente volatili. Wall Street ormai è in piena bolla. Infatti la capitalizzazione rispetto al prodotto lordo americano oggi è pari al 203 per cento, cioè è tornata al livello antecrisi.
[**Video_box_2**]Osservatori di diversa estrazione convergono nell’evidenziare il problema. Da sinistra, il capo dell’economia del quotidiano inglese Guardian, Larry Elliott, pungola la miopia del Fmi (“non ha visto la crisi e non sa come uscire” da questa probabile “stagnazione secolare”, ovvero un declino strutturale dei tassi di crescita potenziali) dove ci si aspettava che “il denaro a basso costo potesse resuscitare gli animal spirits degli imprenditori, incoraggiarli a investire. Invece, hanno fornito nuove chip al casinò degli speculatori”. Anche da area liberista anti keynesiana, ovvero dal Wall Street Journal, si dice che gli attuali problemi vanno risolti senza ricadere negli errori che hanno portato alla crisi. Ma non si è forse sempre fatto così?, chiede in sostanza Wolfgang Münchau, un pessimista bene informato nonché penna filo rigorista del Financial Times. Ci siamo affidati sempre alla stessa ricetta, espansione monetaria, bolle e crisi: “Senza un insostenibile boom di credito da qualche parte – scriveva Münchau il 7 ottobre – l’economia mondiale sembra incapace di generare una crescita della domanda sufficiente ad assorbire l’offerta potenziale. Sembra una legge della conservazione dei boom di credito. Considerate l’ultimo quarto di secolo: un boom di credito in Giappone che è collassato dopo il 1990; un boom di credito nelle economie emergenti asiatiche che è collassato nel 1997; un boom di credito nelle economie del nord Atlantico che è collassato dopo il 2007; e da ultima la Cina. Ognuno di questi boom è stato salutato come una nuova èra di prosperità, per poi collassare in crisi e malessere post crisi”. I profeti di sventura sono molti. Alcuni sono aruspici visionari. I servizi segreti americani, ad esempio, hanno studiato l’espansione monetaria (gigantesca) della Federal Reserve, e hanno concluso che la moneta si trasmette a una velocità troppo bassa per essere impiegata in modo produttivo. Hai voglia insomma a stampare banconote.
Acciuffare la liquidità in circolo dipende insomma da altro, e non si può aspettare un “piano B” globale. Il premier Matteo Renzi, per rilanciare la domanda interna, intende aumentare la capacità di spesa dei lavoratori e, insieme – ha annunciato ieri – vuole tagliare le tasse sulle imprese (Irap) di 6,5 miliardi dal 2015.
Il Foglio sportivo - in corpore sano