Mario Vargas Llosa, classe 1936, premio Nobel per la Letteratura nel 2010

Liberali ma contenti

Marco Valerio Lo Prete

Media meno guardoni, giudizi affilati su noi e l’islam, più spirito critico. Così per il Nobel Vargas Llosa la democrazia può tornare sexy nella “società dello spettacolo”.

Nel marzo 2005, intervenendo a Washington per ricevere il premio Irving Kristol, il più alto riconoscimento concesso dall’American enterprise institute, il romanziere peruviano Mario Vargas Llosa si mostrò tutt’altro che imbarazzato di trovarsi in uno dei templi del conservatorismo statunitense. Anzi, fin dalle prime battute si disse riconoscente per quell’accoglienza calorosa che gli veniva riservata: “Nell’ambiente nel quale sono solito muovermi, ossia in America latina e Spagna – disse – quando un individuo o un’istituzione rende omaggio ai miei romanzi o ai miei saggi, di solito aggiunge subito: ‘Sebbene dissentiamo dall’autore’; ‘Per quanto non sempre ci troviamo d’accordo con lui’, oppure ‘Ciò non significa che accettiamo le sue critiche o le sue opinioni in merito a questioni politiche’”. Essere apprezzato e addirittura premiato per le sue convinzioni liberali, così spesso ribadite in pubblico, a Vargas Llosa parve una novità di non poco conto. Magari non al livello del Nobel per la Letteratura conquistato cinque anni dopo, nel 2010, ma pur sempre un fatto rimarchevole. Soprattutto per un poeta e scrittore (sudamericano) che fin dagli anni 80 criticava il regime castrista di Cuba, a costo di veder incrinare i rapporti con l’amico Nobel Gabriel García Márquez; che nel 1990 aveva deciso di candidarsi con un manifesto pro libero mercato alla presidenza del proprio paese, contro il populista e autoritario Alberto Fujimori; che nel 2003 si disse scettico sull’invasione angloamericana dell’Iraq, salvo poi scegliere di scrivere reportage direttamente da Baghdad e alla fine arrivare alla conclusione che “l’Iraq è meglio senza Saddam Hussein che con Saddam Hussein, su questo non c’è dubbio”. 

 

Questa settimana il Foglio ha incontrato Vargas Llosa a Milano, poche ore prima che l’Istituto Bruno Leoni gli conferisse il suo premio annuale. Il think tank diretto da Alberto Mingardi, nella motivazione, ha scritto che “i suoi romanzi” – tra cui “La città e i cani”, “Conversazione nella catedral”, “La festa del caprone”, “Il sogno del Celta”, “L’eroe discreto” – “raccontando i rapporti di forza e sottomissione tra le persone, il quotidiano impegno a fronteggiare le costrizioni sociali, siano esse reprimende della morale comune o forme di violenza istituzionalizzata, hanno insegnato a tante persone cosa voglia dire la ricerca della felicità”. Vero. Però lo scrittore peruviano è tormentato ancora da un rovello che emerge qui e lì nei suoi scritti, specialmente nei saggi e negli articoli di giornale: la liberal-democrazia può ancora essere percepita come sexy e attraente nella nostra “società dello spettacolo”? Il liberalismo, parola satanisada per eccellenza secondo l’autore nato nel 1936 ad Arequipa, può rimanere un ideale competitivo agli occhi di cittadini-spettatori ossessionati dalla novità e pronti ad accogliere tutto quello che non lo è con “il Grande Sbadiglio, anonimo e universale, che costituisce l’Apocalisse e il Giudizio Finale della società dello spettacolo” (copyright: il poeta messicano Octavio Paz)? Vargas Llosa ci riflette da anni e non è poi così pessimista.

 

“La passività e l’autocompiacimento che caratterizzano le opinioni pubbliche occidentali nascono dalla sensazione che non ci sia nessun pericolo per le libertà fondamentali di cui godiamo – esordisce il romanziere – Da una parte questo atteggiamento può essere considerato realistico, nel senso che nemmeno la crisi economica e il terrorismo islamico pongono un pericolo immediato al nostro sistema, perlomeno negli Stati Uniti e in Europa occidentale. Ma d’altra parte lo stesso atteggiamento può diventare estremamente pericoloso nel medio e nel lungo periodo”. Vargas Llosa da tempo si chiede: “Quanti tra coloro che godono del privilegio di vivere in società aperte, protette da uno stato di diritto, rischierebbero la vita per difendere questo tipo di società?”. Rispondendo così: “Pochissimi, per la semplice ragione che la società democratica e liberale, pur avendo favorito i livelli di vita più alti della storia e ridotto maggiormente la violenza sociale, lo sfruttamento e la discriminazione, invece di risvegliare adesioni entusiastiche, di solito provoca in chi ne beneficia noia e indifferenza, se non un’ostilità sistematica”.

 

Sostiene che una certa evoluzione del giornalismo mainstream abbia influenzato in peggio il livello del dibattito pubblico. “Non c’è nessun disegno dietro, sia chiaro, ma i media sono diventati sempre più una fonte di ‘intrattenimento’ piuttosto che di ‘informazione’. Si abbandona l’informazione e si percorre ogni strada possibile per conquistare l’audience. Anche a costo di distorcere l’informazione stessa”. Lo scrittore non manca di criticare l’attivista australiano Julian Assange, la sua piattaforma Wikileaks che ha rifornito i giornali del pianeta di documenti coperti da segreto di stato o di altro tipo, e più in generale “la deriva scandalistica” dei media: “Un atteggiamento critico verso il potere, politico o di qualsiasi tipo esso sia, è salutare e io lo sosterrò sempre. Ma se invece accettiamo di violare il sistema legale su cui si fondano i nostri regimi politici, di spogliare la diplomazia della rispettabilità che gli è propria, di trasgredire infine il diritto alla privacy dei politici, tutto in nome del diritto allo svago del pubblico e non dell’analisi critica, allora dobbiamo sapere che stiamo erodendo alla radice il nostro sistema democratico. Questo fa parte del collasso di quei valori morali che ancora nel recente passato puntellavano le nostre società libere”. Vargas Llosa non invoca nessuna “censura” che sarebbe “peggiore del male che s’intende curare”. Auspica piuttosto una reazione diffusa “alla banalizzazione e alla  frivolezza dei nostri media che, tra l’altro, impoveriscono le stesse battaglie di chi vorrebbe contestare lo status quo”. L’informazione trasformata in “entertainment puro, facendo saltare ogni categoria di ‘verità’ o ‘falsità’, alimenta la confusione e in generale quella percezione che è spesso alla base dell’antipolitica generalizzata”. Lo scrittore, che di regimi populisti ne ha conosciuti e criticati più d’uno nella sua America latina, dice che “l’equazione tra politica e corruzione, sempre più comune, rimane evidentemente un’esagerazione. Perfino nelle società più corrotte non mancano persone decenti che fanno politica. Ripetere incessantemente l’opposto produce risultati pericolosi. Genera una svalutazione dell’attività politica tout court, allontanando dall’arena pubblica persone competenti e rette, incentivando il monopolio dei mediocri, facendo sì che la profezia dell’antipolitica si realizzi”. Se la gogna generalizzata riservata a chi contribuisce al governo della cosa pubblica fa audience ma non lo convince, l’antidoto per Vargas Llosa non consiste comunque nel rendere intoccabile il sistema attuale: “I liberali sono convinti che si debba, in ogni occasione, contenere e decentralizzare il potere. In questo modo si combatte la tentazione nefasta della politica di catturare l’intera vita di una società”.

 

Media e opinionisti di oggi, un po’ come certi intellettuali del 1968, dovrebbero “fermarsi un attimo e chiedere a se stessi: vogliamo migliorare il sistema o soltanto distruggerlo?”. “La ribellione è totalmente accettabile all’interno di un regime dispotico o autoritario, ma in una società aperta ci sono le istituzioni necessarie per fare opposizione”. Il premio Nobel, già nella sua raccolta di saggi “La civiltà dello spettacolo” del 2012, pubblicata in Italia da Einaudi, osservava criticamente gli effetti del movimento che 46 anni fa proclamava “Proibito proibire!”. Quel movimento, scriveva Vargas Llosa, “ha redatto l’atto di morte del concetto di autorità. E ha dato legittimità e glamour all’idea che ogni autorità sia sospetta, pericolosa e deprecabile e che l’ideale libertario più nobile consista nel disconoscerla, negarla e destituirla. Il potere non è stato minimamente scalfito da questo affronto simbolico dei giovani ribelli che, nella maggior parte dei casi senza saperlo, hanno portato sulle barricate gli ideali iconoclasti di pensatori come Foucault. Basti ricordare che nelle prime elezioni celebrate in Francia dopo il Maggio del 1968, la destra gaullista ha ottenuto una vittoria netta”. Mentre il potere non è scomparso, si è sgretolata invece “l’autorità, nel senso romano di auctoritas”, cioè quell’insieme di prestigio e credibilità riconosciuti a persone o istituzioni per il loro valore o competenza: “In nessun altro ambito come nel sistema educativo questo pare evidente. Il maggio del 1968 ha distrutto l’auctoritas di maestri e professori, senza rimpiazzarla con nulla. Il risultato è una crisi permanente dell’educazione che ancora oggi nessun paese europeo è riuscito a risolvere”.

 

[**Video_box_2**]Gli intellettuali possono avere un ruolo importante nel rivitalizzare il senso d’attaccamento alla liberal-democrazia. Come? “Sviluppando un’attitudine genuinamente critica verso tutto, verso lo stato, le istituzioni e i valori stessi. Questo è stato un elemento fondamentale del progresso della civiltà occidentale”, dice Vargas Llosa. Ritrovare il gusto per la capacità di esprimere giudizi, ragionati quanto si vuole ma se necessario tranchant. Altrimenti si rischiano derive simili a quella che ha investito le arti figurative, pittura in primis: “Siamo in una situazione in cui nessuno sa più dire cosa è bello, cosa è brutto, cosa sia autentico o cosa artificiale. C’è una confusione tale che le uniche certezze che abbiamo riguardano il passato”. In generale, se si fa coincidere la definizione di “cultura” soltanto con quella che l’antropologia le ha attribuito – tutte le manifestazioni della vita di una comunità – allora ogni cosa “viene equiparata e uniformata”. “Oggi anche la cultura è diventata ‘entertainmment’. Alcune persone ritengono che finalmente essa stia pervadendo per la prima volta tutta la società: la cultura è meno ‘difficile’ di com’era una volta, grazie ai media raggiunge tutte le classe sociali, e se anche ciò ha mediamente impoverito la cultura, almeno l’ha democratizzata. E’ questa la tesi di molti pensatori. Il problema è che la popolarizzazione della cultura ha avuto come conseguenza negativa il fatto che l’esperienza critica è quasi del tutto scomparsa”. Vargas Llosa, a mo’ di esempio, cita il caso delle “serie televisive”: “La televisione ha scoperto un genere in cui i media possono essere molto creativi. Ovviamente queste serie offrono una grande fonte di divertimento, originale e sofisticato allo stesso tempo. Tuttavia questo tipo di divertimento è totalmente scevro di attitudine critica. Non è problematico, non ti instilla dubbi o angosce sul mondo in cui viviamo, piuttosto alimenta un senso di conformismo, rassegnazione verso la vita come essa è, apatia invece che impegno, attivismo sociale o politico. Anche qui, non credo in nessuna pianificazione che puntasse a tutto questo. E’ un morbo che si è sviluppato misteriosamente, come risultato contraddittorio del successo democratico”. Vargas Llosa cita “House of cards”, “una serie straordinaria sulla politica statunitense, non c’è dubbio, ma alla fine il politico criminale viene eletto presidente degli Stati Uniti, la più grande democrazia del pianeta. Questo è un buon esempio: sembra una storia politica – ride – ma il messaggio che passa è che la politica è un affare criminale e che il peggior criminale diventa presidente degli Stati Uniti”, esclama. “Se questo fosse soltanto un aspetto del panorama culturale, non ci sarebbe nulla di male. Se il resto però nel frattempo scompare, allora è un problema. Tutto quello che non è cultura light viene sempre più confinato in ghetti accademici e ha raggiunto un tale livello di specializzazione ed elaborazione che si colloca fuori dalla portata del cittadino comune. Questa ‘cultura minoritaria’ non può giocare quel ruolo critico che tradizionalmente la cultura aveva avuto nelle società democratiche. Se all’esplosione di ciò che è dozzinale fa da pendant la specializzazione estrema, l’irrilevanza della cultura è assicurata”.

 

A proposito della riscoperta del giudizio critico: lei, attaccando il “politicamente corretto”, ha scritto che “una cosa è credere che tutte le culture meritino considerazione, visto che tutte forniscono apporti positivi alla civiltà umana, e un’altra, molto diversa, è credere che tutte, per il semplice fatto di esistere, si equivalgano”. C’entra qualcosa con la scarsa affezione alla democrazia liberale? “Viviamo in un mondo caratterizzato da un’estrema volatilità. Anche se il principale pericolo che ha corso la democrazia, quello posto dal comunismo, è ora praticamente scomparso, ci sono altri pericoli che possono raggiungere rapidamente una dimensione globale se non agiremo in maniera decisa per fermarli e cancellarli”. Vargas Llosa si riferisce al “fondamentalismo religioso, in particolare nel medio oriente”: “Il terrorismo ispirato dalla religione si sta già espandendo in tutto il mondo, e non dimentichiamo che è già sconfinato in occidente. Penso agli attentati terroristici negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Spagna. Quello che succede in queste settimane in Siria e in Iraq, ad opera di chi vuole instaurare un Califfato islamico, è soltanto un assaggio di quello che potrà arrivare un giorno in Europa se non agiremo ora per fermare tutto ciò”. In ballo non c’è soltanto il principio di autodifesa: “Il mondo occidentale ha l’obbligo morale di aiutare quanti resistono con coraggio al fondamentalismo, in Medio oriente, Asia o Africa che sia”. L’offensiva aerea di Washington e alleati, teoricamente, ha questo obiettivo: “Quanto stiamo facendo è molto insufficiente – replica il premio Nobel – Dovremmo essere molto più attivi, specialmente a sostegno dei curdi e della loro coraggiosa resistenza al Califfato. Il mondo occidentale dovrebbe esercitare per esempio maggiori pressioni sulla Turchia affinché abbandoni il suo attendismo: Ankara, prima di intervenire, sembra auspicare che il Califfato distrugga la resistenza curda per risolvere i propri problemi interni. Una visione limitata e minimalista dell’aggressione in corso, che si potrebbe rivolgere contro la stessa Turchia”.

 

Vargas Llosa suggerisce una terza ragione per cui un coinvolgimento europeo più “radicale” è necessario. “Il fondamentalismo religioso e il Califfato non sono un problema soltanto locale. Si pensi al fenomeno dei jihadisti con passaporto occidentale”. Eccoci di fronte a un cortocircuito interno al Vecchio continente: “In Europa, da due o tre generazioni, vivono comunità di origine straniera che non si sono integrate nella società libera. Curiosamente, invece di essere simpatetiche con le sorti dei loro paesi, hanno sviluppato una sorta di odio e di rigetto verso i paesi in cui sono nati. Alcuni viaggiano verso la Siria e l’Iraq per combattere da lì i propri paesi di origine”. Il “fallimento” di cui prendere atto, secondo Vargas Llosa, è “duplice”. Primo, “hanno fallito le società europee e la loro capacità d’integrazione. Non è un caso che negli Stati Uniti, dove pure il fenomeno migratorio è stato più imponente, tali tensioni siano minori”. Lo scrittore mentre parla ha in mente anche la parabola della madre, peruviana emigrata negli Stati Uniti, poi in vecchiaia rientrata nel paese d’origine e la quale, come ha raccontato una volta il figlio, “non ha mai avuto problemi nel considerarsi al tempo stesso peruviana e americana, e non vi è mai stata la minima ombra di un conflitto tra la fedeltà ai suoi due paesi”. “Non è un problema di politiche dell’integrazione – dice – Il punto è che gli Stati Uniti sono una società più libera. In Europa ci sono strutture rigide in cui, per le persone straniere, è più difficile inserirsi”.

 

Poi c’è un secondo “fallimento” rivelato dal caos mediorientale di queste settimane, ed ha a che fare con l’islam: “La cultura islamica è ancora profondamente innervata di religione. Non c’è stato un percorso di laicizzazione come quello che ha democratizzato e reso pluralista il mondo cristiano. L’islam sfortunatamente non ha ancora attraversato tale processo e, finché non lo farà, se mai lo farà, l’islamismo sarà essenzialmente non-democratico”. Il pericolo per le nostre democrazie è di tipo esistenziale, ma non insormontabile: “Il comunismo era un’utopia che a un certo punto del XX secolo sedusse milioni di persone nel mondo. Ed è scomparso. L’islam politico non può essere un’utopia per nessuno che faccia parte della nostra civiltà, non foss’altro perché questa utopia ritiene per esempio di poter emarginare metà dell’umanità e convertire le donne in oggetti. E’ un pericolo per le democrazie liberali, ma non costituisce un’alternativa come invece faceva il comunismo”.
Ritorna qui l’ottimismo di fondo che non abbandona quasi mai il ragionamento del premio Nobel: “Non sono pessimista, è difficile esserlo”, dice evocando l’avanzata della democrazia e del libero mercato nella sua America latina negli ultimi vent’anni.

 

“‘Liberalismo’ è considerata una brutta parola quasi in tutto il mondo, nello stesso mondo che però si muove quasi ovunque in una direzione liberale. I paesi che vogliono evolvere sono obbligati ad accettare in fondo istituzioni liberali e valori liberali. Magari lo fanno senza dirlo, perché la parola ‘liberalismo’ è stata ‘satanisada’”. Il liberalismo si fa ma non si dice: “Si preferisce parlare di valori social-democratici, cristiano-democratici… Ciascuno usi la parola che preferisce, ma il senso non cambia. In un mondo in cui noi liberali sembriamo sconfitti e marginalizzati – sorride – quello che accade realmente continua a dare ragione ai nostri pensatori di riferimento”.

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