Reazioni scomposte
I mercati si placano un po', ma ora in America si teme che l'Eurozona sia perduta
Finora gli investitori si erano abituati all’idea di una Bruxelles ritardataria. Adesso fa paura il totale immobilismo.
Roma. Venerdì 17, perlomeno questa volta, ha portato bene. Ieri infatti i mercati hanno invertito la rotta dopo i crolli repentini degli scorsi giorni: la Borsa di Atene, epicentro della tempesta della settimana appena conclusa, è stata la migliore d’Europa (più 7,2 per cento), seguita da Milano (più 3,4), Francoforte e Parigi. Lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi ha chiuso a 162 punti, dopo che due giorni fa aveva superato quota 200. Anche Wall Street, che comunque aveva perso meno, ieri pomeriggio procedeva in rally mentre questo giornale andava in stampa. Come spiegare lo scossone appena subìto? Guardare all’andamento dei listini non è detto che sia d’aiuto. Non a caso il premio Nobel Paul Samuelson, economista statunitense scomparso nel 2009, una volta disse: “Gli indici di Wall Street hanno previsto nove delle ultime cinque recessioni!”. Anche la francese Christine Lagarde, numero uno del Fondo monetario internazionale (Fmi), ieri, dopo aver premesso che “generalmente l’Fmi non commenta le variazioni dei mercati a breve termine”, si è sentita in obbligo di aggiungere: “Non si può fare a meno di pensare che si è in presenza di una correzione e forse a questo stadio di un’eccessiva reazione dei mercati”. A cosa reagissero non è dato sapere, o meglio di ipotesi se ne sono formulate fin troppe: instabilità politica in Grecia, prezzo del petrolio in caduta per colpa di una domanda stagnante, stress test bancari europei (con possibili bocciature) in arrivo, cenni di una stretta monetaria anticipata da parte della Federal reserve statunitense, nuove conferme sulla possibile deriva deflazionistica dell’Eurozona. Il punto è che nulla di tutto ciò, di per sé, appare come una novità così dirompente a chi segue da vicino i mercati. Più plausibile una sorta di “fatica” accumulata dai mercati di fronte a una convergenza di fattori: fatica che prima o poi gli investitori vorranno scrollarsi di dosso. Non è detto che sia arrivato quel momento, ma intanto abbiamo avuto un assaggio di quel che potrebbe accadere. Tutto questo oltreoceano ha contribuito a radicare una convinzione: non è più scontato che l’Eurozona, seppure con l’ormai noto ritardo, seguirà la strada della ripresa percorsa dagli Stati Uniti.
Visto dall’altra sponda dell’oceano Atlantico, lo scossone dei mercati di questi giorni ha soprattutto il significato che gli attribuiva ieri Anatole Kaletsky, commentando sul New York Times International. Negli ultimi anni, passato lo choc di Lehman Brothers e poi quello greco, secondo Kaletsky si era diffusa la convinzione che “quando l’economia americana sembrava muoversi verso un percorso di espansione sostenibile, era ragionevole ritenere che il resto del mondo avrebbe seguito con un ritardo di uno o due anni”. Gli investitori dunque si scoprivano pessimisti soprattutto dopo risultati più negativi del previsto in arrivo da Washington. “Ora però sembra che questo legame si sia rotto – scrive Kaletsky – La Banca centrale europea, nella conferenza stampa di Mario Draghi dello scorso 2 ottobre, ha fortemente deluso gli investitori che si attendevano seguisse l’esempio della Fed e annunciasse misure monetarie ampie e drastiche, il tutto combinato a una convincente ricapitalizzazione del sistema bancario europeo”. Risultato: molti investitori starebbero definitivamente realizzando che anche se l’economia americana tornerà stabilmente a crescere, “l’Europa condannerà se stessa alla stagnazione permanente o alla recessione”.
[**Video_box_2**]E’ questa, in termini più espliciti, la tesi della “fatica accumulata” dagli investitori rispetto al Vecchio continente. E non sono soltanto i commentatori a dirlo. Il Tesoro statunitense, nel suo rapporto semestrale al Congresso sull’economia internazionale, punta il dito verso quei leader mondiali – dell’Eurozona in particolare – che non recepiscono due assunti. Il primo: “La crescita globale continua a deludere, principalmente a causa della debole domanda globale”. Il secondo: i paesi con la bilancia commerciale in surplus dovrebbero contribuire di più a puntellare l’economia, cominciando con il sostegno alla domanda interna. Il paese europeo più citato dal Tesoro – così come era già successo nella Global policy agenda presentata la scorsa settimana dal Fmi – è la Germania, il cui avanzo della bilancia commerciale supera ancora il 7 per cento del pil, osservano accigliati a Washington auspicando apertamente che la Commissione Ue dia seguito ai suoi richiami. Lo scorso agosto, parlando a Jackson Hole (Stati Uniti), anche Mario Draghi per la prima volta disse esplicitamente che la “domanda” floscia poneva un problema alla Bce. Fino ad allora il processo disinflazionistico europeo era stato spiegato solo con il raffreddamento dei prezzi energetici mondiali, con l’aggiustamento strutturale nelle economie periferiche e altri fattori che comunque non chiamavano in causa la Bce. Poi però, in quell’occasione, Draghi aggiunse che anche la carenza di “domanda” era un problema. Esattamente quanto contestato ieri da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, in un suo discorso pubblico a Riga. Un discorso insolitamente duro, in cui il banchiere centrale tedesco ha criticato apertamente il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, e quanti chiedono alla Germania di investire e consumare di più per rilanciare la crescita, oppure di smetterla con gli attacchi alla Bce che frenano Draghi. Parole che negli Stati Uniti, sempre più, fanno prevedere il peggio: l’immobilismo europeo.
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