L’immagine è all’incirca questa: un castello torvo e silente con il ponte sollevato, la bandiera di Forza Italia afflosciata sull’asta. Dentro, il Decamerone. Fuori, la peste

La destra che non c'è

Salvatore Merlo

Il Cav. fece senatori molti cavalli, ma non c’erano alternative. Prospettiva opaca, ma c’è il lascito paradossale e vitale del “renzismo”, senza di lui impossibile.

L’immagine è all’incirca questa: un castello torvo e silente con il ponte sollevato, la bandiera di Forza Italia afflosciata sull’asta. Silvio Berlusconi ci si è arroccato dentro con Francesca e la corte, sopravvivono illuminati dal blasone, dal riflesso di vent’anni di gloria, ogni tanto si raccolgono davanti al caminetto del salone centrale, con sforzata aria di festa, viene anche Vladimir Luxuria, e il Cavaliere lascia fare, allegro e dimesso. Fuori, al di là delle mura, c’è invece uno strano attendamento rattoppato, si vive di stenti: Alfano e Meloni, Salvini e Casini. Il Decamerone dentro, la peste fuori. “Renzi si è già mangiato la destra”, dice Luca Ricolfi, il professore, l’editorialista della Stampa. “Berlusconi aveva una visione ristretta. La sinistra e la destra in questi ultimi vent’anni si sono mosse nello stesso recinto: Berlusconi dava una mano al lavoro autonomo, Romano Prodi al lavoro dipendente, uno era legato al sindacato, l’altro ai produttori. Il recinto era diviso quasi perfettamente a metà, in maniera equa. Renzi cosa ha fatto? Si è semplicemente allargato. Ha occupato un buon 20 per cento del recinto in cui prima si muoveva il solo Berlusconi. E li ha spiazzati tutti”. Eppure, dentro il Castello, il Cavaliere e la corte hanno viveri in dispensa grazie all’insperato accordo con il Principe Renzi, dunque si può generare un lascito: chi l’avrebbe mai detto dopo le scorribande di Ilda la Rossa! Così il Cavaliere ormai non lo nasconde più, lui preferisce il giovane Principe Matteo ai suoi stessi cortigiani. “Non li ha mai amati e non li ama”, dice Giovanni Orsina, professore della Luiss, anche lui, come Ricolfi, editorialista alla Stampa. “Berlusconi se li è scelti apposta”, dice Orsina. “Dopo Alfano, c’è Giovanni Toti. Perché se li sceglie tutti così? Perché vuole essere solo lui, un’ombra immortale proiettata all’infinito. E loro adesso ovviamente non sono in grado di fare molto”.

 

“… Né quelli che sono rimasti dentro al Castello, né quelli che se ne sono andati. Difatti ogni tanto torna ciclicamente l’idea della successione dinastica. Un figlio non è lui, certo, non è Silvio Berlusconi, ma è comunque un frutto del suo corpo. Berlusconi adesso taglia le gambe a Fitto. E’ vero che Fitto esprime pochissimo. Ma come fa a esprimere qualcosa Fitto, o qualunque altro uomo della destra? Cosa dovrebbero mai esprimere che non sia già espresso con maggiore forza, con maggiore credibilità e persino freschezza da Renzi. Renzi fa la polemica contro i giudici, ha fatto il Jobs act e ora taglia l’Irap. Signori: questa è politica di destra”.

 

Così Fitto guarda torvo il Cavaliere, e Toti si aggira per i corridoi come un orsetto smarrito, lui e Dudù. Ogni tanto un carretto guidato dal grintoso Verdini attraversa il ponte levatoio, viene da Palazzo Renzi, porta le vivande al maniero di Arcore, come nella poesia di Neruda, “ti porterò dalla montagna fiori allegri”. Denis sembra Falstaff, spacconerie e motti di spirito, supera allegramente Brunetta che si è disteso per terra, nel tentativo vano di fermarlo: trasporta grappoli di riforma elettorale, un grosso melone costituzionale, un cestino di nomine pubbliche, un fresco taglio d’Irap. Quanto ben di Dio! “Il patto del Nazareno ha restituito a Berlusconi delle leve che probabilmente, dopo la condanna in via definitiva, dopo l’esclusione dal Senato, dopo l’incandidabilità, non avrebbe mai pensato di poter azionare”, spiega Orsina. “Questo non significa che Berlusconi è vivificato da Renzi, perché Renzi in realtà soffoca Berlusconi. Ma significa che al Cavaliere resta un margine di manovra. Una possibilità di chiuderla bene”. Ma ecco che all’improvviso l’immagine si allarga. Così tutt’intorno al Castello blindato si rivela, per l’orrore del pubblico, un cencioso accampamento di tende, pelli di capra, fuocherelli improvvisati nel vischio fangoso.

 

C’è Ignazio La Russa che scalda una minestra composta di foglie secche di Alleanza nazionale. Giorgia Meloni aiuta La Russa a rimescolare la zuppa con l’energia dei suoi quarant’anni: entrambi tacciono, forse ripensano al tempo che fu, e tra loro, nell’intimità dell’inconfessabile, ammettono che la minestra di An non ha più lo stesso sapore, non piace nemmeno agli elettori. In fondo a destra c’è Matteo Salvini, che seppellisce grossolanamente Bossi, Maroni e i corni celtici. Poi c’è Casini, che ancora si spolvera di dosso la lacca di Mario Monti. Più in là s’intuisce invece il profilo di Angelino Alfano. E’ proprio lui: serio, sta dando ordini dall’alto a Maurizio Lupi, che trattiene per il bavero un povero senatore di Ncd pescato nel tentativo di tornare dentro il Castello. “La Russa sta al 2 e qualcosa per cento, l’Udc all’1, Alfano al 2, Berlusconi è crollato al 15”, dice Vittorio Feltri, mentre ascolta la descrizione di questo quadro caricaturale, fumettistico. “Berlusconi è sempre Berlusconi, malgrado le ammaccature evidenti. Ma gli altri non hanno idee, non viene fuori niente, nessuna alternativa, solo beghe miserabili, lotta per un posticino, un pennacchio, una medaglietta”. E Orsina, quasi sospirando: “Ci sono delle condizioni perché un aggregato politico, anche in crisi, possa sopravvivere. Può sopravvivere se, per esempio, ci sono delle istituzioni bipolarizzanti che creano le condizioni geometriche e fisiche perché sia necessario un forte polo alternativo. Ma tutto questo noi non ce l’abbiamo. Il nostro sistema non è bipolarizzante (a meno che non si cambi davvero il sistema elettorale, cosa di cui non sono affatto sicuro). Se poi non sono le istituzioni che ti obbligano ad avere una destra contrapposta alla sinistra, allora può essere il ceto politico, la classe dirigente a determinare un’invenzione, una mossa del cavallo che garantisca la sopravvivenza. Ma il materiale umano della nostra destra è pressoché zero. Resta dunque l’elettorato. Ma  purtroppo per gli uomini della destra, Renzi se li mangia quei voti. Quindi, in sintesi: non c’è classe dirigente, non c’è sistema istituzionale che garantisca la destra, e non c’è più nemmeno lo spazio politico della destra. Morale? E’ finita”.

 

Così anche Feltri descrive la destra italiana come un pavimento nero, freddo, immobile: una palude in cui non ribolle nulla se non un borbottio autoriferito, crudelmente marginale. “Lupi contro Tonino D’Alì, Quagliariello contro Luxuria… La qualità del ceto politico attorno al Cavaliere è sempre stata bassa, ma adesso la loro insignificanza si rivela anche nel commentare eventi insignificanti”, dice. “E i voti della destra non sanno più dove andare”. I voti, le percentuali, i numeri. “La proprietà dei numeri è la giustizia”, diceva Pitagora. La destra italiana è un mistero. E’ ammalata d’un male oscuro. Mentre Renzi procede nella foresta della politica con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta senza quasi avvertire i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti, la destra non produce un’idea, una novità, una leadership che non sia quella del vecchio Cavaliere: “Non produce nulla”, dice Feltri. “E’ un circolo Pickwick provincialmente italiano, i cui soci palleggiano tra loro invidie, rancori, timori, frottole, minacce, blandizie, come si conviene a una classe tragicamente sfinita che ha perso il proprio primato e fa scarso consumo di idee generali”. Strano mistero.

 

Berlusconi, straordinariamente adattabile a tutte le contingenze del suo tempo dinamico, nella tempesta si è aggrappato a Renzi, che ha prodotto da fatale battistrada qual è, e ora Matteo è l’unico tronco galleggiante, e il Cav. si è come appartato dentro il patto del Nazareno. Dietro la porta chiusa, il Cavaliere ha lasciato i balli e i salotti della morta destra, socialmente e politicamente in declino. “E’ un ceto politico fissato a un’idea di immobilità che si preserva nel fondo, al di là delle accelerazioni del tempo e degli occasionali, e modesti, trionfi politici: un ceto politico mediamente accomodato”, dice Orsina. Mentre il professor Ricolfi ha l’aria di non stupirsi affatto. “Per me il vuoto del centrodestra, sul piano culturale, comincia dal 2005, non è una cosa di adesso”, dice. E spiega: “Dal punto della forza politica, ora è passato un ciclone che si chiama Renzi e ha spazzolato tutto via. E quella pochezza, quel vuoto culturale, è diventato ben visibile. La destra italiana è Berlusconi, si è sempre risolta nel solo Berlusconi, un uomo che si è circondato di mediocri, di impiegati incapaci di costruire una prospettiva o di uccidere il padre”. Per la verità Alfano tentò. E ci fu un momento, breve, in cui lui ed Enrico Letta, assisi su un trionfante voto di fiducia in Senato, si davano il cinque e sembravano persino più forti dei partiti che li esprimevano.

 

[**Video_box_2**]Angelino più forte di Berlusconi. Addirittura. Angelino che, tuttavia, non enunciava una linea politica diversa, nuova, niente che non fosse il vago “siamo diversamente berlusconiani”, mentre Eugenio Scalfari, come altri, salutava finalmente la nascita di “una destra europea”, una destra che manteneva al governo ben cinque ministri. Obietta Ricolfi: “Il problema è che il ‘quid’ bisogna averlo per ammazzare il padre. E Berlusconi in questo aveva ragione: Alfano non ha il quid. Tutta la destra è senza quid. Se un partito si regge completamente su un individuo, sul capo, se il partito si esaurisce nella figura del leader, e se il capo non ha colonnelli che siano più bravi o bravi come lui, allora non ci sarà nessuno capace di prenderne il posto. Questo è lo stesso rischio che corre Renzi, che sceglie i collaboratori in base alla fedeltà, la competenza anche per lui è un accessorio. La storia di Alfano è un paradigma: uno dei tanti yes man di cui si è circondato Berlusconi, il Sovrano che non vuole nessuno capace di fargli ombra. Nella sinistra la situazione, storicamente, è completamente diversa. Ci sono sempre stati tanti colonnelli, tutti uguali, mediamente capaci di esercitare leadership: D’Alema, Veltroni, Finocchiaro…”. Dice allora Orsina: “La destra non produce classe dirigente perché non ha tradizione. Perché c’è stata Mani pulite. E Mani pulite ha spazzato via quel poco che c’era. Mentre la sinistra si è conservata. Renzi infatti è un prodotto dei quadri della sinistra. Un prodotto delle primarie. I migliori che si è preso Berlusconi, nel corso degli anni, non a caso, venivano dal Psi e dalla Dc. Pensate cosa sarebbe successo se Tangentopoli avesse spazzato via la classe dirigente della sinistra: le seconde file sarebbero state all’altezza? Forse no”.

 

Eppure i tentativi di costruire una destra alla europea, nel mondo di Berlusconi ci sono stati. Gianfranco Fini, per esempio. E alla rievocazione di Gianfranco Fini, il professor Ricolfi ride. Poi dice: “Fini è una persona completamente priva di idee. Destra moderna, sarkozista, gliel’avete detto voi giornalisti. Fini è stato costruito da Napolitano e dai giornali. Lui era puramente una cosa sola: ‘Partito della spesa’, come Casini e come Follini. Il conflitto tra Berlusconi e Fini fu sempre così, uno spartito monotono: Berlusconi provava timorosamente a fare delle cose sviluppiste, e Fini interveniva per garantire la spesa pubblica. Berlusconi ha sempre fatto timidi tentativi in direzione di una destra thatcheriana, mezze mosse che venivano sistematicamente stoppate dalla destra di Fini, e da quella di Casini. Una cosa vaga e conservatrice”. E insomma, dicono i professori, il male oscuro era già nel Dna, nei cromosomi della destra padronale, “una destra che quasi non esisteva prima del Cavaliere”, spiega Orsina, che ci ha pure scritto un libro per Marsilio: “Il berlusconismo nella storia d’Italia”. Feltri è d’accordo: “La destra in Italia non c’è mai stata, diciamoci la verità. Finito il conflitto mondiale era vista come un succedaneo del fascismo, puzzava. Pochi se ne fidavano. Guarda caso, per imporsi, Berlusconi dovette dichiararsi di centro malgrado si stesse associando con quelli lì, che venivano dall’Msi”. E Orsina spiega, da storico qual è, la natura e l’origine della destra postfascista: “Dal ’45 in poi la destra è stata frammentata, divisa in varie anime, e sostanzialmente irrilevante. Erano irrilevanti i missini, erano irrilevanti i liberali, erano irrilevanti i monarchici, che scompaiono alla fine del 1960. C’era la destra Dc, che aveva un peso. Ma faceva da affluente per il centrosinistra: pesava politicamente, ma non culturalmente, era il contrappeso che i governi del centrosinistra si portavano in pancia. Ecco, tutto questo mondo disomogeneo e marginale, viene improvvisamente aggregato da Berlusconi dopo Tangentopoli. Lui riesce a esprimere la pancia di destra della Dc, recupera la destra etnica e localista della Lega, sdogana i missini. E in realtà s’inventa la destra in Italia. La destra nasce con Berlusconi. Ma lui mette insieme dei pezzi fragili, per ragioni culturali, storiche, sociali. E nei fatti costruisce la destra nel vuoto assoluto: con scarsa classe dirigente e pochissima cultura. La cultura della cosiddetta rivoluzione liberale, del 1994, era una stupenda velleità coltivata da pochi galantuomini marginali: erano le pagine culturali e la prima pagina del Giornale, erano Ricossa, Martino, Urbani, Matteucci, Colletti, Pera, Melograni… Pochissimi. Quattro gatti. La destra italiana porta in se stessa il suo destino di morte. E poiché si tratta di un materiale così destrutturato, la sopravvivenza di questo mondo non è affatto certa. Se i conservatori entrano in crisi in Inghilterra, nessuno mette in dubbio la loro esistenza. Ma qui, in Italia, è evidentemente diverso”.

 

E quasi Orsina sta dunque dicendo che Renzi accompagna Berlusconi e la destra verso l’uscita, verso un finale di partita, o come dice Feltri, che “il vero lascito di Silvio Berlusconi al sistema politico italiano in realtà non è Alfano ma è Matteo Renzi”. Un’idea cui allude anche Ricolfi: “La politica che sta facendo Renzi è nominalmente una politica di sinistra moderna, ma in termini effettivi è una politica di destra. Che si mangia la destra”. E dunque il Castello costruito sull’immagine e sui lustrini, la gloria del Cavaliere che lo ha abitato, il suo denaro e il suo potere, il suo ludico pasticcio ventennale, la sua paradossale eredità, tutto questo resterà. Almeno nei libri di storia. Ma gli altri, quelli delle tende, che fine faranno?

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.