L'uomo cui non spiaceva essere re
Elenco dei difetti di Matteo Renzi: tutti, tranne l’ipocrisia. Difetto di tutti gli altri capi di sinistra, prima: non erano sinceri e fingevano di soffrire il potere. Ecco la vera spaccatura antropologica, che piace agli italiani.
Matteo Renzi ha tutti i vizi e tutti i difetti che un uomo politico possa avere. Tranne uno: l’ipocrisia. Questo non significa che dica sempre la verità e non racconti mai delle storie: l’essere ipocriti confina, ma non coincide con il dire bugie, che è un altro difetto. E gli altri difetti, come si diceva, Matteo Renzi li ha tutti. Mentre coloro che lo hanno preceduto alla guida del Pd e del centrosinistra, tanto quelli che oggi lo avversano quanto quelli che oggi lo appoggiano, hanno tutte le qualità e tutte le virtù. Tranne una: la sincerità.
La spaccatura, con la maggior parte di coloro che a sinistra hanno antipatia per Renzi, anche tra i semplici elettori, non è politica, ma antropologica. A farli infuriare, più che le sue scelte politiche, sono le sue scelte estetiche, la sua retorica, il suo stile. Senza dubbio, c’entra la rivoluzione estetica del berlusconismo, che Renzi ha pienamente assorbito: il suo essere un politico pop, un’icona prima che un leader (avendo costruito la propria leadership sulle solidissime fondamenta della propria immagine, e non viceversa).
Da questo punto di vista, nulla è più rivelatore dello zoppicante inglese che il presidente del Consiglio sfoggia in ogni occasione internazionale. Non perché i suoi predecessori parlassero tutti con perfetto accento, ma perché a nessuno di loro sarebbe mai venuto in mente di esibire le proprie mancanze e addirittura di scherzarci su, contribuendo consapevolmente ad alimentare il tormentone. Quanto poi le diffuse ironie sulla sua pronuncia gli assicurino un’ondata di simpatia, se non di voti, è un effetto collaterale probabilmente neanche calcolato, perché quel modo di fare è tanto connaturato in Renzi quanto lo è in Berlusconi. In breve, l’inglese di Renzi è la sua bandana.
Tutto questo spiega una parte delle antipatie che suscita a sinistra, specialmente in un certo mondo: quello che la sera, piuttosto che guardare la tv, preferisce un buon libro, e disprezza chi mostra di non fare altrettanto (il problema, ovviamente, è il mostrarlo: ché passare effettivamente la sera della finale dei Mondiali a leggere la “Critica della ragion pura”, per fortuna, è un altro discorso). Tutto questo, dicevamo, ha evidentemente un peso, ma forse non è l’aspetto decisivo. O almeno non è l’aspetto decisivo di quel senso di alterità antropologica che sembra dividere l’attuale leader del Pd dai suoi predecessori, al punto da farne la loro stessa nemesi.
Il tipo psicologico-morale del leader di centrosinistra nella Seconda Repubblica, infatti, ha tratti precisi. Innanzi tutto, è l’uomo che non voleva farsi re, che accetta il ruolo di capo con lo spirito di chi è chiamato dal partito e dalla coalizione a un grande sacrificio, e lo fa soltanto per la causa, per il bene del paese, per un mondo migliore. Dunque, è in credito: con il partito, con la coalizione, con il paese e con il mondo. Quando, nella piratesca intervista in cui lanciava la parola d’ordine della rottamazione, Renzi se la prendeva con “questi leader tristi” del centrosinistra, toccava dunque un punto decisivo. Un aspetto in cui cultura post democristiana e post comunista si incontrano alla perfezione. Anche in quel terribile slogan dell’Ulivo prodiano – “la serietà al governo” – dietro il primo significato di “competenza”, si intravedeva chiaramente un senso di grave e severa consapevolezza dei problemi del paese, una preoccupazione altera, una fronte perennemente corrugata. Altro che “il mestiere più bello del mondo” o la “smisurata ambizione” rivendicati da Renzi: una via crucis accettata esclusivamente per il bene degli altri. Ma quasi mai gratis.
La psicologia del leader sacrificale è infatti molto più diffusa di quanto si creda (che guidi un partito, una corrente o un giornale) e ha questo di insidioso: che, vivendo la propria posizione come un sacrificio quotidiano, considera piuttosto naturale, all’occorrenza, sacrificare gli altri. Di conseguenza, per alleati di coalizione, compagni di partito o semplici vicini di scrivania, vale più che mai il motto: dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io. Perché, sentendosi in credito con il mondo, e in particolare con coloro che lo hanno aiutato ad arrivare fin lì, non c’è compromesso che un tale leader non si senta moralmente autorizzato a sottoscrivere, specialmente se a spese loro. Non a caso, caratteristica di un simile tipo psicologico-morale è anche l’ossessione per complotti, tradimenti e congiure ai suoi danni. Un’ossessione che è figlia della sua cattiva coscienza.
[**Video_box_2**]Questa chiave di lettura potrà sembrare riduttiva o eccessivamente psicologista, ma offre almeno una spiegazione non faziosa all’infinita e stucchevolissima storia delle guerre civili nel centrosinistra, dal complotto del ’98 allo scherzetto del 2007, dai 275 membri del Consiglio nazionale del Pds che nel 1991 non votarono Achille Occhetto segretario ai 101 parlamentari che nel 2013 non votarono Romano Prodi presidente della Repubblica. Non a caso libri, interviste e libri-intervista dei leader di centrosinistra di questi vent’anni forniscono tutti la stessa interpretazione della propria vicenda: una grande speranza di cambiamento distrutta dalle divisioni interne. Non fosse stato per il tradimento di chi avrebbe dovuto sostenerli, avrebbero fatto una rivoluzione ciascuno.
Evidentemente è più facile scaricare l’uno sull’altro la colpa di tutto quello che poteva essere e non è stato, che riconoscersi, tutti insieme, in un fallimento collettivo. Ma in politica, come nella vita, non sono le divisioni che indeboliscono, è la debolezza che divide. E la debolezza dei leader di centrosinistra nasce anzitutto da quel sentirsi perennemente in credito. Un sentimento che nel 1996 spingeva i prodiani a teorizzare lo scioglimento di quei partiti che pure avevano permesso a Prodi di arrivare a Palazzo Chigi, e che nel 1998 spingeva i dalemiani a praticare lo svuotamento di quell’Ulivo che pure aveva permesso loro di vincere le elezioni. E così via, in una guerra condotta quasi sempre sotto mentite spoglie, alimentando vent’anni di retroscena, campagne e manovre ostili: una sorta di auto-grillismo interiore che ha seminato a lungo il terreno da cui sarebbe germogliato il grillismo propriamente detto (a partire, non a caso, dalle regioni rosse).
Negli ultimi due anni, insomma, Renzi ha fatto ai suoi predecessori tutto quello che ciascuno di loro aveva tentato di fare agli altri nel corso degli ultimi due decenni. Probabilmente è anche per questo che non mostra di sentirsi in credito con alcuno (e ci mancherebbe pure). Di sicuro, nessuno è più estraneo di lui alla posa del leader dolente, perennemente oppresso dal peso della responsabilità che grava sulle sue spalle. Nessuno meno di lui esprime quell’atteggiamento da comandante suo malgrado, che anche quando si candida a capo del governo, dello stato e del mondo, sembra sempre dire: “Non lo fo per piacer mio, ma per far piacere a Dio”. Considerato il cinismo degli italiani e la loro atavica diffidenza nei confronti della politica, è verosimile che questa differenza non sia l’ultima ragione della sua popolarità.
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