Passa lo straniero
Tacopina e Saputo acquistano il Bologna calcio. Dopo Roma e Inter, capitali esteri anche in serie B. Ma per vincere i dollari non bastano.
Nella città italiana più vicina e più distante dall’America, quella del Pci e delle lasagne, della tradizione e della fierezza emiliane, quella dove però il rock and roll si stabilì per primo, con i cantautori infatuati di sogno americano, nella città dei jeans e camicia uso comune prima che in altri posti, dei ciuffi alla Elvis, dei drive-in come nemmeno a Dallas, posta come tutte in regione tra la via Emilia e il west, gli americani sono arrivati davvero. O meglio sono ritornati, e anche questa volta per liberare gli abitanti da qualcosa. Bologna si sveglia e sulle due torri sventolano bandiere a stelle e strisce, la gente si guarda, se ne compiace, finalmente può voltare pagina, un incubo scomparso, un nuovo sogno da cullare, sempre americano, sempre rossoblù, pallonaro. Gli americani sono arrivati coi loro nomi yankee, da libri beat, e poco importa se i cognomi sono nostrani, se non sono Smith o Moriarty, ma rivelano chiare origini italiane. Gli americani sono arrivati, emigranti di ritorno, gli assegni versati, i contanti pronti per essere spesi per riportare quel vessillo un po’ sbiadito, quel veliero un tempo nobile, ma ormai bagnarola, che è il Bologna calcio di nuovo nelle piazze importanti del pallone, per ritrasformare Bologna in una piazza importante del calcio italiano.
Il Bologna calcio volta pagina, archivia la tanto criticata gestione di Albano Guaraldi, presidente detestato dai tifosi, colpevole di aver venduto gente come Gilardino e Diamanti e aver fatto ricadere la società nell’inferno della serie B, e ritorna a guardare il futuro con speranza e la convinzione di poter rinverdire i fasti del passato. Missione difficile, ardua scalata, ma la fiducia è tanta. Il presente, ma soprattutto il futuro ha un nome, Joseph, un soprannome, Joe, e un cognome, Tacopina. Professione avvocato a New York, stimato e brillante, “uomo da talk show e processi mediatici, ricco e col fiuto per gli affari”, o così almeno lo descriveva nel 2013 il New York Post, affabulatore e avvincente, ispiratore, suo malgrado, addirittura di una serie televisiva, The Guardian. Presidente, uomo immagine, uno capace di convincere con parole e soprattutto con i dollari l’ex patron rossoblù a farsi da parte e lasciare il timone della nave per evitare il definitivo naufragio. A contendersi la guida della società felsinea erano infatti gli americani e l’ex socio di maggioranza Massimo Zanetti, presidente di Segafredo, che offriva 12/13 milioni dilazionati in tre rate prima di Natale per ripianare buchi di bilancio e provare a guardare al futuro. Ma quale futuro? Zanetti non ne parlava. Tacopina sì. Sei milioni subito, altri 6,5 a Natale, poi via al progetto di ricapitalizzazione di circa 28 milioni di euro, con tanto di investimenti (a partire da luglio) su stadio, strutture societarie e mercato di riparazione e soprattutto la liquidazione immediata delle quote azionarie dei soci. Obiettivo: “Riportare il Bologna in alto, è tra i primi cinque club in Italia”, ha detto il neo presidente. Cammino lungo, molto lungo, da iniziare subito con una promozione, per cercare di non deludere una piazza ancora inferocita per la retrocessione dello scorso anno.
Joe Tacopina ha linguaggio forbito, idee chiare, “una passione smisurata per il calcio”, scriveva il New York Times nel 2011. Origini romane, un amore adolescenziale per la Roma, squadra nella quale è rimasto sino agli inizi di settembre nel consiglio di amministrazione, ricoprendo durante la presidenza di Thomas Richard DiBenedetto, il ruolo di vicepresidente. Con l’avvento di James Pallotta come presidente e il suo repulisti ai vertici della società capitolina, l’avvocato newyorchese venne sollevato dal ruolo dirigenziale, perdendo sempre più importanza all’interno dell’organigramma societario. Oltreoceano dicono che è anche per questo che l’avvocato sia ridisceso in campo da solo, abbia preso l’Autosole direzione Bologna e lì parcheggiato una delle sue Maserati. Bologna, sede non nuova per l’ambizioso Joe. Ritorno di fiamma, secondo tempo di un film finito male, anzi nemmeno iniziato. Anno 2008, luglio. Il presidente del Bologna, che era allora Alfredo Cazzola, imprenditore locale con un passato alla guida della Virtus Bologna, una delle due squadre di basket della città, cerca soci per mandare avanti la società. Dall’America spunta Tacopina, che di tasca sua scuce un assegno di 1,9 milioni di euro per la caparra, convinto di raggranellare gli altri 18 per rilevare il club tra i ricchi amici calciofili che con Soros avevano cercato la scalata alla Roma di Rosella Sensi. La ricerca inizia bene, Joe trova subito alcuni imprenditori disposti a investire una decina di milioni nel fondo Tag Partners, con il quale l’italoamericano rileverebbe le quote societarie rossoblù, ma qui si ferma. Soros vuole la Roma e solo la Roma, e come lui anche gli altri. Tacopina prova a prendere tempo, ricerca altri partner commerciali, ma deve desistere. L’offerta decade e l’avvocato perde pure la caparra, la società viene rilevata dai Menarini e il Bologna rimane emiliano. Questo almeno sino a mercoledì.
“Il suo arrivo è una cosa buona per tutta Bologna”, sottolinea Cristian, uno degli esponenti principali della Beata Gioventù, uno dei gruppi ultrà della Curva Andrea Costa. “Guaraldi in questi anni aveva fatto entrare la squadra nel caos, aveva ceduto tutti i giocatori migliori, trascinandola in serie B. Con Tacopina e Saputo la squadra può ritornare dove merita di stare, ovvero in serie A”. L’accoglienza in città dell’avvocato è stata calorosa, la tifoseria ritorna a guardare il futuro con più serenità e a credere nelle possibilità di redenzione. “Noi abbiamo sempre chiesto serietà e una dirigenza che abbia come priorità il bene della squadra – continua – e questo, almeno a una prima impressione, la nuova proprietà sembra poterla garantire. Abbiamo parlato con Marco Di Vaio che ci ha rassicurati sulla serietà di Saputo. Ora aspettiamo i fatti, ma siamo fiduciosi”. Sensazioni epidermiche, ma certificate da un approccio diverso: “C’è già stato un cambio di mentalità rispetto a Guaraldi. Il nuovo presidente ha deciso di transennare lo stemma del Bologna dietro la curva Bulgarelli dicendo che nessuno dovrà più calpestare l’effigie. E’ una sciocchezza certo, ma sono quei piccoli dettagli che la vecchia dirigenza non aveva mai preso in considerazione. Ora lasciamoli lavorare”.
Joe Tacopina eletto presidente, volto da copertina, immagine americana di una società che vuole ritornare ai vertici del calcio italiano che “al terzo anno dovremo ricavare i primi utili da reinvestire sul mercato, al quinto prevediamo di essere competitivi per lo scudetto, l’obiettivo è crescere per rimanere in alto”, almeno secondo gli slogan dell’avvocato. Immagine, certo, forma, senz’altro. Ma la sostanza è altro e non è americana, ma canadese. La sostanza è Joey Saputo, italo-canadese nato a Montréal, presidente dei Montréal Impact, la squadra della Mls nella quale gioca l’ex capitano del Bologna Marco Di Vaio, e alla testa di un impero economico stimato in circa 3,8 miliardi di euro (5,4 miliardi di dollari canadesi). Un business iniziato con i formaggi, quando il padre Emanuele “Lino” Saputo, emigrò da Montelepre, provincia di Palermo, per cercare fortuna in Canada e lì iniziò a lavorare in una azienda casearia, che, dato il successo delle sue creazioni, iniziò a dirigere, sino a riuscire a rilevarla e trasformarla poi nella Saputo Incorporated. Ora il gruppo, oltre che di formaggi, si occupa di transazioni immobiliari, finanziarie e ha grossa partecipazione nella TransForce, un colosso dei trasporti e della logistica che movimenta quasi settemila camion e più di dodicimila container. “Competenza calcistica e senso per gli affari con alla base un solido gruppo commerciale, che potrebbero rendere l’imprenditore italo-americano uno dei principali esportatori del Canada calcistico in Europa”, scrissero sul Time Colonist, uno dei principali quotidiani canadesi, quando si fece insistente la voce di un interessamento di Saputo per il Bologna.
Non solo Saputo però: nella cordata messa in piedi da Joe Tacopina c’è di più. Il primo è Anthony Rizza, ex calciatore dilettante, divenuto uomo d’affari e broker, arrivato a gestire per la Columbus Circle (società di fondi di investimento) quasi 17 miliardi di dollari e proprietario inoltre di diversi ristoranti e strutture alberghiere in tutti gli Stati Uniti. Il secondo è Andrew Nestor, presidente dei Tampa Bay Rowdies, con diversi interessi nel ramo immobiliare in Florida e nel commercio di zucchero e tessuti con il centro America.
[**Video_box_2**]Dollari veri, insomma, pronti per essere investiti, dietro la faccia da duro dell’avvocato newyorchese. Perché Joe Tacopina è sempre stato l’avamposto, il tramite, il cervello legale e commerciale delle operazioni, ma mai il braccio armato pronto a investire effettivamente. Come nel 2007, quando Soros voleva la Roma, i Sensi erano già in difficoltà economiche evidenti, Tacopina presenta un’offerta di oltre 200 milioni. Le parti trattano, il buon fine sembra questione di settimane, le garanzie ci sono e Joe pregusta già una carica importante promessa dall’amico imprenditore. Ma proprio sul più bello entra in gioco un sedicente emiro, che offre il doppio, prima di sparire al momento della firma e lasciare la società tra problemi economici sempre più gravi e una sensazione di abbandono e frustrazione per quello che poteva essere e non è stato. Come nel bluff dell’estate 2008 a Bologna, quando i soldi ancora non c’erano, ma potevano essere trovati, oppure tre anni dopo, quando altri americani sono sbarcati in Italia, nella capitale questa volta. Il mandante non è Soros, ma Thomas DiBenedetto e James Pallotta, non la famiglia Sensi, ma Unicredit da convincere. Tacopina illustra risorse finanziarie, piano di investimento e prospettive future. Le credenziali ci sono, ma la banca vuole essere sicura di non rimetterci nemmeno un euro dei soldi investiti in società. Si tratta, c’è l’accordo, l’affare va a buon fine. La banca vende la maggioranza delle quote, ma conserva una quota minoritaria e un proprio delegato all’interno del cda per controllare gli americani, L’abbandono è progressivo, definitivo quando la solidità degli investitori è ormai evidente.
Roma prima grande società di proprietà straniera. Prima dei giallorossi solo il Vicenza. Anno 1997. Dall’Inghilterra spunta Stephen Julius, uomo misterioso, poco appariscente, ma con i soldi buoni per convincere l’allora presidente Pieraldo Dalle Carbonare a cedergli la società, che in quegli anni durante la gestione Guidolin aveva vinto una Coppa Italia e raggiunto la semifinale di Coppa delle Coppe. La finanziaria Enic (con interessi nel campo petrolifero), rileva il marchio e ripara i bilanci, investe circa 5 miliardi (di lire) nel mercato, ma i risultati sono pessimi e la squadra retrocede in serie B. A Vicenza non riesce a cambiare niente e cinque anni dopo – e tre sole presenze in tribuna – Julius saluta tutti e svende la società, che aveva nel frattempo accumulato 5 milioni di debiti, alla Finalfa, sparendo nelle nebbie britanniche dalle quali era arrivato.
La Roma all’americana invece è tornata a essere protagonista in campionato e Champions League, nella passata stagione ha conteso lo scudetto alla Juventus e quest’anno si sta ripetendo. Dopo le delusioni dei primi due anni americani, quello con Luis Enrique in panchina e quello del ritorno di Zeman, la svolta firmata Pallotta e Garcia. Via Unicredit, ridimensionati i soci di minoranza, l’imprenditore di Boston, quello che tra tutti gli yankee giallorossi aveva davvero soldi da investire, ha proseguito a restaurare il carrozzone giallorosso, ma non si è fatto però prendere dalla frenesia dell’uomo solo al comando: niente spese pazze, ma prosecuzione della politica di spesa oculata portata avanti nella seconda stagione (dopo il saldo estremamente negativo – 50 milioni – del primo campionato). La ricetta è semplice: mercato nelle mani esperte di Walter Sabatini e cessioni intelligenti per risanare il bilancio. Un comportamento utile a mantenere i conti a posto, a non incorrere in sanzioni Fifa (fair play finanziario) e a non intaccare il patrimonio personale. Questo almeno sino a quando non verrà completato lo stadio di proprietà, questione determinante per il prosieguo degli investimenti in Italia dell’uomo d’affari americano.
Il punto attorno a cui gira tutta la questione investitori stranieri nella serie A è questo: affari. Nient’altro. Nessun tycoon russo o arabo pronto a coprire d’oro un club giusto per il gusto di possedere un giocattolo costoso, un lasciapassare per altri business, ma uomini che fanno impresa, che i soldi ce li mettono, ma non troppi, non sempre, non così tanto per fare, solo se c’è un’alta probabilità di guadagno, o quanto meno di non perdere troppo.
Caso esemplare è il comportamento del presidente dell’Inter Erick Thohir. L’imprenditore indonesiano è sbarcato a Milano il 15 novembre 2013, quando ha rilevato la società da Massimo Moratti, e sin da subito ha acceso le speranze dei tifosi nerazzurri, speranzosi di trovarsi innanzi a un magnate pronto a investire almeno in parte il patrimonio familiare di 42 miliardi di dollari, secondo le stime di Forbes. Il proprietario del Mahaka Group (fatturato da 16,5 milioni di dollari) però si è subito dimostrato restio a comportarsi da arabo o da russo. Il messaggio durante la conferenza stampa dopo l’investitura a presidente era chiaro: “Costruiremo passo dopo passo la squadra, il nostro obiettivo è rendere l’Inter un club in salute dal punto di vista economico e finanziario per competere a livello internazionale”. Attenzione ai conti e nessuna follia almeno sino a quando non ci saranno le possibilità per farlo, ovvero sino a quando non si dipanerà il nodo stadio di proprietà, anche in questo caso determinante per il futuro societario. In un anno di presidenza, e due sessioni di mercato, infatti la proprietà si è concentrata soprattutto a limare il monte ingaggi, ha puntato su prestiti e parametri zero, investendo appena 15 milioni di euro, 13 dei quali per il solo Hernanes, senza risolvere i limiti della formazione di Mazzarri. Thohir si è mosso soprattutto sul marketing, ha aperto canali importanti per i nerazzurri in oriente e negli Stati Uniti e ha cercato di arrivare a una mediazione con Milan e comune per la questione San Siro (anche se al momento il suo sforzo non ha portato a risultati). Gli investimenti potrebbero arrivare, ma non subito.
Da Milano a Venezia stessa attesa, anche se le ambizioni sono diverse e più che a primeggiare la speranza è quella di ritornare a presenziare nel calcio che conta. Il presidente dei veneti è russo, si chiama Jurij Korablin, è un imprenditore del settore immobiliare, con un patrimonio di circa un miliardo di dollari, poco meno della metà del suo socio di minoranza Aleks Samokhin, bielorusso, attivo nel settore alberghiero e nel commercio di cereali. Gli arancioneroverdi al momento sono in Lega Pro Prima divisione, hanno gioito per due promozioni durante l’èra russa, versano in condizioni finanziarie tranquille e puntano in due stagioni a raggiungere la serie B. “Con calma ritorneremo in alto”, ha detto recentemente Korablin, “vediamo quanta calma ci vorrà”, aggiunge sibillino. Il problema è lo stesso dei nerazzurri. Lo stadio. A Venezia il progetto c’è già, il terreno anche, i soldi pure. Ma tutto è fermo, nonostante i passi in avanti fatti durante lo scorso inverno. Poi è arrivato lo scandalo Mose, le dimissioni da sindaco di Giorgio Orsoni, e tutto si è interrotto. Il Venezia gioca ancora al cadente Sant’Elena, Pier Luigi Penzo. Korablin aspetta, paziente, e intanto ha sfruttato questi tre anni per ampliare i suoi affari anche in laguna.
Interessi al primo posto, per il calcio si vedrà. Sono affari, solo business.
Il Foglio sportivo - in corpore sano