Wendi Deng e Rupert Murdoch: nel 1999 il matrimonio. La nuova moglie mette subito in chiaro l’intenzione di far valere i propri diritti. Due anni fa le prime voci sulla sua storia con Tony Blair

Affari di donne

Stefano Cingolani

Chissà se è tutta colpa del soffitto di vetro. Pensate che cosa sarebbe successo se le donne avessero potuto attraversarlo ed entrare nella stanza dei bottoni. Perché il capitalismo non è maschilista, anzi di per sé tende a estinguere anche il patriarcato così come tutte le forme sociali precedenti.

“Io vedo che in Francia, in Inghilterra, in Italia e per tutto il mondo le donne ne sanno una più del diavolo” (Carlo Goldoni, “La vedova scaltra”, atto III scena III).

 

Chissà se è tutta colpa del soffitto di vetro. Pensate che cosa sarebbe successo se le donne avessero potuto attraversarlo ed entrare nella stanza dei bottoni. Perché il capitalismo non è maschilista, anzi di per sé tende a estinguere anche il patriarcato così come tutte le forme sociali precedenti, e non lo diceva solo Karl Marx. Sono i maschi a essersene appropriati imponendo la regola del vincitore; le donne hanno accettato, hanno subìto o si sono difese con le unghie e con i denti. à la guerre comme à la guerre.

 

Alla Fiat, Suni era la migliore – pochi avevano dubbi – e in più lo desiderava disperatamente, con un ardore volitivo che rappresentava il suo lato maschile. Ma era una donna e restò fuori, l’eredità del nonno toccò a quel dandy di suo fratello Gianni nel quale prevalevano invece inclinazioni femminili: la vanità, l’apparenza, il trucco, il desiderio di amare ed essere amati. Con l’ex cavallerizzo piemontese, però, non c’era nulla da fare, aveva le idee chiare, vecchie, ma nitide, per questo impose la legge salica.

 

Quanti imperi economici sono caduti per colpa delle donne, ma quanti hanno ripreso vita grazie a loro. Perché non ci sono mica soltanto Nicoletta Zampillo e Lorenzo Del Vecchio; basta prendere l’elenco delle ricche ereditiere per scoprire mogli, figlie, amanti investite dal sacro fuoco degli affari. Locandiere come Mirandolina o vedove scaltre come Rosaura, guidano il loro destino, manipolano il tavolo verde e segnano il capitalismo così come l’abbiamo conosciuto.

 

Nessuno avrebbe scommesso un vecchio franco quando Liliane prese in mano L’Oréal creata da suo padre Eugène Schueller, uno degli esponenti principali del fascismo francese, fondatore negli anni 30 del gruppo La Cagoule, collaborazionista ante litteram. Di quel manipolo faceva parte anche André Bettencourt il quale, dopo la liberazione trova rifugio all’Oréal come altri membri dell’organizzazione ricercati dagli anglo-americani. A bottega sboccia l’amore, Liliane e André si sposano, nasce la figlia Françoise nel 1953 e quattro anni dopo Schueller muore. Il marito si butta in politica prima con Pierre Mendès France insieme all’amico di gioventù François Mitterrand, poi con il generale De Gaulle, Liliane guida l’azienda in una crescita vertiginosa, la fa quotare in Borsa, porta dentro Nestlé che diventa secondo azionista. André chiude negli anni 70 la sua parabola parlamentare, ma resta solo un principe consorte che assiste impotente alla circonvenzione della moglie.

 

Il fotografo François-Marie Banier, fondatore dell’Egoiste, diventa l’amico inseparabile che a poco a poco prende in mano la maison. Le cose vanno avanti per vent’anni fino al punto che la figlia Françoise denuncia Banier che era riuscito a tagliar fuori la discendenza legittima. Ormai fuori di zucca, madame Bettencourt cade vittima anche di Bernie Madoff. Intanto salta fuori lo scandalo dei quattrini versati a Nicolas Sarkozy, buste piene di contanti nella villa di Neuilly. Debolezze, senili, politiche, femminili, in contrasto con la forza dimostrata nel gestire il più grande colosso dei cosmetici. Contraddizioni, come quella di Susanne Quandt. Nata da Herbert, patron della Bmw, e dalla sua segretaria Johanna Bruhn sposata in terze nozze, era stata educata per salire al vertice insieme al fratello Stefan. I Quandt hanno un forte legame con il nazismo. La moglie del fondatore Günther, sostenitore di Hitler, lo aveva lasciato per Joseph Goebbels (è la stessa Magda che avvelenò i figli nel bunker di Berlino) la cui corte frequentava regolarmente. Un marchio che i discendenti hanno sempre cercato di nascondere così come i Porsche-Piëch (Volkswagen), i Thyssen e tanti altri magnati tedeschi.

 

Alla morte di Herbert, nel 1982, l’intera conglomerata di duecento aziende, dall’auto alla chimica, finisce nelle mani della ex segretaria poco più che cinquantenne, trasformata in moglie devota. Poco conosciuta, appare in pubblico soltanto in occasione di ufficialissime cerimonie della fondazione di famiglia, ma i manager del gruppo hanno imparato quanto sa essere attenta e determinata nelle scelte. Johanna siede nel consiglio di sorveglianza (quello che raggruppa gli azionisti) della Bmw con il titolo di vicepresidente fino al 1997, quando lascia gli incarichi operativi ai due figli Stefan e Susanne tutta casa e bottega.

 

Nata con il cucchiaio d’argento in bocca, i genitori le insegnano subito a non esporre mai il proprio cognome. Fino al punto di sposare un impiegato del gruppo, Jan Klatten, al quale cela l’identità fino alla soglia dell’altare. Trascorre la maggior parte della giornata nell’ufficio della città Bmw alle porte di Monaco di Baviera, capelli biondi tagliati corti e tailleur pastello (pur senza arrivare ai pastelli della Merkel). Da piccola le era vietato incontrare i suoi coetani per motivi di sicurezza. Ma quando aveva 16 anni tentarono comunque di rapirla.

 

Fino a 28 anni va in giro per il mondo a completare la sua educazione poi entra in azienda sotto falso nome, Susanne Kant. E così si presenta al primo appuntamento con Jan. Finché, arrivata a 46 anni, sbrocca. Incontra un gigolò svizzero, Helg Sgarbi che sa come amarla e come ascoltarla, fin dalla prima notte in quella stanza di un banale Holiday Inn. Ma un complice italiano, Ernano Barretta, riprende i rendez-vous e prepara il ricatto: 40 milioni di euro in cambio del silenzio. Susanne prima tratta sul prezzo finché Sgarbi scende a 14, poi ha uno scatto d’orgoglio, chiama i servizi segreti e fa trovare la polizia sul luogo del pagamento. Il marito, informato di tutto, gestisce l’affare in famiglia e in azienda, riunendo un vertice con i responsabili della comunicazione. Le autorità promettono silenzio e riservatezza, ma tutto filtra e scoppia lo scandalo. Sono passati cinque anni, Susanne è tornata nei ranghi e continua a essere la principale donatrice per la Cdu della Merkel. La sua faiblesse ha coperto d’ombre il suo bel volto nordico, ma non ha mai messo in pericolo “la roba”. Siamo in Germania, non negli Stati Uniti.

 

Donald Trump lo speculatore edilizio più potente e flamboyant della East Coast, invece, è finito sull’orlo della bancarotta per colpa di una donna. Si chiama Ivana Marie Zelnícˇková, nata nella Cecoslovacchia comunista dalla quale era uscita grazie allo sport e a un matrimonio di convenienza per ottenere la green card. Campionessa di sci e di malia, conquista Donald Trump e lo sposa nel 1977. Sposarlo è dir poco: lo incanta, tanto che lui la piazza a capo del casinò di Atlantic City, il Trump Taj Mahal da dove viene la maggior parte del denaro contante. Diventata cittadina americana nel 1988, prende il controllo del restauro del mitico Hotel Plaza di Manhattan. E’ al culmine della scala sociale quando si sparge la voce che Donald se la fa con la ex reginetta della Georgia, tale Marla Maples. Le due donne si incontrano sulla neve del Colorado e ne esce una scenata da “Cavalleria rusticana”. La vendetta non si fa attendere, Ivana si lancia in una guerra giudiziaria che finisce con un divorzio miliardario e getta Donald sul lastrico. Nel frattempo (siamo nei primi anni 90) la recessione ha fatto crollare il valore degli immobili e svuotato le torri che, sull’onda di quella bellissima e famosissima sulla Quinta strada, sorgono come funghi nella Grande Mela. Ivana tira avanti alla grande, è la reginetta del jet set, si circonda di pop star e se la fa con uomini più giovani. Donald è tornato il principe degli immobiliaristi e ha perdonato. Tanto che quando la ex moglie nel 2008 sposa l’attore Rossano Rubicondi (59 anni lei, 38 lui) è Trump a ospitare le nozze in una delle sue proprietà in Florida.

 

In America si combatte, si cade, si risorge, si chiude una pagina e se ne apre una nuova. Non è concepibile la sopraffina arte delle ombre cinesi che Rupert Murdoch ha imparato a conoscere a sue spese. Quando nel 1999 la giovane Wendi Deng si fa impalmare come terza signora Murdoch (suo padrone a Fox e a Star Tv dove lavora), molti dubitano che si sia innamorata di lui e non del suo potere. Tra i più sospettosi ci sono i figli di secondo letto Elisabeth, Lachlan e James che ricoprono posizioni rilevanti nella News Corporation. Del resto, la nuova moglie ha chiarito subito l’intenzione di far valere i propri diritti, mettendo a soqquadro i già difficili equilibri familiari e proprietari. Ma l’amore che la donna e l’anziano tycoon mostrano in pubblico e in privato, a poco a poco lega le male lingue. E poi ci sono quei tesorini di bambine, Grace e Chloe nate nel 2001 e nel 2003. Già pochi anni dopo corrono voci che l’inquieta Wendi cerchi sollazzo altrove. Rupert, uomo di mondo, chiude un occhio finché non gli arriva all’orecchio quel nome: Tony. All’inizio stenta a crederci: Tony chi? Lui? L’ex primo ministro che Rupert ha sostenuto e difeso a spada tratta sui giornali e in tv? I servizi di informazione interni non lasciano dubbi, si tratta proprio di Blair ricevuto da amico in casa propria. E non è accaduto una sola volta: ci sono gli incontri all’hotel Carlyle di New York, quelli sullo yacht Rosehearty, nell’appartamento londinese di St. James. Come qualsiasi amante, arriva sempre mentre Rupert è impegnato in qualche riunione in giro per il mondo. E la cosa diventa una barzelletta globale. Sabato 27 aprile 2013, racconta Vanity Fair, l’ultimo sfregio: nel ranch di Murdoch, consumato nella stanza da letto matrimoniale. A quel punto, come non tirare le estreme conseguenze? Da Tony solo silenzio. Da Wendi un fiume di bugie. Era convinta di muovere il vecchio burattino come nel teatro delle ombre. Troppa arroganza e poco cervello.

 

Esattamente il contrario di Georgina Rinehart, la donna più ricca d’Australia, che ha tenuto lontano gli affari e la vita privata, lottando come una leonessa per prendere il controllo del colosso minerario lasciato dal padre Langley Hancock in semi bancarotta nel 1992. La sua prima nemica è stata la matrigna Rose Porteous, che accampava il diritto ereditario per controllare il gruppo. Gina, come la chiamano, ha impiegato 14 anni e speso una fortuna, ma l’ha spuntata. Non solo: con mano ferma ha risanato la società, ha stretto accordi internazionali, ha sfruttato al meglio l’avvento del secolo asiatico vendendo carbone e ferro alle nuove industrie cinesi e indiane affamate di materia prima, s’è battuta contro le campagne dei sindacati e della sinistra che l’hanno scelta come bestia nera (una sorta di Thatcher dell’Oceania) e contro il colosso Rio Tinto, il terzo gruppo minerario al mondo che fa capo ai Rothschild. Con una fortuna stimata in 18 miliardi di dollari, vive una esistenza parca e solitaria nella villa sul fiume Swan, si dedica alle attività filantropiche e non ha alcuna intenzione di mollare né in politica né nei media dove controlla il gruppo editoriale Fairfax. Ha quattro figli da due diversi mariti e, anche se Gina ha solo 60 anni, già si sentono i brontolii della successione.

 

[**Video_box_2**]Le miniere hanno fatto la fortuna anche della “vedova d’oro” come la chiamano in Cile: Iris Fontbona già seconda sposa di Antonio Andrónico Luksic Abaroa e guida indiscussa di una conglomerata che si estende dal Lussemburgo al cono sud dell’America. Coltiva il basso profilo, così come i suoi figli Jean Paul e Gabrielle; trascorre parte dell’anno a Londra nell’appartamento in Belgravia, ma non molla certo le redini. Il padre di Luksic era immigrato in Cile dalla Croazia. Aveva fatto soldi abbastanza per mandare alla Sorbona il figlio che, tornato anzitempo in patria, si laurea in Legge poi coltiva una passione per la geologia e la trasforma in business, fino a diventare uno degli uomini più ricchi del suo paese. Con l’arrivo al potere della sinistra guidata da Salvador Allende, a differenza dagli altri magnati, Luksic accetta la nazionalizzazione. Dopo il golpe, il generale Pinochet riprivatizza le imprese, Luksic si presenta pieno di quattrini contanti, ma il dittatore rifiuta di vendergli le aziende di stato e lo tiene in una sorta di limbo finché nei primi anni 80 il Cile non arriva sull’orlo della bancarotta. A quel punto il denaro perde qualsiasi odore sovversivo e Don Andrónico compra il Banco di Santiago, la più grande birreria e si riprende le miniere. Quando muore di cancro nel 2005 a 79 anni, lascia alla vedova scaltra la quarta fortuna dell’America latina.

 

Nicoletta Zampillo, dunque, non è affatto sola, anzi. E può contare anche sull’autorevole parere di una storica femminista come Nancy Fraser, convinta che il femminismo sia diventato l’ancella del neocapitalismo. “Quasi fosse un crudele scherzo del destino – ha scritto sul Guardian – il movimento per la liberazione delle donne sembra essersi avviluppato in una relazione pericolosa con gli sforzi neoliberisti nel costruire la società del libero mercato. Questo potrebbe spiegare perché idee femministe, che un tempo facevano parte di una visione del mondo radicale, oggi vengono utilizzate a fini individualistici”. Il femminismo di seconda generazione ha consumato fino in fondo questa ambiguità, si è fissato sul genere e sulla critica identitaria finendo per aderire ai modelli che la prima generazione rifiutava. Il problema è diventato non più cambiare le regole, ma usarle; non respingere il mondo costruito dagli uomini, ma conquistarlo; non rifiutare il capitale, ma appropriarsene.

 

Pur senza leggere la Fraser, la signora Zampillo ha concepito da tempo la propria riappropriazione. Dieci anni fa aveva lasciato Leonardo Del Vecchio perché si era messo con la segretaria Sabina Grossi. Il divorzio era stato doloroso per lei e costoso per il patron di Luxottica. Ma ecco che a poco a poco i nuovi legami si affievoliscono e riemergono i vecchi. L’anziano Leonardo e l’avvenente Nicoletta si frequentano di nuovo e il fuoco si riaccende. Tuttavia la storia è maestra di vita e lei questa volta non vuole brutti scherzi: dunque, seconde nozze, una chiara linea di successione e un futuro per Leonardo Maria, 20 anni, ai vertici dell’azienda.

 

Salta fuori però il terzo incomodo, Francesco Milleri amico di Nicoletta e Leonardo, nonché compagno di Alessandra Senici che cura i rapporti con i grandi investitori, ruolo un tempo ricoperto da Sabina Grossi. Lo scontro al vertice che ha portato alle dimissioni prima del top manager Andrea Guerra e poi del successore Enrico Cavatorta è legato proprio al ruolo preminente che stava assumendo Milleri, mentre a monte si svolgeva lo scontro su come dividere la proprietà tra sei figli con madri diverse. Adesso si dice che la signora Nicoletta possa ottenere il 25 per cento di Delfin, la scatola finanziaria nella quale è custodito il 61 per cento di Luxottica: aggiungendo la quota del figlio supera il 30 per cento e può comandare, mentre gli altri cinque rampolli farebbero un passo indietro. Il tutto, però, solo alla morte del patron oggi quasi ottantenne. Ciò vuol dire sottoporre una delle maggiori imprese italiane, tra le poche multinazionali, a una sorta di regime d’attesa che, data l’ottima forma fisica di Del Vecchio, potrebbe durare a lungo. “Io faccio solo la moglie e la mamma”, si difende lei rinnovando l’imperituro amore per il marito. Come si sa, i figli so’ piezz’e core. Quanto al resto, vale quel che Gioachino Rossini fa cantare al Bey di Algeri: “Le femmine d’Italia son disinvolte e scaltre e sanno più dell’altre l’arte di farsi amar”.