Dodici trimestri
L’Istat ha rivisto il profilo ciclico del pil italiano, che ora conferma il paese è in recessione dal terzo trimestre del 2011. La manovra può giovare, ma serve valorizzare il patrimonio pubblico.
L’Istat ha rivisto il profilo ciclico del pil italiano, che ora conferma quanto il Diario aveva già rilevato e cioè che il paese è in recessione dal terzo trimestre del 2011. Dodici trimestri (sino al secondo di quest’anno). Tre anni. Le conseguenze sono che l’economia italiana non solo non ha recuperato i livelli di attività pre-crisi, ma che quest’anno il volume del pil sarà grosso modo lo stesso di quello del 2000. Cioè, una stagnazione lunga 15 anni.
Questo il succo dello scenario macroeconomico. Di fronte al quale, ora, il governo Renzi propone una legge di stabilità per il 2015 che contiene una manovra superiore ai trenta miliardi (36 secondo le dichiarazioni). In termini di pil, si tratta di oltre due punti percentuali circa. Quindi una dimensione significativa. Certo, di fronte alla dimensione della crisi in atto, si potrebbe eccepire che persiste un divario quantitativo, ossia che sarebbe necessario fare ancora di più per contribuire a rimettere l’economia italiana su di un sentiero di crescita accettabile. Però, al di là dei vincoli imposti dalla nostra appartenenza all’Unione monetaria (che in ogni caso il governo dichiara di essere in grado di rispettare almeno per quanto riguarda il famigerato limite del 3 per cento nel rapporto disavanzo/pil), esiste il problema oggettivo della dimensione del nostro debito (in rapporto al pil), e soprattutto della sua intrinseca dinamica esplosiva in assenza di crescita. Da questo punto di vista, la manovra del governo presenta una novità non trascurabile, giacché un terzo circa delle maggiori uscite della manovra è finanziato attraverso il deficit (11 miliardi). Da questo punto di vista, la scelta del governo per affrontare il trade-off tra consolidamento fiscale e crescita appare chiara. La scelta implica un allentamento relativo nel timing del processo di convergenza al pareggio strutturale di bilancio (rinviato al 2017). Insomma, l’aggiustamento fiscale (misurato dall’ampiezza dell’avanzo primario) viene reso meno aggressivo dal punto di vista della durata, un po’ meno “front-load” si direbbe in gergo.
C’è un altro sostanziale motivo generale che rende la manovra apprezzabile. Ed è il mix di minori tasse e minori spese che essa contiene. In questo modo, l’aggiustamento fiscale, che resta un obiettivo ineludibile per i motivi detti, viene impostato in una maniera un po’ “più amichevole” nei confronti della crescita. Ciò ne dovrebbe ammorbidire i costi di breve periodo e allo stesso tempo aumentarne le probabilità di successo.
Tra stabilizzazione del “bonus” Irpef (80 euro), eliminazione della componente lavoro Irap, decontribuzione per i neo-assunti (a tempo indeterminato e con tutele crescenti) – le tre principali misure della manovra dal lato delle uscite – la riduzione del cuneo fiscale vale 18 miliardi, circa un punto percentuale di pil. La cosiddetta spending review (ripartita tra stato centrale e amministrazioni locali) dovrebbe coprire oltre l’80 per cento (15 miliardi) di questo taglio delle tasse.
[**Video_box_2**]Detto che qui si sta ragionando sullo schema generale della manovra – secondo quanto hanno diffuso i media – e che gli aspetti positivi sottolineati riguardano l’approccio più che le singole misure, si può osservare che tra queste ultime ci sono almeno due lacune. Entrambe riguardano il capitale pubblico, quello esistente e quello futuro, sui quali un governo ha un controllo potenzialmente pieno. La prima lacuna riguarda la valorizzazione del patrimonio pubblico esistente come strumento per ridurre una tantum lo stock del debito pubblico. L’altra lacuna riguarda il rinnovamento/ampliamento del capitale pubblico soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture di base. Si possono capire (sino ad un certo punto) le esitazioni del governo su entrambi i fronti, visto il numero di condizioni che devono essere soddisfatte perché in entrambi i casi si abbiano risultati convenienti.
L’aumento del prodotto potenziale
Lasciamo da parte le privatizzazioni e teniamoci gli investimenti pubblici. Questi ultimi sono una forma di spesa pubblica che, in linea di principio, può favorire sia la domanda che l’offerta aggregate, ossia può avere un effetto espansivo sia nel breve periodo sia nel lungo attraverso un aumento del prodotto potenziale. Quest’ultimo effetto si realizza perché il capitale pubblico (in infrastrutture) “lubrifica” la funzione di produzione delle imprese, cioè, essendo complementare al capitale privato, stimola la produttività totale dei fattori produttivi. E qui subentrano le condizioni che devono essere soddisfatte perché tutto ciò si verifichi. Una di queste condizioni è il modo di finanziare il progetto, attraverso l’indebitamento oppure l’aumento delle tasse e/o la riduzione di altre spese. Secondo uno studio recente del Fmi, con la prima modalità si avrebbe un effetto più espansivo. A patto però che i tassi d’interesse siano bassi e non crescano, provocando lo spiazzamento della spesa privata. Una circostanza che sembrerebbe propizia nella situazione attuale.
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