Un Papa nella tempesta
La santità intellettuale del mio Paolo VI, alla vigilia della beatificazione. Amletico, controverso e di sublime certezza. Scrittore sommo, contro il “facilismo” cristiano.
Qui di seguito l’intervento del direttore del Foglio all’incontro promosso dalla Fondazione San Benedetto di Brescia. L’incontro si è svolto il 3 ottobre scorso.
Avevo 26 anni quando morì. L’avevo visto per caso la prima volta incontrandolo durante una visita pastorale. C’era un grande macchinone nero in mezzo alla folla, pioveva a Roma, piazzale di Ponte Milvio, e il Papa sul quale si è levato ovviamente uno sguardo di attonita curiosità, aveva quel bellissimo saturno rosso che si vede molto spesso nelle sue immagini, quello che sembra un sombrero, e il tabarro, elegante, aristocratico. Pallido, in un tempo romano di pioggia, mi fece una grandissima impressione, avevo 16-17 anni e tornavo da scuola. L’ho rivisto una seconda volta che era come più piccolo dell’anello piscatorio, che era tutto consunto dalla malattia, nella messa di Natale del 1977. Lo vidi nella sedia gestatoria, un soffio di umanità senza peso materiale. Molto bella e carismatica fu quell’immagine. Mi ritornò alla luce degli occhi quando ero a Santiago de Compostela, quel 6 agosto del 1978 in cui morì e i giornali spagnoli (allora non c’erano tante notizie online) la mattina dopo titolavano: “Murió Pablo”. E’ stato il Papa della mia giovinezza, lo dico non perché la cosa abbia alcun rilievo ma per farvi capire il senso iniziale da cui poi è sprigionato quanto c’è, ed è molto, di interesse e di curiosità e, possiamo anche dirlo senza paura, di devozione verso una personalità così straordinaria.
Quando è morto Paolo VI ero un giovane comunista, venivo da una famiglia comunista, ero lontanissimo, a parte un rapporto culturale e civile, dalla chiesa cattolica. I comunisti di un tempo erano molto rispettosi della chiesa, della gerarchia, del Papa, avevano il senso della grandezza che si racchiudeva dentro questa bimillenaria istituzione umana, che si autocomprende come anche divina, che aveva questa identità universale, cattolica appunto, ed è ovvio che noi fossimo attratti, affascinati, però non era un legame fondato sulla fede. E quindi visto che siamo in procinto di una beatificazione, se un elemento di santità era percepibile dal ragazzo che ero allora era una santità intellettuale. La sofferenza di questo Papa, il suo contatto con il mondo e anche con la chiesa, la straordinaria capacità che ebbe di sollecitare la responsabilità di coloro cui parlava, porgergli la loro stessa libertà ma fare di questa libertà per ciascuno di loro un problema su tutti i temi che ha affrontato e di cui il suo pontificato è stato costellato, sono elementi assolutamente straordinari, ed erano una cosa che colpiva ogni mente, ogni spirito non chiuso a un ragionamento sulla storia e sul senso della storia.
Sofferenza è una parola abusata nel caso di Paolo VI, ma ho trovato un testo emblematico del 1969, contenuto in una normale allocuzione nel corso di un’udienza generale. Questa sofferenza aveva un’origine spiritualmente e intellettualmente straordinaria di cui Paolo VI era consapevole, e nel ’69 era già il Papa del Concilio immerso nei primi soffi, in quelli buoni e in quelli meno benigni, del dopo Concilio.
“Un cristianesimo facile: questa Ci sembra una delle aspirazioni più ovvie e più diffuse, dopo il Concilio. Facilità: la parola è seducente; ed è anche, in un certo senso, accettabile, ma può essere ambigua. Può costituire una bellissima apologia della vita cristiana, a intenderla come si deve; e potrebbe essere un travisamento, una concezione di comodo, un ‘minimismo’ fatale [sentite che termini da grande italiano, da grande scrittore!]. Bisogna fare attenzione. Che il messaggio cristiano si presenti nella sua origine, nella sua essenza, nella intenzione salvatrice, nel disegno misericordioso che tutto lo pervade, come facile, felice, accettevole e comportabile, è fuori dubbio. E’ una delle più sicure e confortanti certezze della nostra religione; sì, ben compreso, il cristianesimo è facile. Bisogna pensarlo così, presentarlo così, viverlo così [sembra un motto del pontificato di Francesco]. Lo ha detto Gesù stesso: ‘Il mio giogo è soave ed il mio peso è leggero’ (Matth. 11, 30). Lo ha ripetuto, rimproverando ai Farisei, meticolosi e intransigenti, del suo tempo: ‘Compongono pesanti e insopportabili fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini’ (Matth. 23, 4; cfr. Matth. 15, 2, ss.). E una delle idee maestre di San Paolo non è stata quella di esonerare i nuovi cristiani dalla difficile, complicata e ormai superflua osservanza delle prescrizioni legali del Testamento anteriore a Cristo?”.
Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI (1963-1978), nacque il 26 settembre 1897 a Concesio, in provincia di Brescia
Quindi un atteggiamento misericordioso, persino consapevolmente facilista, “accettevole”, “comportabile”, come dice in questa splendida lingua Paolo VI, ma con un avviso: tutto questo è ambiguo, è esposto al travisamento. Non è che fosse un Papa del dubbio, Paolo VI aveva una fede fermissima, lo dirò poi citando il cardinale Ratzinger quando parlò della morte di Paolo VI in una bellissima omelia. Paolo VI è un Papa del dubbio, amletico, controverso solo nella percezione che ne abbiamo, ed è normale e giusto che sia così, la tempesta è stata in noi ed è ancora largamente in noi. I Papi non sono controversi, bisogna essere molto presuntuosi per dire che un Papa è controverso. E’ controversa l’accoglienza che noi destiniamo a loro, il rapporto del mondo con il vicario di Cristo, con il vicario di Pietro, con il capo di una gerarchia che è anche il primo messaggero di un popolo, di una comunità di credenti, quello sì è controverso. Coi papi si può litigare, ma i papi non litigano con sé stessi, sono ovviamente parte di una storia, sono esseri umani, ma l’istituzione ha un senso univoco, limpido, nitido. Ha quello che può dare, si affida per i credenti ovviamente alla Provvidenza divina, ma di dubbioso non ha nulla, di controverso non ha nulla.
Un cristianesimo facile era per Paolo VI contemporaneamente un dovere, un modo di evangelizzare, un modo di credere perfino, il “giogo leggero”, un messaggio del Signore, e al tempo stesso però era un problema, era un’ambiguità, perché si può essere contro il legalismo ma, e lo vedremo adesso rapidissimamente percorrendo il senso del suo pontificato, è più difficile escludere l’ordine spirituale, la distinzione di bene e di male dall’orizzonte della nostra vita, dei nostri comportamenti, del nostro pensiero e persino dalla nostra fede quando ci sia la fede. Diciamolo in modo giornalistico: io non sono uno storico e neanche uno specialista, sono un innamorato del pensiero cattolico, della cultura cattolica, del cattolicesimo reale, fisico, vero, che rappresenta un elemento di equilibrio nella vita del mondo e del mio paese.
Paolo VI è un grandissimo straordinario uomo di curia che lavora con i papi “pii”, Pio XI e Pio XII, pontefici massicci che vivono in una chiesa piena di ombre, una chiesa che oggi non potremmo neanche riconoscere se si fosse mantenuta in qualche parrocchia sperduta di periferia. Una chiesa piena di ombre e probabilmente anche di luce, ma severa, rigorosa, una chiesa strettamente legata al passato, in quanto il passato per quella chiesa era la testimonianza del Regno che viene, la dottrina. Era la dottrina, anche innovandola. Pio XII ha innovato il modo di leggere la Bibbia con l’enciclica Divino afflante Spiritu, ha lavorato con il cardinale Bea, con i costruttori del Concilio dopo di lui. Quella era la chiesa dove Paolo VI ha concepito, formato la parte più cospicua della sua posizione nella chiesa ed è la vera ragione per cui poi, dopo il fulmine profetico di Giovanni XXIII e la convocazione del Concilio, fu lui a essere eletto Papa.
E’ stato un pastore attento nella fase milanese come arcivescovo di Milano, molto attento sulla questione della famiglia, e poi è stato il Papa del Concilio. Giovanni XXIII è stato il Papa che ha chiesto al Concilio di essere pastorale, benigno e aperto, ma Paolo VI è quello che ha dovuto governare questo Concilio che si era trasformato, quando lo riconvocò dopo la morte di Giovanni, in un’assemblea della Pallacorda, una sorta di grande confronto dentro la chiesa, un momento di fermenti rivoluzionari che tendevano a grandi svolte, a grandi modifiche. Paolo VI da questo punto di vista è stato tutt’altro che dubbioso, è stato un Papa di sublime certezza perché in uno dei documenti decisivi del Vaticano II, la Lumen Gentium, la costituzione su chi siamo, chi siamo noi chiesa e cosa siamo nel mondo, appose la famosa “Nota esplicativa previa”. Come a dire: questo documento è complesso, viene fuori da una larga ispirazione episcopale, in cui i reverendi padri si riconoscono, io non solo ho contribuito a farlo, ma lo faccio integralmente mio, però consentitemi di apporre in latino quelle sette o otto righe fondamentali che dicono: “Tutto questo è vero, ma il governo della chiesa è con Pietro e sotto Pietro”. Il Papa nel Vaticano II salva il primato romano, e lo salva attraverso questo atto magisteriale. Non impedisce un passo avanti rispetto all’infallibilità del Vaticano I, non impedisce la collegialità, la nascita del Sinodo, non impedisce un movimentarsi della chiesa, ma è un movimentarsi che non va verso la deriva degenerativa della disunione. “Nota esplicativa previa”, un atto di magistero straordinario, eccezione emergenziale che arriva forse nel momento più importante di vita del Vaticano II.
[**Video_box_2**]Poi cosa altro è Paolo VI per un povero giornalista? Ovviamente oltre a tutto il resto, oltre al poeta della modernità – poeta proprio nel senso che era versificatore, lessicografo, era il dizionario delle cose più importanti che il pensiero di un Novecento tormentato, decadente, un po’ rancido, riusciva a produrre nel momento in cui moriva (Paolo VI è stato un Papa della seconda metà del Novecento) – è stato il Papa che ha levato un “no” carico d’amore, carico di pensiero, carico di preoccupazione, carico di sentimento e sensibilità, anche carico di dottrina, un “no” alla via d’uscita che il mondo moderno immaginava e praticava embrionalmente fin da allora. La modernità pensava di avere trovato la via nella rivoluzione del soggetto che supera, che disgrega e supera la famiglia, che disgrega e supera l’unità della personalità, che disgrega e supera la paternità responsabile: e il mezzo è il progresso della scienza che gli consente di decidere lui della procreazione, il progresso sociologico del nuovo ruolo della donna, il divorzio, poi l’aborto. Insomma i grandi drammi che ruotano attorno a un documento secondo me fulgido, straordinario, letto, riletto, pubblicato sul Foglio tante volte pur essendo un testo lungo e non propriamente giornalistico, l’Humanae Vitae. Paolo VI interviene attraverso un documento che parla di un tema a lui sempre caro, sempre caro a un Papa, a un successore di Pietro, per ragioni secondo me assolutamente vere che è il tema della vita.
Ora la chiesa sta per reimmettersi – alla fine la beatificazione di Paolo VI è anche una forma di ancoraggio spirituale solido che con grande finezza e sensibilità Papa Francesco ha trovato modo di collocare proprio al culmine del Sinodo – si reimmette nel circuito di questo dramma: la famiglia, dunque la sua unità, il sesso, la procreazione, tutto quello che ruota attorno a questo elemento centrale della vita umana. Non è che abbiamo scoperto adesso che esistono le famiglie cosiddette “patchwork”, quello che nel 1960 era uno sfilacciamento (parlo del 1960 perché in quell’anno in una celebre lettera pastorale per la diocesi ambrosiana il cardinale Montini trattò il tema della famiglia), quello che allora era un infragilimento della famiglia che diventava meno solida, meno unita, meno convergente verso fini trascendenti, meno legata a un senso, oggi è distruzione come grande tendenza dei tempi, come perdita completa di autorità, di prestigio, di peso della famiglia biparentale, classica: sposarsi, promettersi definitivamente l’amore, coltivarlo, attraversare tutto, la benevolenza, la malevolenza, la santità e il peccato; attraversare tutto dentro questo vaso di santità che recentemente il cardinale Kasper paragonava a una chiesa domestica.
Adesso è più dura e di nuovo c’è un’alternativa. Come sapete Paolo VI, è scritto nell’enciclica in modo chiaro, aveva reinsediato e allargato una commissione voluta da Giovanni XXIII che analizzava il problema della famiglia nei tempi moderni, li ascoltò, li riunì, li fece parlare. Loro gli diedero un impianto sociologico e dottrinale di compromesso, di mediazione, si trattava non di poco. Si trattava di modificare proprio il senso stesso dell’amore cristiano, come amore sacramentale. Il matrimonio è vero che preesiste al cristianesimo ed è stato canonizzato dal cristianesimo.
Ma l’idea sacramentale dell’amore fra uomo e donna come amore fra Cristo e la sua chiesa, quella l’ha inventata il cristianesimo, l’ha portata il Signore, e quindi adesso come allora c’è un problema. Questa commissione aveva dato un’alternativa di compromesso e, come sapete, Paolo VI firmò invece il documento che è stato giudicato più disperato e più di argine, di difesa, di erezione di un muro anziché di guida. Ma non era questo, il Papa invece presagiva il futuro in modo straordinariamente intelligente e con mezzi quasi sovrumani, di sovranità intellettuale assoluta. Paolo VI aveva capito tutto della scienza, dell’eugenetica, dei progressi tecno-scientifici che avrebbero portato alla produzione dei bambini, invece che alla loro procreazione attraverso un atto di amore, che avrebbero portato a un’idea strumentale della pianificazione familiare. Tutto aveva perfettamente capito, e aveva intuito attraverso quale pertugio culturale e psicologico questa tendenza dissolutiva sarebbe passata, e disse di no in un modo che gli attirò poi gli strali, le inimicizie, le sfide di una parte del mondo e di una parte della stessa chiesa cattolica che non accettava questo pensiero e che riteneva che il messaggio, il significato del Concilio Vaticano II fossero un’altra cosa, dovessero proprio culminare in uno sposalizio col mondo così come è. Invece Paolo VI fece di testa sua, nel suo personale, privato, spirituale, altissimo (data la funzione che ricopriva), colloquio con Dio.
A Gerusalemme, nel 1964, con il patriarca della chiesa ortodossa Atenagora I
E quindi fu un Papa criticato, e criticato in modo feroce. Dopo l’Humanae Vitae che è del 1968, non scrisse più un’enciclica e lo disse esplicitamente: non voleva più essere elemento divisivo nella sua stessa chiesa. Codificare, fissare in una lettera enciclica le sue idee è fatto che sarebbe stato concepito come sfida gerarchica al popolo di Dio. Ma un Papa, disse Ratzinger nell’omelia dopo la morte di Paolo VI, “un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia [qui c’è tutta la sapienza del cardinale Ratzinger], le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede. E’ per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede [grande lezione ripresa nelle sue mani capaci da Papa Francesco] lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni [pensate solo alla discussione che sta imperversando alla vigilia del Sinodo], impone come parametro l’amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. Per questo ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della chiesa”.
Dalla gioventù alla maturità, fino alla mia turpe vecchiaia, questo è il mio Paolo VI.
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[Intervento nel dibattito] E’ vero: la dottrina di per sé è morta, la lettera è morta, lo spirito vivifica. E lo spirito per una religione come il cristianesimo è incarnato nell’esperienza, nella storia. D’accordo, però il problema è sempre lo stesso, riformulato in modo diverso da Paolo VI, da Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI, e adesso da Papa Francesco: fino a che punto io posso amare, esprimere misericordia, perdonare, restando nella giustizia? Non giudico evangelicamente, ma porto la spada della mia fede nel mondo, e la spada ferisce, induce a comportamenti di volta in volta diversi. Con l’esempio? Sì con l’esempio. Con la sequela dei più deboli, degli svantaggiati, dei poveri? Sì, con quella che è la sequela di Cristo, la sequela evangelica. Con l’apertura mentale, la sensibilità verso gli altri? Certo. Con lo spirito di accoglienza? Ma sicuramente. Però il problema è sempre lo stesso. Un fine santo corre o no il rischio di essere tradito dai mezzi che impiega? Ricordo qui a Brescia delle conversazioni molto belle con Mino Martinazzoli sul teologo Romano Guardini, autore di un bellissimo libro su Pascal, finissimo interprete di Pascal. Filosofo, teologo, letterato del Seicento che fece a cazzotti, si fa per dire, con i gesuiti. Pascal scrisse le famose “Lettere provinciali”, disse “state sbagliando tutto, voi reverendi padri gesuiti”. Erano nel momento della loro maturità, e Pascal disse di no. Con Martinazzoli, con un certo sense of humour, con una certa capacità di stupirci, ragionavamo su questo. Chi più dei gesuiti ha lavorato per un fine santo? Sono nati per santificare il mondo e la chiesa nel momento della dissacrazione, nel momento scismatico, della grande ubriachezza teologica indotta dal genio e dal talento religioso di Lutero che però l’ha imbracciato contro Pietro, contro Roma, contro la continuità apostolica e diventò la rivoluzione sacramentale per cui niente aveva più importanza salvo la fede e quindi la chiesa veniva virtualmente abolita. I gesuiti, che non sono stati affatto gli agenti segreti della Controriforma (e poi forse non c’è stata nemmeno una Controriforma, ma una Riforma cattolica parallela alla Riforma luterana) e comunque non erano i maestri concertatori, malgrado il contributo del grande orchestratore san Roberto Bellarmino, però hanno cercato di ricostruire lo spazio cattolico e sacramentale anche attraverso la via mistica, anche tagliando tutte le mediazioni, andando al rapporto diretto con il divino. Francesco lo dice spesso: devi farti riempire, svuotarti e lasciare che il tuo spirito si riempia di qualcosa di ineffabile, di non razionalizzabile. E’ un linguaggio molto diverso da quello di Benedetto XVI, che invece la sua chiesa la portò sul terreno dell’alleanza tra fede e ragione, ma è comunque un orizzonte straordinario, un modo di fare il Papa. Sta di fatto che i gesuiti interpretarono molto bene questa cosa indistinta che sta tra mistica e politica. Poi però elaborarono una morale comune pazzesca, la morale del probabilismo.
San Giovanni in Laterano, 13 maggio 1978: l’omelia alla messa in suffragio di Aldo Moro
Non voglio stare a semplificare, tutto dipende da una serie di fattori che vengono gestiti dalla tua direzione spirituale o da te in quanto direttore spirituale di te stesso, dopo di che si possono fare tante cose, si può nascondere il crocifisso tra gli indiani, si può rubare, si può uccidere, si può combattere: insomma “todo modo para buscar la voluntad de Dios”. Questa è la volgarizzazione satirica, pascaliana, della grandezza dei gesuiti, che però fu una grandezza ambigua: per rendere facile il cristianesimo o corrispondergli, perché “il giogo è leggero” e da qualche punto bisogna ripartire, non si può affrontare il mondo soltanto proponendogli manifesti di dottrina, è quasi inutile aprire le porte delle chiese, presentarsi nelle piazze, nelle strade, nelle calli delle villas miserias che sono il nucleo dell’esperienza di Papa Francesco per indottrinare. Non si può parlare ai poveri con il linguaggio della dottrina morale, non si può riconquistare il mondo, anche il mondo mondano, il mondo non povero, d’avanguardia, della cultura, della tecnica, con la dottrina morale. D’accordo. Ma fino a che punto io posso amare, essere misericordioso e perdonare senza per questo disperdere quel patrimonio di giustizia che solo rende veramente divina la misericordia? E’ questo il punto da cui si riparte ogni volta e che incantò Giovanni Battista Montini.
Noi non l’abbiamo citata stasera, ma una sua frase fondamentale è che “la più alta forma di carità è la politica”. Papa Paolo VI è stato contestato dai cosiddetti progressisti che gli hanno attribuito la restaurazione post conciliare, e di aver preparato poi il terreno a Giovanni Paolo II. E’ stato detestato anche dagli ultraconservatori, dai sedevacantisti, da larghi settori tradizionalisti perché era stato un Papa molto attivo nel cercare di conformare attorno al nucleo della fede un messaggio secolare convincente della chiesa cattolica fino al punto di essere uno dei padri dell’esperienza democratico-cristiana, fino al punto di aver modernizzato l’Italia promuovendo il centrosinistra. Altro che “Papa del dubbio”, è stato un Papa di spinta, di trasformazione. Credo che poi sulla percezione disperata del suo pontificato abbia contato molto anche l’esperienza del caso Moro.
Paolo VI tenne l’omelia funebre senza la presenza della salma “del fratello Aldo”, giustiziato in un carcere del popolo delle Brigate rosse, ricondotta a Turrita Tiberina per un funerale privato da parte della famiglia furiosa con lo stato che non aveva trattato. Andò nella basilica romana più importante, San Giovanni in Laterano, e disse la famosa frase di una bellezza stellare: “Signore, tu non hai esaudito la nostra supplica per la vita del nostro fratello Aldo”. Si rivolse in un dialogo diretto con il divino che era in lui e fece una profondissima riflessione in una chiesa vuota dell’innocenza di un prigioniero ucciso nel modo che sappiamo. E quindi sembrò addirittura che fosse un Papa in lite con la Provvidenza, ma non era così. Paolo VI, questo poeta del moderno, questo straordinario Papa che sta per essere beatificato dalla grande assemblea dei vescovi, da uno dei suoi successori che a lui si richiama, nella sua sensibilità, nella sua diffidenza verso il piccolo dogmatismo, il “minimismo” dogmatico e verso il “facilismo”, era un uomo di grande certezza, di fede inconcussa. Non un uomo incerto che è una versione stupida, fumettistica che si dà di questa grandissima straordinaria personalità.
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