Cattolico, apolitico, non ideologico: tutto il contrario dei suoi attuali epigoni londinesi. Peter Benenson, fondatore di Amnesty, con una candela avvolta nel filo spinato, simbolo dell’organizzazione

Solo una candelina

Giulio Meotti

Ci manca la vecchia Amnesty. Così quei magnifici anticomunisti sono diventati dei moralisti ossessionati dai peccati dell’occidente.

Tutto nacque nella maniera più tipicamente inglese. Con la storia della penna più forte della spada. L’avvocato Peter Benenson nel maggio 1961 scrisse un articolo sul settimanale Observer: “Aprite il vostro quotidiano ogni giorno della settimana e vi trovate un rapporto da qualche parte del mondo su qualcuno che viene imprigionato, torturato o giustiziato perché le sue opinioni o la sua religione risultano inaccettabili al suo governo”. Lo scopo che Benenson assegnò alla sua creatura, Amnesty International, era quello di impegnarsi concretamente, non scatenando battaglie pubbliche di portata generale, che si sarebbero risolte in banale eccitazione, ma seguendo un metodo molto più efficace, caratteristico di Amnesty: caso per caso, adottando tre prigionieri politici. Uno doveva essere scelto nei paesi del blocco comunista, un altro in quelli sotto dittature di destra e il terzo in un paese non allineato. Eppure da allora, Amnesty ha subito una metamorfosi profonda. 

 

Non si occupa più soltanto di prigionieri e dissidenti, ma spazia dal matrimonio omosessuale all’aborto come “diritto umano”. Una agenda che avrebbe fatto certamente storcere il naso a Benenson, un ebreo inglese convertito al cattolicesimo, che nel 1967 scrisse agli amici di vedere Amnesty come parte della “testimonianza cristiana”. Tom Sargent, l’altro fondatore del gruppo, era un devoto metodista (il cognome deriva da “servant”, servo del Signore), mentre Dorothy Warner, un’altra fondatrice, diceva di avere come proprio idolo il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, martirizzato dai nazisti. Di quell’afflato cristiano di Amnesty non resta traccia alcuna. Anzi, oggi Amnesty è all’avanguardia del secolarismo più sciatto.

 

Chi fu il primo dissidente difeso da Benenson? Il cardinale József Mindszenty, primate ungherese nominato da Pio XII, il super conservatore, il curato di campagna che divenne “homo regius”, torturato dai comunisti.

 

Amnesty si occupa ancora di dissidenti e prigionieri di coscienza, e lo fa con onore, ma ha deciso anche di “cambiare il sistema”, come disse l’ex segretario generale, la bengalese Irene Khan. Basta uno sguardo al sito web dell’organizzazione. Non ci sono più solo i nomi dei dissidenti in carcere, ma temi generali come “Stop violence against women” e “Poverty and Human Rights”. Un tempo, Benenson e soci si battevano contro l’apartheid e il comunismo. Oggi i loro eredi vogliono curare i peccati delle democrazie e si occupano di denunciare il big business e il climate change. Benenson non si sarebbe mai sognato di tuonare contro il capitalismo, oggi invece Amnesty prende parte a bizzarre fiere anticapitalistiche come il World Social Forum. In Colombia, ad esempio, Amnesty è intervenuta contro l’amnistia concessa a membri di milizie paramilitari di destra. Ma non ha detto nulla quando la stessa amnistia è stata offerta a terroristi di sinistra.

 

Di recente Alice Maynard, portavoce di Scope, la più grande organizzazione di disabili del Regno Unito, è uscita da Amnesty in segno di protesta per l’apertura del movimento verso l’eutanasia. “Sono spiacente di informarvi la cancellazione del mio contributo mensile”, ha scritto Maynard, che soffre di atrofia muscolare spinale e che usa una sedia a rotelle. Aprendo all’eutanasia, Amnesty avrebbe violato “il più fondamentale dei diritti umani delle persone con disabilità come me: il diritto alla vita”. Maynard aveva sostenuto finanziariamente Amnesty per dieci anni. Già con l’apertura all’aborto, Amnesty aveva perso tanti membri cattolici: l’organizzazione è stata vietata nelle scuole cattoliche e nelle parrocchie di Inghilterra e Galles, dove aveva più di cinquecento gruppi. Elspeth Chowdharay-Best, il segretario di Alert, un gruppo anti eutanasia, ha detto che “il simbolo di Amnesty della candela ora è apparentemente favorevole a uccidere l’indifeso a entrambe le estremità della vita”.

 

Di recente, Amnesty ha persino trovato il tempo di criticare le legislazioni europee che non hanno liberalizzato la prostituzione. Chi vende il proprio corpo in cambio di denaro “esercita l’autonomia”. Nel paper di Amnesty, intitolato “Decriminalization of Sex Work: Policy Background Document”, si spiega che bandire la prostituzione viola i diritti umani. Posizione libertina legittima, ma non si capisce la ragione per cui gli eredi di Benenson debbano impegnarsi in questa e in altre battaglie sociali ideologiche.  
Al metodo originale del caso per caso, Amnesty ha preferito la strada dell’eccitazione umanitarista e dell’esposizione mediatica (star come Bono, Yoko Ono e Al Pacino). Infine, alla tripartizione equa dell’infamia pubblica come metodo di lavoro, Amnesty ha finito con il concentrarsi sulle malefatte dell’occidente.

 

Una storica ambasciatrice americana all’Onu come Jeane Kirkpatrick ha definito “ipocrita” Amnesty per i suoi colpevoli silenzi su tragedie politiche del Novecento che non hanno scaldato i cuori umanitaristi, come quelle in Angola e Nicaragua e come il genocidio cambogiano di Pol Pot. E quando in Etiopia e in Sudan migliaia di persone morivano per fame e tortura, Amnesty aveva come principale obiettivo l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. Dunque per Amnesty l’esecuzione del serial killer Ted Bundy valeva la stessa quantità di indignazione e di comunicati stampa della morte per fame e tortura di diecimila somali. Dov’era Amnesty International quando i Khmer Rossi stavano massacrando più di un milione di cambogiani? L’unico comunicato stampa dell’organizzazione per il 1977, quando i francesi stavano già segnalando in Cambogia “la rivoluzione più sanguinosa nella storia”, esprimeva disagio per il fatto che Phnom Penh non rispondeva alle sue richieste di informazioni. Dov’era Amnesty quando decine di milioni di cinesi venivano liquidati durante la Rivoluzione culturale di Mao Tse-tung?
Amnesty è nata sull’onda del radicalismo degli anni Sessanta con uno scopo nobile: la politica dei diritti umani universali adottata dopo la Seconda guerra mondiale era stata sequestrata dagli interessi della realpolitik della Guerra fredda. Nello spirito della sua famosa torcia, Amnesty gettò una luce dove c’era soltanto il buio. Un prodotto della intellighenzia inglese liberal nato per combattere i fallimenti dei media nel fornire all’opinione pubblica ricerche accurate sugli abusi dei diritti umani.

 

Benenson veniva da Eton aveva avuto come tutor il poeta W. H. Auden. E’ qui il paradosso di Amnesty, che oggia sia invece in totale sintonia con il sistema dei media e i suoi disvalori. E’ il declino di una organizzazione che si è battuta per eroi della libertà come Václav Havel e Andrei Sacharov. Due vittime del gulag sovietico accostate a Guantanamo, “il gulag del nostro tempo”, secondo l’infelice definizione di Irene Khan, ex segretario generale di Amnesty. Come se si potesse paragonare il carcere per terroristi all’inferno sovietico dove sono morti milioni fra sacerdoti, dissidenti, kulaki e gente comune. Inoltre, mentre il gulag era una parte fondamentale del sistema sovietico, Guantanamo è un’eccezione americana che neppure Barack Obama è riuscito ad archiviare. Ma forse per Amnesty non è così.

 

Una organizzazione fondata da un ebreo di origini russe dalle simpatie sioniste che oggi guida la “soft war” contro lo stato ebraico. Nel rapporto Amnesty del 2006, per citarne uno, la ong condanna Israele, in base ai parametri usati dall’organizzazione Ngo monitor di Gerald Steinberg, molto di più di quanto non condanni l’Iran, il Sudan, la Libia, la Siria, l’Egitto. “E’ ridicolo – ha scritto Steinberg – pensare che durante l’anno Amnesty ha emesso 48 pubblicazioni di ‘azione urgente’ su Israele, mentre ne ha dedicate 35 all’Iran, 2 all’Arabia Saudita, 7 alla Siria”. Il settimanale inglese Economist ha accusato Amnesty di “riservare più pagine agli abusi dei diritti umani in Gran Bretagna e Stati Uniti di quanti non ne dedichi a Bielorussia e Arabia Saudita”. Adrian Karatncycky e Arch Paddington dell’Institute of Public Affairs hanno accusato Amnesty di “sproporzionata ossessione per gli abusi delle democrazie occidentali”. Anche i personaggi pubblici difesi da Amnesty sono cambiati molto. All’origine della crociata liberal di Benenson c’erano Maurice Adin, Ashton Jones, il poeta angolano Agostinho Neto, Patrick Duncan, la moglie di Pasternak Olga Ivinskaya, Luis Taruc, Constantin Noica, Antonio Amat e Hu Feng. Per questo ha stonato non poco la fotografia che ritraeva Moazzam Begg, già detenuto di Guantanamo e sostenitore dei talebani, davanti alla porta di Downing Street, sede del primo ministro britannico, assieme ai sorridenti dirigenti di Amnesty.

 

[**Video_box_2**]L’allora segretario generale di Amnesty, l’italiano Claudio Cordone, disse che il “jihad difensivo” non è “antitetico” alla battaglia per i diritti umani. E lo disse in risposta a una petizione sul rapporto di Amnesty con Cageprisoners, la ong fondata dal fondamentalista islamico Begg e che si batte per il rilascio di conclamati jihadisti. Scrisse Cordone: “Moazzam Begg e altri nel suo gruppo Cageprisoners hanno idee molto chiare su come si debba parlare ai talebani o sul ruolo della jihad in chiave difensiva. Queste idee sono antitetiche con i diritti umani? La nostra risposta è no”. Il caso esplose quando Gita Sahgal, a capo della sezione gender di Amnesty, fece trapelare sul Sunday Times il suo sfogo rimasto senza risposta da parte dei vertici dell’organizzazione. “La campagna costituisce una minaccia agli stessi diritti umani – scrive Sahgal il 30 gennaio in un messaggio di posta elettronica ai suoi capi –. Apparire assieme al più famoso sostenitore britannico dei talebani, trattandolo come un difensore dei diritti umani, è un grosso errore”. Risultato? Sahgal fuori da Amnesty, non il talebano.

 

Due anni fa, Amnesty International ha chiesto alle autorità canadesi di emettere un mandato d’arresto. E chi volevano mettere al gabbio questi pubblici ministeri dell’umanitarismo? Un satrapo africano? Bashar el Assad? Mahmoud Ahmadinejad? No, George W. Bush. “Il Canada è obbligato ad arrestare e perseguire l’ex presidente Bush per la sua responsabilità in crimini di diritto internazionale tra cui la tortura”, ha detto Susan Lee, direttore di Amnesty International America. Impeccabile la risposta del governo canadese: “Questo tipo di bravate aiuta a spiegare il motivo per cui così tanti difensori dei diritti umani hanno abbandonato Amnesty International”, ha detto il ministro canadese della Cittadinanza e dell’immigrazione Jason Kenney.  
Bravate che hanno spinto intellettuali come Salman Rushdie a parlare di “bancarotta morale di Amnesty” e il compianto Christopher Hitchens a condannarne “la degenerazione e la politicizzazione”. Amnesty contribuì alla campagna del democratico John Kerry. Non è esattamente questa l’imparzialità che per statuto l’organizzazione si impone.

 

Di recente, contro Amnesty si era schierato un suo ex dirigente di spicco, l’algerina Karima Bennoune, autrice di “Your fatwa does not apply here”. “Durante i miei anni ad Amnesty International ho condiviso le sue preoccupazioni sulla tortura e le sparizioni in Algeria”, si legge nel libro. “Ma non potevo comprendere la risposta dell’organizzazione alla violenza dei gruppi fondamentalisti. Amnesty era cieca a quello che i fondamentalisti facevano ai diritti umani. Amnesty descrisse l’atmosfera in Algeria come uno stato di ‘confusione su chi commette i crimini’. Questo ha terribilmente sminuito i tentativi delle vittime di veder riconosciuta la propria storia e i colpevoli giudicati. E’ chiaro che i fondamentalisti in Algeria furono colpevoli delle proprie atrocità”. Nella primavera di quattro anni fa, Bennoune ha servito in una task force di Amnesty America: “Raccomandammo all’organizzazione di commemorare il decimo anniversario dell’11 settembre. Il board di Amnesty rifiutò la proposta, perché un evento simile avrebbe contribuito a discriminare i musulmani”.

 

Amnesty può indubbiamente guardare con orgoglio e soddisfazione al cammino compiuto dalle sue modeste origini. Oggi è un’organizzazione di rilevanza mondiale, un premio Nobel per la Pace con due milioni di iscritti e settanta sedi in tutto il mondo. Eppure, a giudicare dalla sua involuzione, il simbolo di Amnesty, la celebre fiaccola circondata da un filo spinato, sembra diventata una candelina. Un cerino nelle mani degli epigoni di Peter Benenson. Ridateci la vecchia Amnesty dei figli del privilegio occidentale. 

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.