I dolori del governare
La strategia della disperazione dei democratici verso il midterm. Vincere alcune sfide impossibili, smarcarsi da Obama, stanare il popolo dei delusi. Le mosse per tenere il Senato
New York. Per l’ultimo miglio di campagna elettorale prima del midterm, il Partito democratico ha deciso di cambiare strategia, spostando attenzione e risorse dalle sfide abbordabili a quelle impossibili o quasi, alzando il tiro nel tentativo estremo di abbattere le prede più lontane e nascoste nella boscaglia elettorale, trascurando quelle più vicine. Può sembrare un controsenso, ma non lo è. Piuttosto, è una strategia della disperazione applicata con calcolata lucidità. La partita di questo midterm si gioca esclusivamente al Senato, dove si vota per 33 seggi su cento, mentre alla Camera, che si rinnova per intero, si tratterà di quantificare il margine di vantaggio dei repubblicani, che già detengono la maggioranza. Il partito del presidente Obama sa che le possibilità di mantenere il controllo del Senato sono piuttosto basse. Il modello di previsione escogitato dal sito ThirtyFiveEight di Nate Silver basandosi su oltre 1.300 sondaggi dice che i democratici hanno soltanto il 32 per cento delle possibilità di tenere la Camera alta, e un calcolo anche più elementare rivela che vincere soltanto i seggi realisticamente contendibili non basterà per evitare la sconfitta. Allora tanto vale rischiare tutto e buttarsi per due settimane a capofitto sui campi di battaglia più duri e nelle sfide fuori casa, meglio riallocare due milioni di dollari per cercare di strappare due seggi solidamente repubblicani in South Dakota e Georgia invece che continuera a investire sulla campagna di alto profilo di Alison Lundergan Grimes, che in Kentucky tenta di insidiare il seggio del leader dei conservatori al Senato, Mitch McConnell.
Ci sono quattro senatori democratici in cerca di rielezione che assistono all’assottigliarsi delle possibilità di vittoria in Alaska, Arkansas, Louisiana e Colorado, e a questi vanno aggiunti i seggi in Montana e West Virginia, che quasi sicuramente finiranno nella colonna repubblicana. Gli strateghi democratici sanno che i loro candidati devono reggere nelle sfide più equilibrate e contemporaneamente raggranellare qualcosa fuori dalla “comfort zone” democratica per poter mantenere il controllo di un ramo del Congresso.
Nel frattempo nei quattro stati più contesi, la macchina elettorale repubblicana sta cavalcando un filone di sicuro successo: associare i candidati al presidente Obama, rappresentandoli come gemelli ideologici del presidente che ha deluso la sinistra. I sondaggisti conservatori dicono che le possibilità di vittoria aumentano ogni volta che un avversario viene accostato al presidente. La campagna contro il senatore Mark Pryor in Arkansas è basata su questo messaggio: “Oggi un voto per Pryor è un altro voto per Barack Obama”. Che il ragionamento non sia campato per aria lo prova il fatto che gli stessi democratici rifuggono gli endorsement troppo affettuosi del presidente e in alcuni casi chiedono esplicitamente alla Casa Bianca di non mandare Obama in tour nei loro distretti. Al massimo si ripiega su Michelle, la più popolare della famiglia, la quale però è piuttosto infastidita dalle richieste di appoggio di deputati e senatori che hanno colpevolmente ignorato (o silenziosamente osteggiato) la sua campagna contro l’obesità infantile. La senatrice democratica della Louisiana Mary Landrieu – protagonista di una sfida che è una rappresentazione in scala dello scontro politico nazionale – spiega senza sosta negli spot elettorali e nei comizi che anche lei è una critica delle politiche dell’Amministrazione Obama, specialmente quando si tratta del blocco delle trivellazione petrolifere che tirano la carretta dell’economia del suo stato. Non è difficile trovare candidati democratici che si ditanziano da Obama. Quando non succede si rischiano brutte sorprese, come è successo nel fine settimana in una scuola superiore del Maryland, dove il presidente ha partecipato a un evento elettorale del candidato al posto di governatore, Anthony Brown. Il pubblico, composto in maggioranza da afroamericani, ha preso a lasciare la sala prima che il presidente finisse il suo discorso. Ci sono stati mugugni e fischi, e perfino urla per disturbare il comizio. Brown ha 11 punti di vantaggio sull’avversario e l’incidente non sposterà molto nella sfida, ma rende bene l’idea del clima.
[**Video_box_2**]Portate a votare vostro cugino, vostra zia, i vostri amici, i parenti, i vicini di casa, tutti. Prima che iniziasse l’imbarazzante esodo del pubblico in Maryland, Obama ha ripetuto un concetto fondamentale che gli strateghi democratici riassumono con questa formula: get-out-the-vote, tiriamo fuori i voti, staniamo gli elettori che non andrebbero a votare, portiamoli in qualche modo ai seggi. Non importa se votano per i repubblicani o per un indipendente, basta che mettano una croce sulla scheda. Questa strategia nasce dalla convinzione – provata in modo sontuoso alle presidenziali del 2012 – che la maggioranza silenziosa e politicamente dormiente tende statisticamente a sinistra. La base elettorale c’è, bisogna soltanto tirarla fuori. I repubblicani convinti o anche soltanto “likely” andranno in ogni caso a votare, l’ordine degli attivisiti che fanno il porta a porta è non imbarcarsi in disfide dialettiche con gli avversari, il punto è portare alle urne i democratici tiepidi, il popolo dei delusi da Obama. Questi sono gli elettori che sfuggono ai sondaggi, un sottobosco invisibile che può evitare una sconfitta pesante per la già delicata coda della presidenza Obama.
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