Nelle trincee del Donbass, embedded con i separatisti filorussi
E’ una strana guerra. Le prime linee distano dal centro cittadino non più di cinque chilometri. Eppure, nelle vie di Donetsk, la vita sembra scorrere regolarmente: i negozi sono aperti, si stampano giornali, qualcuno riesce persino a fare jogging. Reportage su un cessate il fuoco che non c’è.
Pisky (Ucraina). E’ quasi il tramonto e le trincee di Pisky, di fronte all’aeroporto di Donetsk, sono già immerse nel gelo. Il comandante Skorpio, della milizia separatista, si è aggrappato alla mitragliatrice pesante. Spara contro una decrepita torretta, a cento metri di distanza: i soldati dell’esercito ucraino sono asserragliati lì dentro. Improvvisamente gli squilla il telefono. E’ sua madre, gli deve dare una brutta notizia: il suo amico Artyom è stato ucciso questa mattina durante un bombardamento. Artyom si era arruolato dall’altra parte della barricata, con la Guardia nazionale di Kiev: i due avevano combattuto l’uno contro l’altro, pregando per mesi di non doversi mai fronteggiare. “E’ una guerra maledetta – sussurra Skorpio, agitando le grandi mani nere di terra e di polvere da sparo – Siamo fratelli contro altri fratelli, e il nostro solo scopo è quello di ammazzarci a vicenda”.
E’ la guerra maledetta del Donbass, che non conosce tregua. Il cessate il fuoco sottoscritto a Minsk all’inizio di settembre non è mai entrato in vigore. Ogni notte le artiglierie di Kiev aprono il fuoco su Donetsk: in meno di sette giorni sono morti oltre venti civili. Lunedì un missile tattico ha colpito una fabbrica di armamenti, causando una gigantesca esplosione che ha mandato in frantumi i vetri di interi isolati. Secondo un report di Human Right Watch, l’esercito ucraino ha utilizzato anche le bombe a grappolo a Donetsk, almeno in due occasioni, il 2 e il 5 ottobre. Queste armi sono vietate e il governo ucraino smentisce, ma le foto a supporto del documento sono significative.
Le battaglie più furiose sono attorno all’aeroporto cittadino, inaugurato alla vigilia degli Europei di calcio del 2012 e oggi ridotto a un cumulo di rovine. E’ dall’inizio di luglio che i separatisti cercano di conquistarlo, ma ancora non ce l’hanno fatta. Gli ucraini hanno issato la loro bandiera sui resti carbonizzati della torre di controllo, dopodiché si sono rintanati sottoterra, nei tunnel della metropolitana: “Cyborg”, così li hanno ribattezzati i miliziani. Il compito ingrato di stanarli è stato affidato al più leggendario tra i comandanti ribelli, il mitico colonnello Givi, già trionfatore nella battaglia di Ilovaisk, una delle figure più interessanti di questa sanguinosa guerra. Alto, segaligno, ciuffo sbarazzino, sigaretta perennemente accesa tra le labbra. La sera puoi incontrarlo tra i tavolini dell’hotel Ramada, l’unico cinque stelle rimasto aperto in città: lo vedi seduto in un angolo, assieme ai suoi luogotenenti, il braccio sul bracciolo di una poltrona, un drink in mano, il kalashnikov appoggiato in mezzo alle gambe. Di lui non si sa quasi nulla, se non che ha 35 anni e non è mai stato sposato, che ama le belle donne e le auto di lusso. La propaganda separatista lo descrive come un ex operaio del Donbass, i cui sani sentimenti patriottici lo avrebbero spinto a imbracciare il fucile. Il suo inconfondibile accento caucasico, tuttavia, oltre alle innegabili doti strategiche con le quali dirige le truppe, rende tale ipotesi piuttosto improbabile. Sul suo conto circolano numerose leggende. Si dice che abbia un suo prigioniero personale, catturato durante uno dei primi assalti all’aeroporto: vi si sarebbe così affezionato che avrebbe deciso di tenerlo sempre con sé nel suo quartier generale, a meno di trecento metri dalla linea di fuoco. Lo tratterebbe con grande cortesia, rimpinzandolo di cibo, alcol e sigarette, invitandolo a bordo del suo Suv per le strade di Donetsk e catechizzandolo sulle atrocità commesse dall’esercito di Kiev.
E’ una strana guerra, quella del Donbass. Le prime linee distano dal centro cittadino non più di cinque chilometri. Eppure, nelle vie di Donetsk, la vita sembra scorrere regolarmente: i negozi sono aperti, si stampano giornali, qualcuno riesce persino a fare jogging. Tutto questo fino alle dieci di sera, quando scatta il coprifuoco: i miliziani sono autorizzati a sparare sui contravventori, e talvolta non esitano a farlo. “La battaglia per l’aeroporto è ormai vinta – ha dichiarato, durante una blindatissima conferenza stampa, il leader della repubblica autoproclamata, Alexander Zakharchenko – Ben presto le nostre fabbriche riprenderanno a funzionare, esporteremo nuovi beni verso la Russia e ricominceremo a distribuire le pensioni”.
E’ una profezia di normalità che trova pochi riscontri nella vita quotidiana: gran parte della popolazione è ridotta alla fame. A Lugansk non c’è più né acqua né elettricità. La gente è costretta a cucinare all’aperto, bruciando legna e carbone agli angoli delle strade.
[**Video_box_2**]Al quartier generale ribelle di Stakhanov, a metà strada tra Donetsk e Lugansk, gli ufficiali dei miliziani si nutrono collettivamente, pescando a turno molliche di pane secco da un piccolo scatolone appoggiato in mezzo a un tavolo. Non ci sono docce: solo un decrepito lavandino incrostato, la cui acqua giallognola è imbevibile. Ma nessuno ha intenzione di arrendersi. “A maggio il popolo del Donbass ha espresso la propria volontà di indipendenza – racconta Yura, uno dei graduati di Stakhanov – Ci sono stati due referendum, a Donetsk e a Lugansk. Nel primo i separatisti hanno ottenuto l’89 per cento delle preferenze, nel secondo hanno superato la soglia del 96. Kiev non vuole rassegnarsi, perché la nostra è una regione ricca di carbone e materie prime. Ma finché avremo la forza di farlo, noi continueremo a sparare”.
Antaj ha 25 anni, è nato a Kiev e milita in una organizzazione comunista. In tempo di pace faceva l’ingegnere informatico: i suoi genitori lo credono a Mosca, a fare ricerca all’università. Invece è partito di nascosto, si è infilato su un autobus, ha attraversato varie frontiere, ed è arrivato fin qui, sognando le glorie di una nuova guerra di Spagna. “Mi aspettavo un conflitto ideologico – sorride – ma mi sbagliavo. Questo è un conflitto etnico. I nostri sono quasi tutti operai e minatori, ma ciò che li unisce non è la coscienza di classe: è l’identità russa”. Impossibile dargli torto. Sulle mura della caserma di Donetsk, accanto all’effigie di Lenin, sventola la bandiera dei cosacchi: è rossa, con il volto di Cristo ricamato nel mezzo. Le trincee abbandonate, da una parte e dall’altra, sono piene di icone e immaginette sacre; tutti i soldati, prima di andare in linea, si fanno il segno della croce. Questa non è la nuova Unione sovietica, è la vecchia madre Russia, con il suo corollario di slogan imperiali, di pope arcigni in tonaca nera, di cavalieri del Don e insegne zariste. Il socialismo – per questi enormi lavoratori dalle mani callose – è un concetto impalpabile e vagamente mistico, che ha molto più a che fare col mito bellicoso dell’espansionismo sovietico, coi carri armati di Zukov e di Stalin, che con i diritti degli operai e le conquiste sindacali.
Alla guerra guerreggiata fa da contraltare lo scontro mediatico. La propaganda di Kiev parla di torture e incarcerazioni di massa, quella di Donetsk annuncia il ritrovamento di fosse comuni, nelle zone recentemente “liberate” a sud del capoluogo regionale. In molti, tra i combattenti del Donbass, confidano in un prossimo intervento di Mosca: hanno già disegnato le nuove cartine geografiche, con la neonata repubblica che si espande ben oltre i suoi attuali confini, da Kharkov alla Transnistria, passando per Odessa e Mariupol’. Dalla Russia per ora sono arrivate soltanto armi e munizioni. E poi, camion di cibo, vestiti, medicine, e tonnellate di sigarette, le terribili Kozak senza filtro. “Sappiamo cavarcela da soli, non abbiamo bisogno di nessun aiuto – giura il comandante Nikolai Kotsizyn, leader dei cosacchi del Donbass – Il presidente Obama dice che siamo terroristi? La Nato condanna le nostre azioni? Benissimo: che vengano a dircelo in faccia, questi signori. Sapremo bene come farci rispettare”. Presto questo slancio donchisciottesco dovrà fare i conti con il rigore dell’inverno orientale, che sta per abbattersi sia sugli Skorpio sia sugli Artyom.
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