Altro che populisti. La Commissione Ue è in panne
Juncker eletto, la lettera per l’Italia, in Parlamento si incrina la Grande coalizione. Ieri ha concesso la fiducia alla Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker: ma dietro i 423 voti ottenuti dalla squadra dell’ex premier lussemburghese si nasconde un rischio per l’Unione.
Strasburgo. Il Parlamento europeo ieri ha concesso la sua fiducia alla Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker, ma dietro i 423 voti ottenuti dalla squadra dell’ex premier lussemburghese si nasconde un rischio per l’Unione: sotto il peso della crisi della zona euro, il “Brussels consensus” che ha governato l’Europa nell’ultimo trentennio si sta sgretolando. A minacciare il funzionamento delle istituzioni non sono gli euroscettici e gli eurofobi che hanno fatto i titoli dei giornali all’indomani delle elezioni europee del 25 maggio. “Ritengo che ci sia una maggioranza sufficiente per lavorare in buone condizioni”, ha detto Juncker dopo il voto. I 150 anti-europei di estrema destra ed estrema sinistra dell’Europarlamento non sono in grado di paralizzare alcunché. Ma il numero di “sì” alla Commissione Juncker e l’odissea che ha portato alla formazione del prossimo esecutivo comunitario mostrano che la grande coalizione tra popolari, socialisti e liberali è molto più fragile che in passato e più divisa che mai sulle politiche da condurre nell’Ue.
Come in luglio, al momento della sua designazione alla presidenza della Commissione, Juncker ha ottenuto una sessantina di voti in meno dei 480 deputati che dovrebbero formare la grande coalizione tra popolari, socialisti e liberali. A disertare la “maggioranza Juncker” sono stati soprattutto socialisti spagnoli, portoghesi e francesi, ma anche laburisti britannici, liberali tedeschi e Ump francesi. E’ uno dei sintomi della radicalizzazione dei grandi partiti centristi tradizionali provocata dalla crisi: dalla sorveglianza sui bilanci nazionali al commercio internazionale, passando per l’allargamento e le politiche migratorie, si scatenano le passioni, i compromessi pragmatici si complicano e il comune denominatore europeo è sempre più minimo. Durante le audizioni dei commissari designati, invece di valutare le competenze, popolari e socialisti si sono lanciati in una presa d’ostaggi reciproca: i pro-austerità Jyrki Katainen e Valdis Dombrovksis sono stati liberati (e dunque approvati) solo dopo che i socialisti hanno avuto la certezza del via libera per il proflessibilità Pierre Moscovici. La commissaria al Commercio internazionale, Cecilia Malmström, ha rischiato una bocciatura per l’ostilità degli europarlamentari al Trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, e in particolare alle clausole per introdurre arbitrati internazionali in caso di conflitto tra investitori privati e stati. Poco sperimentati, i leader dei due principali gruppi – il tedesco Manfred Weber per i popolari, l’italiano Gianni Pittella per i socialisti&democratici – anziché tenere a bada le truppe, alimentano lo scontro ideologico a suon di minacce e dichiarazioni di guerra.
[**Video_box_2**]Servirebbe “un grande compromesso”, dice al Foglio Roberto Gualtieri, presidente della commissione Economica all’Europarlamento. Ma “non è una sfida semplice. Le tensioni nella formazione della Commissione, le audizioni, i franchi tiratori, le domande supplementari e gli attacchi ad alcuni commissari: tutto questo – dice Gualtieri – dimostra quanto sia difficile la sfida di costruire un baricentro e dare una sostanza politica al compromesso della grande coalizione”.
Il giudizio sulla legge di stabilità dell’Italia – ma anche sui progetti di bilancio di Francia, Austria, Slovenia e Malta – è indicativo dello stato non solo dentro l’Europarlamento, ma anche dentro la Commissione e tra i governi. Le lettere per constatare la possibilità di una “inosservanza particolarmente grave degli obblighi di politica di bilancio” sono pronte, ma nel pomeriggio di ieri non erano ancora partite. Si tratta di una “naturale” fase di negoziato che “suscita entusiasmo e passione” nel dibattito italiano, ha detto ironicamente Matteo Renzi per rispondere a chi sulla stampa paragonava il parere della Commissione a una bocciatura preventiva della manovra. Sempre parlando alla Camera, Renzi ha affermato che l’Italia sarà “custode inflessibile” della “promessa” di crescita incarnata da Juncker, promotore del piano di investimenti europei da 300 miliardi di euro di cui si parla da tempo, e al contempo non accetterà alcun “diktat” da Bruxelles. I deputati hanno votato “sì” alla risoluzione presentata dalla maggioranza sulle comunicazioni di Renzi, appoggiando dunque la linea governativa da tenere in sede europea. Juncker e il presidente della Commissione uscente, José Manuel Barroso, hanno cercato di trovare la quadra tra la necessità di preservare la credibilità del patto come chiede la Germania e l’obiettivo di evitare uno scontro politico maggiore con Italia e Francia. L’aritmetica dei numeri obbligherebbe la Commissione a chiedere a Roma e Parigi di riscrivere i progetti di bilancio per il 2015: Bruxelles vuole un aggiustamento strutturale almeno dello 0,5 per cento contro lo 0,1 annunciato dall’Italia e lo 0,2 promesso dalla Francia. Ma la ragion politica consiglia di trattare la questione con i guanti di velluto, in attesa che i capi di stato e di governo si riuniscano per il loro Vertice di oggi e domani a Bruxelles e risolvano la disputa.
Parla Gualtieri, l’uomo del Pd in Europa
Sulla politica economica, Gualtieri auspica un “Jackson Hole consensus” ispirato dal discorso di agosto del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: “L’idea di un policy mix in cui ci siano riforme strutturali e consolidamento affianco a investimenti, attenzione al sociale e flessibilità”. Nel suo discorso di ieri, Juncker ha tentato una sintesi contraddittoria. Sul Patto di stabilità “non ci saranno svolte drastiche”, perché le regole “non si cambiano” ma “verranno interpretate con quel margine di flessibilità consentito dai testi giuridici”. Il futuro presidente della Commissione ha sottolineato che “l’austerità eccessiva non può rivitalizzare i mercati e le economie”, ma ha anche aggiunto che “il deficit e il debito non portano a crescita nel lungo periodo”, perché “se fosse così i paesi europei dovrebbero crescere moltissimo”. Juncker ha riconosciuto che l’Europa è “in panne di investimenti”, ha annunciato di voler anticipare il suo piano da 300 miliardi a Natale, ma ha specificato che “non potrà essere fondato sull'accumulo di debiti”, mentre non ha dato dettagli sull’origine delle risorse. Per Juncker, la sua Commissione è quella “dell’ultima chance”. Ma la fine del “Brussels consensus” potrebbe portare all’immobilismo.
Una versione più ampia dell'articolo è disponibile sul Foglio di oggi, giovedì 23 ottobre.
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