Susanna Camusso (foto LaPresse)

La piazza di Susanna d'Arco

Stefano Di Michele

La Cgil della Camusso ha ancora forza e voce, ma non sa che farci. Lei minaccia e arringa, il giovin Renzi la riceve sul ballatoio e corteggia il focoso Landini. Ritratto di signora tostissima e inattuale.

Chissà se domani, quando avrà davanti la spianata di San Giovanni, con filari di bandiere rosse e gran folla da memorabile occasione – certificata da apposito premuroso sondaggio, col solito stratosferico conteggio di pullman in viaggio, “stiamo cercando autobus in altre nazioni”, nientemeno, treni prenotati, navigli già in acqua – le verrà in mente Leonardo di fronte alle nuvole, “corpi senza superficie”. La sua Cgil, rossa e immensa, è adesso simile alle terre del Mazzarò di Verga, che pareva “fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra” – tanta, visibile e invisibile, a perdita d’occhio, dall’uliveto ai pascoli lontani e oltre, che tutti a farsene meraviglia e quasi invidia. In fondo, però, tutta roba inutile. Terra sotto il sole e sotto l’acqua, e basta. Susanna Camusso è una donna intelligente, che fa quel che sa – signora di un mondo di storie e glorie, soprattutto di carne e ossa. E’ l’unico, ultimo vero capo sindacale rimasto sulla piazza, quello dell’antico conio che diede le stimmate a Di Vittorio e a Lama – ogni altro, in fondo, dal più accomodante al più scapestrato, figurina di teatro, da scena di massa, voce indistinta tra voci altrui. Ha una sua sapienza, ha una sua misura, quasi una sua fede, Susanna Camusso. Non è, per capirsi, un Landini tuonante da ogni strapuntino televisivo, il brivido felino del rivoluzionario a cena, sapesse contessa!, con maglietta della salute a vista sotto la camicia – e mica per caso, quando va a comprare libri, Renzi un manufatto di Landini si mette sottobraccio, lo fotografa e poi lo invia al globo terracqueo circostante. Empatia, singolare eppure comprensibile: ognuno nella sua parte, un fondo paradossale di riconoscimento – tra il traslocatore dell’articolo 18 e l’hombre Fiom che barricate promette. Che poi, a pensarci, sono esattamente – Renzi e Landini – i due principali avversari politici e mediatici di Susanna, che dal palco rimira la sua distesa rigogliosa e invenduta, né edificabile né (con profitto) coltivabile.

 

Non c’è certo l’epica dell’ultima battaglia, nella San Giovanni di rosso bardata, che attende la folla camussiana. Semplicemente perché l’ultima battaglia è stata ormai persa. Solo un gigantesco esercito che forse lotta a vuoto, o forse soprattutto si commemora. L’ultima battaglia è stata persa quando, di fronte alla potenza delle armate della Cgil – armate che tremare il mondo facevano: il Cav. arretrò, D’Alema s’impantanò, Prodi si sfilò, Veltroni si associò, Ciampi trattò – Renzi si è messo a fare alzate di spalle, battute da liceo di Pontassieve, sfottò degni di stare appaiati a quelli del suo compaesano Paolo Hendel (che per la Cgil ha fatto apposito cinegiornale renziano da agenzia Stefani). Non si è opposto evocando nuove ragioni contro nobili ragioni di Corso d’Italia. Non ha mostrato la faccia disperata davanti alle inevitabili decisioni. Non si è palesato curvo sotto il peso della sfida. Nemmeno la faccia di circostanza ha fatto, lo screanzato. Anzi. “Il 25 non è finita”, dice Susanna sperando che la lotta sia come il viaggio per Itaca di Kavafis, “devi augurarti che la strada sia lunga / fertile in avventure e in esperienze”. Macché. “Ce ne faremo una ragione”, replica Renzi, più o meno come se gli avessero comunicato che Della Valle si è lamentato di lui. Prima di procedere alla sconsacrazione dell’articolo 18, proprio alla sconsacrazione della Cgil il premier si è applicato. Una continua, pubblica, ostentata sottovalutazione di tanta forza, di tanto ardore, di tante masse. In ogni gesto, in ogni parola. Persino il rito sempre irrisolutivo e sempre affollato come tram nell’ora di punta della “convocazione delle parti” a Palazzo Chigi – nessun governante si è mai sottratto, fosse democristiano o post comunista o berlusconiano o banchiere in trasferta: quei tavoloni da fiera, quella claustrofobia da U-Boot, quell’attrupparsi di facce sconosciute su precarie file di sedie – ha negato ai sindacati. Li ha fatti venire e li ha messi fuori nel giro di un’ora, confinati nel suo backstage. Senza solennità, in tutta provvisorietà, un disbrigo formale al cui confronto l’accoglienza a Oprah Winfrey sembrava una visita di stato. “Ci ha accolto sul ballatoio”, ha mormorato la Camusso. Che dato il rapido svolgimento, ha evocato “un’ora sola ti vorrei”, volendo ironizzare. E quell’altro, impudente e musicalmente ferrato, ha risposto sulle note di Bennato, “una settimana un giorno solamente un’ora / a volte valgono una vita intera”.

 

[**Video_box_2**]Così, facendo finta di non vedere la Cgil, Renzi – genere film di fantascienza con esortazioni tipo: vai con la forza del pensiero! – l’ha attraversata. L’ha lasciata interdetta. L’ha mutata nei possedimenti di Don Mazzarò. Come Borges che diceva che gli animali sono immortali perché non sanno della morte, così Renzi ha vinto a tavolino solo perché ha fatto (e fa) finta di non sapere della sua forza. Da visibile in invisibile, da temuta a ignorata. Un approccio quasi vicino all’indifferenza – l’arma di distruzione politica di massa. Con micidiale cinismo, il capo del governo (e capo del partito alla Cgil più legato) prova a spintonare il suo più potente avversario sociale nel cantone, in quella sorta di salotto di Nonna Speranza dove accatasta e ricopre di polvere mediatica i suoi avversari, D’Alema e Bindi e Bersani, “Loreto impagliato e il busto d’Alfieri”. “Attorno a Renzi c’è culto della personalità”, si lamentò Susanna. Come Franti, quell’infame sorrise: “Si tratta di una delle cose più carine degli ultimi anni”. Mai la sinistra (diciamo sinistra) così forte, mai la Cgil così debole. Imponente – in iscritti, capacità di mobilitazione, transumanze di genti – e impotente. Susanna Camusso, va da sé, è ottimo segretario generale. Ha quell’assennatezza e quella, si potrebbe dire, moderazione di fondo, ragionevolezza sostanziale oltre il gioco delle parti, che era la stessa, in altri contesti, di Di Vittorio e Lama. Persino se parla di giovanili canne, adesso la Camusso ammette di averle provate, “alla fine del liceo, ma ho smesso rapidamente, e mai a scuola” – solo dopo la campanella, con giudiziosa trasgressione. Soltanto che allora nessuno, neppure Agnelli, neppure i feroci padroni del Dopoguerra, gente culo e camicia con gli stessi celerini (con i capi dei) maneschi di allora, osavano sottovalutare la forza della Cgil. Renzi sì. O forse, nessuno osava provarne la debolezza. Renzi sì. Le passa vicino con gioviale indifferenza – quasi come i delfini al mare, di cui a volte Susanna racconta.

 

Detta la Caparbia, ai suoi esordi. “Sono sindacalista, il mestiere più bello del mondo”. “Riformista e cazzuta”, dicevano i confindustriali. Passò alla Fiom – ma con la Fiom rapporti sempre complessi. “Non sono mai stato d’accordo con lei su qualcosa”, assicurava Giorgio Cremaschi. Sempre l’accusa di troppa moderazione, sempre il sospetto di eccesso di riformismo. Ma la Caparbia – tra l’una e l’altra delle molte Camel, la suoneria del cellulare che le regala qualcosa di Bob Dylan, mai un filo di trucco, cotonatura da preside di provincia – si trova a suo agio con l’esercito nemico schierato, il campo di battaglia aperto, il vento che smuove le sue e le altrui bandiere. Nulla di tutto questo è stato concesso dal giovin Renzi che fa gli occhi dolci al focoso Landini – che piuttosto, con regole e risiko tutto suo, è corso al traguardo, si è afferrato al premio finale quasi senza degnare di un’occhiata (un’ora appena, di più non ti vorrei) i rumoreggianti contendenti. Mica lo ha discusso, il Jobs Act: lo ha annunciato, quasi a cantilena, come i camerieri col menù nelle pizzerie a ora tarda. Lei lo paragona alla Thatcher – quello si monta la testa e si assegna le Falkland dove orgogliosa sventolava la bandiera Cgil. E mette là ottocentomila posti, getta nella mischia video irriverenti sul bordo finestra dello studio, buona grazia che non mandi un saluto con selfie e boccuccia a “Carmelita Smack” della sua amica Barbara D’Urso. Sarà un successo a San Giovanni, sicuro – lavoratori e lavoratrici, donne e uomini, giovani e pensionati, così che Renzi si è fatto pure scappare uno stitico “profondo rispetto” per l’evento. E poi, arrotolate le bandiere, silenziati i comici, mentre tacciono i tamburi e mille e mille pullman fanno marcia indietro, e si defilano silenti i parlamentari del Pd della minoranza, anime vaganti del vorrei ma non posso, poi che cosa? Come l’Iguana della favola di Anna Maria Ortese è oggi la Cgil: ad alcuni pare mirabile celestiale creatura, ad altri quasi solo primitivo mostro. Servirebbero nuove lenti, forse. E soprattutto, i nemici perfetti dei giorni belli.

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