“Cari Neri Non Americani, quando fate la scelta di venire in America, diventate neri. Chiusa la discussione. Smettetela di dire sono giamaicano o ghanese. All’America non interessa”

Ciò che non saremo

Annalena Benini

Lagos andata e ritorno: la forza di riconoscere le proprie radici a New York. Ma anche a Roma, se vieni da Ferrara e hai provato a infiltrarti con l’inganno. “Americanah” è l’ultimo romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana tradotta in Italia da Einaudi.

Un giorno senti il cemento nell’anima. Va tutto bene, i giorni brutti sono lontanissimi, hai imparato anche i tic del posto che ti ha accolto, che sognavi e volevi intensamente conquistare, te ne sei servita, lo hai preso in giro, a volte, l’hai amato, compreso, hai lasciato che ti toccasse e ti cambiasse le parole, ti piegasse l’accento. Ma l’hai fatto sempre come chi sta alla finestra e guarda fuori. Non possiederai mai interamente il mondo nuovo che hai scelto, certo non con la naturalezza con cui si possiedono le pareti della propria stanza, da bambini, con gli adesivi attaccati sul muro e i rumori della cucina, sempre gli stessi, e il fastidio per ciò che si conosce. Quando comincia a sentire il cemento nell’anima, Ifemelu decide di lasciare l’America e tornare in Nigeria. Perché vuole essere di nuovo quello che è, anche se addosso ha quello che in dieci anni è diventata. Una blogger di successo, con fidanzati americani ricchi, progressisti, civilissimi e mansueti, quindi non più in fondo alla scala sociale: una ragazza nera ammessa al sacro circolo americano di Princeton, che ha imparato subito a dire “Tutto bene?”, invece di “Mi dispiace” quando qualcuno inciampa, cade, si ammala, si strozza con il cibo. Tutto bene? Anche se è ovvio che non va bene per niente. Ma se vuoi far parte di qualcosa che non ti appartiene, se vuoi che nessuno più ti guardi con gli occhi sbarrati, devi usare le parole adatte.

 

[**Video_box_2**]“Come va?”, senza aspettarsi una risposta. Si deve scoprire in fretta che cosa esiste, negli occhi degli altri, e che cosa bisogna cancellare, di sé: a Roma nei primi mesi ho cancellato con entusiasmo molti accenti sbagliati, emilianissimi, molte parole ferraresi incomprensibili, inesistenti nel vocabolario, parole di pessimo gusto, che pronunciavo con fiducia e scoprivo, dalla reazione di chi le riceveva, non avere alcun significato. Mi affrettavo a seppellirle, ad afferrarne in cambio di romane, per mostrare, intero, il mio desiderio di essere accolta, la gratitudine per essere stata liberata dalla provincia, dall’assenza di scelta. Quelle parole carbonare le riacquisto però appena torno a Ferrara o incontro qualcuno delle mie parti, e le pronuncio con il senso di qualcosa di proibito, che nessun altro deve ascoltare: sono parole come abbracci segreti, è la possibilità di non spiegarsi niente. In America, insieme alle parole inesistenti, all’enfasi da eliminare da ogni frase, Ifemelu ha scoperto che esiste la razza, e che lei è nera. “Cari Neri Non Americani, quando fate la scelta di venire in America, diventate neri. Chiusa la discussione. Smettetela di dire sono giamaicano o ghanese. All’America non interessa”. In questo bellissimo romanzo (“Americanah”, l’ultimo di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana tradotta in Italia da Einaudi), la formazione di una ragazza moderna, che ha lasciato Lagos, in Nigeria, perché la sua università è in sciopero (e perché New York potrebbe essere il paradiso, Times Square vista da Lagos sembra davvero il paradiso) passa attraverso l’abbandono, e poi la scoperta, della propria identità, di una pelle della taglia finalmente giusta per sé. La consapevolezza di quello che non si è passa per il dolore, il senso di inadeguatezza, la conflittuale attrazione per la bianchezza wasp, ma anche le incitazioni sfacciate a Michelle Obama perché lasci i suoi capelli afro naturali, li mostri al mondo almeno una volta come sono quando escono dalla testa, senza ricorrere ai liscianti che li fanno cadere, ai ferri che li strinano, a diversi tipi di capelli finti appiccicati in testa (ma Barack Obama, con una moglie dalla chioma lanosa, probabilmente perderebbe consenso). Succede a chi parte: tutto quello che sembrava normale, non lo è più. Molto di quello che sembra folle, è normalissimo: ci si ritrova, all’inizio, a vivere alla periferia della propria vita, sentendosi in dovere di dire: “Sono così eccitata!”, scrive Chimamanda/Ifemelu, eccitata per un nuovo libro, una lezione, un film (“Alcune delle espressioni che sentiva ogni giorno la lasciavano attonita, la frastornavano”, tutta quella eccitazione in giro, tutti quei punti esclamativi), ci si sforza, con un’intensità vicina alla disperazione, di capire quando bisogna ridere, e di che cosa si deve ridere: con la flessibilità e la fluidità della giovinezza si può imparare tutto, farsi entrare sotto la pelle anche il bowling, i vestiti senza forma, le arance senza semi e l’assenza di spugne.

 

Nessuna delle coinquiline di Ifemelu, a West Philadelphia, usa la spugna per fare la doccia, ed è proprio questo, l’assenza di spugne singole, a rendergliele irrimediabilmente aliene. Con quell’accento americano allenato negli anni che le metteva al riparo dalle incompresioni con i call center, con il servizio matricole, che rendeva più semplice trovare un lavoro per pagare l’università, o almeno evitare gli sguardi con le sopracciglia aggrottate. E’ incredibile quanto velocemente, poi, ci si trasformi in quelli che aggrottano le sopracciglia e ridono delle parole inadatte degli altri, del loro modo provinciale di vestirsi con cura per uscire il sabato pomeriggio (il messaggio è questo: “Siamo troppo superiori/impegnati/fighi/progressisti per preoccuparci di come ci vede la gente, e quindi possiamo andare a scuola in pigiama e al centro commerciale in mutande”, ma il sabato pomeriggio dell’altra vita, con le scarpe lucidate apposta e qualcosa addosso che sembrasse almeno quasi nuovo, e l’attesa continua del momento in cui cominciare a essere felici, è lì dietro l’angolo, e ci ricorda come eravamo, e anche quello che non siamo). Per una ragazza della Nigeria è più complicato: anche se nemmeno le commesse dei negozi cadranno mai nella trappola di indicare una collega, per distinguerla da un’altra, come quella “nera”, perché certe cose bisogna fingere di non notarle, Ifemelu ha sentito subito, e forte, quello che non era: non era bianca, e non viveva sulla scintillante superficie delle cose. Doveva accettare le domande idiote sull’Africa, lasciare che qualcuno le parlasse di un safari in Tanzania se diceva che veniva dalla Nigeria, soprattutto lasciare che le persone esercitassero su di lei il loro progressismo, la loro benevolenza e delicatezza (“che bel nome, ha qualche significato? Adoro i nomi multiculturali perché hanno bellissimi significati, tipici di queste culture meravigliosamente ricche”, dice a Ifemelu Kimberly, americana bionda e sottile in cerca di baby sitter per i figli, infelice senza riconoscerlo, convinta che la cultura fosse l’inconsueta riserva colorata di gente colorata, “un concetto da accompagnare sempre con l’aggettivo ‘ricca’. Della Norvegia non avrebbe mai pensato che avesse una cultura ‘ricca’”. Ifemelu, che sta come alla finestra a guardare fuori, anche mentre cerca di entrare nel mondo che ha scelto, riesce a ridere di chi le chiede: “Come fate in Africa a vivere con meno di un dollaro al giorno?”, smaschera con ironia la superficialità e gli stereotipi dei rapporti fra mondi diversi, fra colori diversi, ma non soltanto dalla parte delle ragazze nigeriane che scappano dalla sonnacchiosa assenza di scelta delle proprie città avvolte in tubi di scappamento, profumi floreali e generatori elettrici (sognando la casa de “I Robinson” e finendo di solito in topaie con le finestre che guardano un muro di mattoni). Lo fa prendendo in giro se stessa e i propri finti calorosi sorrisi che devono offrire l’impressione di una giovane africana grata per le opportunità regalate dall’America, il velocissimo cambio di gusto estetico che la porta a trovare orribili le case color salmone dei ricchi generali del suo paese, con angeli di alabastro a guardia del cancello, case che pochi anni prima le sembravano bellissime, e a non riuscire più a respirare l’umidità africana senza aria condizionata (“Ormai sono diventata quel genere di persona che apprezza le travi a vista”). Prima di andare via si possiede un’identità, anche incompleta, si occupa un posto preciso, dato dalla propria famiglia, dalla scuola, dagli amici. Può essere anche un posto confortevole, in cui si sta comodissimi, ma a un certo punto si soffoca. E’ giusto soffocare, se non si soffocasse non si cercherebbe mai niente di diverso. Ma quando si va via, l’identità è perduta. Non si è più niente, almeno per un po’. Bisogna ricostruire, adeguarsi, e non far notare la goffaggine.

 

 

Per molti mesi, forse anni, dopo che sono arrivata a Roma, a piedi sui marciapiedi, o per le strade in motorino, su Ponte Garibaldi, mi sono voltata verso ogni clacson che suonava (non proprio a tutti, solo quelli che suonavano nel modo in cui ero abituata a sentirli a Ferrara). A Ferrara, se qualcuno di abbastanza vicino suonava il clacson non così forte da assordare, ma solo un colpetto per farsi sentire, era perché ci conoscevamo, dovevamo salutarci, accordarci per la sera, o comunicare l’ultimo impercettibile movimento avvenuto in città nelle ultime ore. Così anche a Roma mi voltavo di istinto, pronta a dire ciao, e ovviamente nessuno mi stava salutando, del resto conoscevo pochissime persone, anzi credo che in tredici anni nessuno abbia mai suonato un clacson per salutarmi, al massimo per dire: spostati. E ogni volta che un tassista, un barista, uno sconosciuto, una cassiera, un amministratore di condominio, o qualcuno che avevo disperatamente cercato di conoscere diceva: “Ma tu non sei di Roma”, mi sentivo sbugiardata. Un’intrusa, un’infiltrata, anzi una turista, una che cercava di mescolarsi con l’inganno, succhiare vita alla capitale, ma sarebbe presto tornata alla vita sonnolenta e altezzosa della provincia, con quell’accento, quelle vocali chiuse o aperte sempre nel momento sbagliato. La voce sbagliata. Ma era, in realtà, sbagliata soltanto per me. Zadie Smith, scrittrice inglese di madre giamaicana, ha scritto un romanzo intitolato “NW”, come il quartiere North West di Londra in cui è nata, e che le ha regalato la voce colorata (e proletaria) che si è tolta di dosso, poi, studiando Letteratura inglese a Cambridge e imparando un inglese perfetto (“allora ero sinceramente convinta che questa fosse la voce del mondo della cultura”), perché voleva piacere, cambiare, venire accolta in un altro mondo, di cui poi è diventata la regina. Ce l’ha fatta, ma ha perso la voce del proprio punto di partenza, l’ha recuperata scrivendoci sopra un libro molto duro con le aspirazioni e con la realtà, e chiedendosi, attraverso i suoi personaggi, che cosa si diventa e che cosa si perde, andando via (“Non capisco perché ho questa vita”. “Perché noi abbiamo lavorato di più”). Ci si mescola, si lavora, nel caso di “Americanah” si ride con il proprio fidanzato bianco e solare, scherzando sul giorno di un futuro e possibile matrimonio, quando i parenti inorriditi di lui si domanderanno, sussurrando tra loro, “perché l’abito della sposa lo indossi la domestica”. Poi arriva il cemento nell’anima: quella cosa che ti fa venire voglia di tornare a casa. Dopo avere visto com’è, il paradiso che non può mai essere davvero un paradiso, dopo avere esercitato al massimo delle forze la possibilità di scelta e imparato tutti i trucchi per stare bene dentro un’altra pelle (anche se la protagonista di “Americanah” decide di rinunciare presto alla cadenza americana artefatta, e ricomincia a parlare inglese come in Nigeria, suscitando così anche il sospetto delle parrucchiere africane, che misurano l’ascesa sociale di una ragazza dall’accento americano), arriva qualcosa che assomiglia alla necessità di non dare più spiegazioni, e di tornare nell’unico posto dove affondare le radici “senza il bisogno costante di tirarle fuori e scrollare via la terra”. Anche il bisogno di reincontrare il primo amore, quello con cui lei non avrebbe passato il tempo a parlare di differenze culturali, perché lui le conosceva già tutte, possedendole. E allora il cemento diventa la conoscenza completa di sé: dopo il panico, la speranza, la solitudine e l’approvazione sulla nuova pelle, arriva il bisogno di riascoltare la propria voce, e ricominciare da lì (il romanzo inizia con Ifemelu che aspetta il treno, a Princeton, per andare a farsi le treccine prima di tornare in Nigeria). Non sempre il cemento nell’anima significa, però, che bisogna tornare. Non sempre le storie devono continuare dove sono cominciate. Anche a questo serve lo struggimento, a non tornare indietro, ma a pensare con dolcezza a quello che si è perduto, a dondolarsi su una parola, su un tratto di mare, sul pensiero di una piazza. Stando saldamente piantati da un’altra parte, con addosso per sempre quel misto di panico e speranza. Magari dopo aver superato l’affanno dell’adeguamento, la paura di essere considerati intrusi. A Roma i primi anni fingevo un’aria annoiata, perfino, mi sembrava più adatta, mentre in realtà mi stupivo di tutto, e anche adesso fotografo la città con il telefono, mentre cammino, e mi piace tantissimo guardare le persone che lo fanno, di giorno e di notte, tutti i turisti possibili, e anzi passo molto vicina perché spero di entrare in quelle fotografie per sbaglio: è la prova che io sono qui.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.