A ciascuno il suo santo
C’è un critico musicale, come Paolo Isotta, che crede nei miracoli di san Gennaro: perché certi culti non tramontano. Viaggio nei cieli infiniti della devozione popolare. Dove a volte la chiesa frena, i fedeli accelerano. Declassata la festa del patrono, una mano scrisse: “San Gennà, futtetenne!”.
Che si scapicolli dalla Vespa (senza casco) o che sfugga alla temibile iettatrice, così “non morii di un lento, atroce morbo”, Paolo Isotta non ha dubbi: è san Gennaro che provvede. Che sfugga al drogato rapinatore napoletano, “te spar’ nt ’e cosce!”, o al rischioso investimento su strada milanese, oppure che vinca un provvidenziale, in termini di pecunia, premio letterario, non si discute: è san Gennaro che opera. Sempre così: “Il Santo mi aveva avvolto (accuommogliato) nel suo paterno manto salvandomi”. Allora Isotta piglia e va a Pozzuoli, là dove la capoccia del santo prese il volo, a ringraziare e a far visita, “giacché so che un guaio è qualcosa mandatomi da lui per farmi pagare dieci a petto del cento che mi ha evitato”. Sorta di santissimo e benemerito pizzo, a fronte della più complessiva sciagura che poteva accadere. Deve essere, il fenomenale Isotta, in stretta consonanza col santo, a sua edificazione e a sua protezione, né più né meno che quell’altro fenomenale Massimo Troisi, che sostegno e indirizzo esortava nel famoso sketch (averla un’altra parola: scenetta?) televisivo, “e io nun te l’avess’ ’a ripetere neppure… tu lo sai, io so cliente ccà…”. E’ cliente, diciamo, buonissimo cliente, Paolino Isotta. Affezionatissimo – come pure Troisi lo era, “me vuleva ’a chiesa affianco San Gennà… ma io aggio ditto, ma pecché, io mi trovo bene là, San Gennaro nun me fa mancare niente, mi tratta bene…”. Certo, Isotta a san Gennaro dà il suo bel da fare, non c’è dubbio. Percorre instancabile, il santo, l’arcipelago di pagine del suo ultimo libro – quel fascinoso e irritante e sublime, pertanto imperdibile, “La virtù dell’elefante” (Marsilio), che non a caso ha per sottotitolo: “La musica, i libri, gli amici e San Gennaro”, e appunto e solo per celeste intercessione, or ora appena uscito, s’impenna sulle classifiche e fa esultare il fedele e lo scrittore, “in meno di quindici giorni (miracolo di San Gennaro!) è arrivato alla terza edizione”. In buona compagnia, e in opportuna colleganza, da Padre Pio a sant’Antonio, da san Francesco a santa Patrizia, ma pure “Santa Teresa del Bambin Gesù, sebbene non immensa come quella d’Avila, è una bella Santa” – e sempre soprattutto san Gennaro, che mai tregua concede ma neppure tregua si prende, “mi ha fatto ancora un immenso miracolo: da una decina d’anni a questa volta m’ha insegnato il valore della tolleranza che prima non ho mai molto praticata”, così che tra i santi del critico musicale con largo azzardo figura pure Ipazia, matematica e filosofa pagana ammazzata dai fanatici cristiani – essendo che il poeta Mario Luzi l’aveva cara, e caro aveva, il poeta, il critico musicale.
Ma cosa non può, san Gennaro – che vede e lesto provvede! C’è persino apposito capitolo, quasi come ex voto figura, col presente tema a motivazione: “San Gennaro mi guida per i labirinti del ‘Corriere’” – molto meglio assai, ma tanto assai, di un terreno ci/di/erre, di un dirigente effe/enne/esse/i, più solerte del pur ammirato direttore De Bortoli. Il nemico stesso, “chi amico non mi è stato”, dice Paolino Isotta, nella casistica rientra, “essendo anch’egli stato mosso dalla mano di San Gennaro nel fare il mio bene”, e pure quelli che il libro – sorprendente perché “voglio fare il bassissimo imbonitore di me medesimo” – hanno rifiutato volendo volare alto, ma alto parecchio, senza manco un occhio ai vispi cessi napoletani, “da Lei ci aspettavamo dei saggi musicali alati, alla Montaigne”, che pure Montaigne avrebbe sobbalzato, e così “nemmeno a San Gennaro sarebbe dato compiere un miracolo siffatto”. E pur non avendo Isotta a cognome Januario, come “le parenti di San Gennaro”, le femmine che vocianti e devote lo esortavano al miracolo, alla santa causa è decisamente votato. Esempio strepitoso, dal critico musicale, di quella che una volta si chiamava “devozione popolare”, o “religiosità popolare” – e “noi la chiamiamo volentieri pietà popolare, religione del popolo, piuttosto che religiosità”, ha scritto in un suo documento la Conferenza episcopale della Campania (diciamo il distretto più strettamente di pertinenza del san Gennaro così felicemente operante), citando Paolo VI.
E’ questa faccenda che sempre ha dato da fare alla chiesa. Con ammirazione – e qualche sospetto. Non ultimo, il caso delle processioni con povere Madonne in transumanza, tra scoppi e litanie, sospese e braccate magari davanti al portone di qualche discutibile concittadino, dove meglio sarebbe tirare dritti. Non c’è Papa che non se ne sia occupato – e a volte persino preoccupato. “Esiste un certo cristianesimo fatto di devozioni, proprio di un modo individuale e sentimentale di vivere la fede, che in realtà non corrisponde ad un’autentica ‘pietà popolare’”, ha detto Papa Francesco. Eppure, subito dopo ha evocato, a migliore comprensione, lo sguardo del Buon Pastore, “che non cerca di giudicare, ma di amare”. E così, “penso alla fede salda di quelle madri ai piedi del letto del figlio malato che si afferrano a un rosario anche se non sanno imbastire le frasi del Credo; o a tanta carica di speranza diffusa con una candela che si accende in un’umile dimora per chiedere aiuto a Maria, o in quegli sguardi di amore profondo a Cristo crocifisso”. E il suo predecessore, Papa Benedetto, aveva avvertito che “alcune forme deviate di religiosità popolare che, lungi dal favorire la partecipazione attiva nella Chiesa, creano confusione e possono favorire una pratica religiosa puramente esteriore e svincolata da una fede ben radicata e interiormente viva” – pur se certo, e ci mancherebbe, resta la pietà popolare “un grande patrimonio della Chiesa”, e se ben orientata favorisce “un fruttuoso incontro con Dio, un intenso culto per il Santissimo Sacramento, una sentita devozione alla Vergine Maria, un crescente affetto per il successore di Pietro…”. Saggi avvertimenti, opportune considerazioni. Pure, dove a volte la chiesa frena, i fedeli accelerano. E proprio così fu nel caso di san Gennaro, si legge nei due labirintici, fascinosi volumi “Santi d’Italia. Vita, leggende, iconografia, feste, patronati, culto” di Alfredo Cattabiani (Rizzoli). Dunque: “All’affievolimento del culto (peraltro da Isotta mai agevolato, anzi, ndr) ha contribuito il clima di desacralizzazione odierno e fors’anche la decisione della Chiesa di declassare, nel 1971, la festa del patrono a semplice memoria facoltativa. In quell’occasione una mano anonima tracciò a pennellate sulla porta del Duomo la scritta: ‘San Gennà, futtetenne!’”.
[**Video_box_2**]Le processioni, i pellegrinaggi, le devozioni ostentate, le statue ricoperte di monili o denaro, i gruppi troppo zelanti, le feste un filo paganeggianti, “con sperpero di denaro per il cantante famoso, e per i fuochi artificiali” – un insieme di cose, a volte simili, a volte contrastanti, che incrociano la fede e magari sfiorano la superstizione. La religiosità popolare, appunto, con cui da secoli la chiesa si confronta, e che – è Paolo VI che lo scrive nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi – “ha certamente i suoi limiti. E’ frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione, anzi, di superstizioni. Resta spesso a livello di manifestazioni culturali senza impegnare una autentica adesione della fede. Può anche portare alla formazione di sette e mettere in pericolo la vera comunità ecclesiale. Ma se ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori”. Nel documento dei presuli campani, “Norme per le feste religiose”, si annota che “le stesse processioni frequentemente si risolvono in estenuanti maratone di questuanti che offendono il decoro e il sacro e non sono certo segno di una Chiesa peregrinante”. E allora, almeno il minimo, rispetto all’abuso, “non è lecito attaccare denari alla statua che peraltro non può essere messa all’asta e trasportata dai migliori offerenti”, e pure “i cortei diretti ai santuari che ostentano stendardi religiosi coperti di denaro o che trasportano, danzando, trofei votivi sono proibiti. Come proibite sono le manifestazioni di isterismo che profanano il luogo sacro e impediscono la devota e decorosa celebrazione della liturgia” – e simili, opportuni altri avvertimenti. Però, attenzione: popolare – religiosità o pietà o devozione che sia. Non è proprio così scontato. Qualche anno fa, hanno esposto a Padova il corpo di sant’Antonio, “Santo dei Miracoli” – e allora facilmente s’intuisce il fervore (di fede, e di eccesso della stessa, intorno alla sua persona). Un’indagine (“Religiosità popolare nella società post-secolare”) sui duecentomila visitatori, con oltre duemila e settecento questionari raccolti dall’Osservatorio socio-religioso del Triveneto, dà risultati sorprendenti, rintracciabili su Famiglia Cristiana: due terzi dei partecipanti hanno un’età tra 30 e 59 anni, abbastanza giovane, e “più, e non meno istruiti, della popolazione italiana nel suo complesso, nelle rispettive classi di età (più 14-15 punti percentuali di laureti e diplomati), e dei cattolici praticanti (più 16-22 punti percentuali)”.
Del resto, pure quelle forme estreme, quasi arcaiche, tra vera fede e più prosaiche tradizioni, raccoglimento ed esaltazione insieme, sono parte della stessa identità italiana, persino ancora prima che cattolica. Le piazze con le sagre dove il concerto, magari del popolarissimo e vulcanico Gigione, tanto muove in eccitazione con la descrizione della locale lavoratrice, “che belli cosce / che tene ’a campagnola / ha fatt ’ammore / cu chelli cosce ’a fora”, quanto smuove in elevazione col più spirituale inno a Padre Pio, “che ci porta fino a Dio”. Identità letteraria, cinematografica, nonostante l’odierno trasporto per le monache canterine piuttosto che per il padre confessore. Pure Peppone, nei film con don Camillo, di nascosto dai compagni va ad accendere un grosso cero di ringraziamento al Cristo parlante che gli ha evitato il viaggio in Russia. La prostituta felliniana Cabiria, che con le sue colleghe si avventura in pellegrinaggio a chiedere una vita diversa alla Madonna del Divino Amore (e il pianto e le grida, il giorno dopo, perché la vita invece è rimasta sempre la stessa: d’ombra e di nulla); il Nino Manfredi di “Per grazia ricevuta” – “viva viva sant’Eusebio / salvatore dell’anima mia / viva viva sant’Eusebio / salvatore del mio cuor. / Quando infuria la tempesta / ed il tuono fa paura / in campagna o fra le mura / sant’Eusebio è qui con me…”; Monica Vitti che fugge sotto i colpi in “Polvere di stelle” – “santa Barbara, santa Beatrice / sarvace dar matto co’ la mitragliatrice!”. L’altro sant’Antonio, quello Abate, quello col maialino al fianco, invocato nelle stalle e tentato dal demonio, raffigurato da Flaubert (“La tentazione di sant’Antonio”) così come nei canti popolari, “bonasera bbona ggende / che vivete allegramente / ve salute sand’Andonie / prutettore condr’a lu demonie”.
I nonni che tornavano dalle fiere, tirandosi dietro dischi con canti (musicalmente non il massimo) che narravano vite di santi (considerate il massimo). E risuonano ancora nelle orecchie. Cose così: “A Pompei città dei pagani / la lussuria e il male regnavano / bestemmiavano il nome di Dio / tra le orge vivevano lì!”. (Che, insomma, l’ultima parte…). Oppure (e siamo a sant’Antonio, l’altro, quella di Padova): “Trentasei primavere ha vissuto / nel convento di Arcella moriva / e quella cella era piena di luce / era la luce di Nostro Signor!”. E ancora le zitelle che andavano a bussare al convento di San Francesco, a Palestrina: volevano una processione, col santo e il Cristo, per provare ad accaparrare un marito.
[**Video_box_2**]Il grande Paolo Poli, in scena, portò una santa Rita che fece scandalo – interrogazione parlamentare di 45 democristiani (uno in più dei gatti in fila per due col resto di tre), molto si infervorò Oscar Luigi Scalfaro – mentre certi fascisti annunciavano bombe: che poi in realtà era, quella di Poli, solo una grande celebrazione della santa, “ha fatto una vita battagliata, ha avuto figlioli: qualcuno non ha capito che nel mio ritratto c’era tanto affetto quanto parodia”. E l’attore raccontava di quel cameriere che al ristorante gli diceva: “Signor Paolo, il venerdì santo al mio paese c’era una processione meravigliosa”. E sa, il teatrante reso edotto da quella che chiama “nobiltà di coscia”, meglio di certi sommi teologi, il bene e la magia che queste forme devozionali rappresentavano: “Quelle erano gioie per il popolo. Pensa che scemi i preti a darsi la zappa sui piedi. Levare il canto gregoriano, le processioni, le statue, le madonne che piangono e i bambini vestiti da angiolini che buttavano petali, ma siamo pazzi… è gioia, è puro teatro!”. Tali e quali, in un’altra epoca – ora sepolta dalla modernità, dalla post modernità, da una sacralità un po’ castrata – apparivano (appunto come a teatro, come in scena con improbabili fondali) i politici di una volta, altro che Family day, panciuti democristiani, oppure ossuti, profumati o popolareschi, puttanieri o femminari o checche, il rosario e magari la cocaina, il peccato e il bacio all’anello vescovile, il doppiopetto in marcia davanti alla statua alta del santo patrono – e i bimbi che lanciano sorrisi e fiori al passaggio: al santo, al democristiano, mentre la banda del paese dietro al prete intona: “Siam peccatori, ma figli tuoi / Immacolata prega per noi…”. Teatro dentro il teatro. Fede con puro teatro.
Che poi, meglio la devozione al santo che all’oroscopo – fosse pure messa male la faccenda, cioè come superstizione contro superstizione. Coi secoli, tra devozione e pietà, processioni e litanie, una sorta di altra “Legenda aurea” – al di là di Jacopo da Varagine – ognuno si era costruito, figure e parole e omissioni proprie. Chi con san Gennaro, chi con sant’Antonio, chi con Padre Pio. Chi col crocifisso, chi col giglio, chi con l’agnello. Una sorta di amicale confidenza con la figura issata sull’altare. “’Nta sta jiasa c’è nu gran Santu / ci l’ha mandatu lu Spiritu Santu…”. In chiesa, o magari pure altrove. Senza stavolta mettere di mezzo san Gennaro, lo stesso una figura non meno spirituale rievoca Isotta narrando del cinema Colosseo, giù a Napoli – dove non precisamente per assistere allo spettacolo si andava. “Al Colosseo le cose più semplici si facevano sulle sedie stesse; per quelle più complesse c’erano tre vani cesso dove si consumava: una santa vecchia faceva la guardacessi e teneva la corona in mano dicendo il Rosario. ‘Salve Regina matra ’e misericordia… ’a terza è libbera, guagliò, può gghì… (la terza è libera, ragazzo, puoi andare)… vita dulcedo et spes nostra salve…”. Un santo a portata di mano, come una santa guardacessi, sempre con benevolenza soccorre. A consolare il corpo, a volte, mica solo a salvare lo spirito.
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