Matteo Renzi e Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

“First Italy!” con Renzi, e poi ripartire. Così fa una destra seria

Ferdinando Adornato

Una nuova visione politica per il centrodestra non verrà dall’area di centro affannata in fusioni di sopravvivenza, né dall’aggressivo “lepenismo degli stenterelli” di Salvini e affini. Ora  c’è un sostegno responsabile da dare al premier, e una “piattaforma 2018” da creare.

Nec sine te nec tecum vivere possum”. Difficile immaginare Silvio Berlusconi nelle vesti dell’agognata Corinna di Ovidio, eppure la celeberrima elegia-lamento del poeta romano descrive alla perfezione il tormentato rapporto tra il centrodestra, vecchio o nuovo che sia, e il Cavaliere. Senza la storia e i voti di Berlusconi non esisterebbe neanche il concetto di quell’area politica. Eppure è proprio la pervicace permanenza del  Cavaliere al comando a bloccare ogni possibile evoluzione, proprio mentre Renzi impone a tutti il ritmo della sua impetuosa cavalcata verso il futuro. Cosicché da tempo la comparazione risulta impietosa: da una parte una giovane sinistra riformista che, seppure in acque agitate, naviga a vele spiegate, dall’altra, una vecchia coalizione lacerata e scomposta che, come un leone braccato, ancora ruggisce ma in realtà cerca solo un rifugio per leccarsi le ferite.

 

Un veloce flashback. La storia non fa sconti né fa salti: va perciò ricordato che l’attuale palude non è il prodotto del famigerato destino cinico e baro, ma l’esito di tre fallimenti consecutivi. 1) L’occasione persa da Berlusconi, intorno al 2005, di dar corso alla propria stessa intuizione di far evolvere la Casa delle libertà in un vero partito liberal-democratico, ripiegando più avanti in una parodia, il Pdl, un nuovo (appena mascherato) contenitore “personale”. 2) Il manifesto velleitarismo di ogni ipotesi (da Fini ad Alfano) di superamento del berlusconismo attraverso una sfida con il Cavaliere sulla leadership. 3) Il tramonto di ogni “alternativa di centro” che, ove mai fosse stata possibile, è stata comunque resa impraticabile dall’arrogante e miope guida di Mario Monti e dal contestuale exploit di Beppe Grillo. Già inaridita da questi tre fallimenti, la terra del centrodestra è stata infine del tutto prosciugata dall’offensiva di Renzi che si è bevuto sia l’acqua del berlusconismo che quella del montismo, coniugando rigore e riforme proprio nell’ottica della “rivoluzione liberale”. E l’incertezza sulla possibilità che la sua impresa riesca o meno non altera il risultato fin qui già ottenuto dal premier: la fascinosa occupazione di cospicue aree elettorali del centro e della destra.

 

Non c’è dunque nulla da stupirsi di fronte all’impietosa fotografia di oggi: un concavo Berlusconi senza berlusconismo, l’inutile affannarsi dell’area di centro intorno a fusioni di pura sopravvivenza, l’aggressivo “lepenismo degli stenterelli” di Salvini & fratelli che, se sarà capace di regalare qualche punto in percentuale, non è certo in grado di offrire un progetto di governo né presente, né futuro. E’ del tutto comprensibile che, in questo quadro, prevalga la rassegnata tentazione di “chiudere per restauro” ogni commento e ogni progetto sul deserto chiamato centrodestra. Tanto che comincia persino a prender piede l’ipotesi che un’“alternativa a Renzi” possa nascere nel futuro soltanto all’interno della sua stessa area politica. Più d’uno, insomma, comincia a immaginare che il “nuovo Pd” si stia in realtà avviando a diventare una “nuova Dc”, perno centrale di un sistema politico cronicamente incapace di produrre autentiche competizioni bipolari. Può darsi che vada così, ma la personale renitenza ad ammettere che solo noi italiani, tra gli occidentali, saremmo inadeguati a vivere e governare una normale democrazia dell’alternanza, mi spinge a sperare che anche per il centrodestra non tutto sia perduto e che, perfino, tra le pagine scure dell’attualità si possa  immaginare qualche chance di futuro.

 

[**Video_box_2**]Bisognerebbe però abbandonare l’imperante miserabilismo delle tattichette e tornare a pensare in grande. Partendo da una considerazione di scenario: quel che accade oggi al centrodestra italiano non è affatto anomalo per le democrazie occidentali. E’ successo alla sinistra sotto la Thatcher, sotto Reagan, Kohl, Bush jr. E’ successo alla destra sotto Blair, Clinton e, ieri e oggi, sotto Obama. Quando un leader arriva a conquistare la profondità di consensi trasversali, produce inevitabilmente uno “straniamento” di tutta l’area avversa.  Apre, come si dice, un “ciclo” che in genere dura almeno otto anni. Tempi di frustrazione e di balbettii politici per chi si oppone, di traversate nel deserto appunto, all’ansiosa ricerca di nuove piattaforme politiche e di leader capaci di invertire la rotta. Quante volte l’abbiamo visto accadere? Chi non ricorda la psicologia “sconfittista”, la drammatica scomparsa dei conservatori nell’èra Blair o quella più recente dei repubblicani dopo la vittoria di Obama? Ebbene, è esattamente ciò che sta avvenendo al centrodestra con Renzi il quale, anche per i motivi già esposti, ha aperto un nuovo “ciclo” che può (sottolineo può, perché la nostra fragilità sistemica è ben nota) durare anche molti anni.

 

Se è così è inutile aggirarsi freneticamente nel deserto, vagheggiando oasi inesistenti. Bisogna piuttosto, munirsi di pazienza e attendere con lucidità la fine del ciclo renziano, predisponendo due strategie parallele. La prima è quella di sostenere comunque Renzi (dalla maggioranza o dall’opposizione in forme diverse) sapendo che (first Italy!) oggi il premier è davvero l’unica chance di tenuta del paese e capendo insieme che opporsi in modo pregiudiziale significherebbe  perdere definitivamente di credibilità nelle aree di centro e di destra che lo hanno votato. La seconda è quella di lavorare “sotto traccia” per disegnare il futuro: meno interviste e più laboratori di programma, meno polemiche pubbliche e più dialoghi privati, apertura di tavoli di confronto euro-italiani sull’economia, sulle istituzioni, sulla società, per elaborare una nuova piattaforma “2018”. Così si fa negli altri paesi per preparare la rivincita. Prevengo l’obiezione: non è questa l’aria che tira, Berlusconi & co. non ci pensano nemmeno. Lo so: non a caso ho premesso che ogni progetto è paralizzato dal “fattore Ovidio”. Ma ciò non significa che siamo tutti obbligati a smettere di pensare. O rassegnarci a rinunciare a un centrodestra competitivo. Del resto, non è affatto detto che tocchi alle attuali leadership risolvere la malattia del centrodestra. La storia è più lunga e più astuta di ogni  calcolo personale o di breve periodo. E già la prossima legge elettorale, probabilmente seguita dall’elezione del nuovo capo dello stato, forse comincerà a cambiare le carte in tavola.

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