La capitale economica del Brasile vota compatta contro Dilma Rousseff
Il paese si prepara al ventennio lulista e la Borsa di San Paolo accoglie la notizia con un tonfo del 6 per cento, poi ridotto al 4 per cento. Il real si deprezza e tocca il valore minimo dal 2008 rispetto al dollaro.
Roma. Il Brasile si prepara al ventennio lulista e la Borsa di San Paolo accoglie la notizia con un tonfo del 6 per cento, poi ridotto al 4 per cento. Il real si deprezza e tocca il valore minimo dal 2008 rispetto al dollaro. E le azioni di Petrobras, industria statale del petrolio, la più grande impresa pubblica dell’America latina al centro di uno scandalo per mazzette, perdono il 10 per cento in un giorno.
La conferma per un soffio di Dilma Rousseff, del Partito dei lavoratori (Pt), alla presidenza del Brasile, era il tassello necessario all’ardita costruzione dell’ex presidente Lula da Silva: gestire il dietro le quinte di un secondo governo Dilma per ripresentarsi poi nel 2018 per un terzo mandato (il primo suo fu nel 2003) e tentare così di avere in mano il Brasile per altri quattro anni. In tutto farebbero venti anni di fila. La vittoria di Dilma, subito dedicata a Lula, è stata per un margine sottile: 51,6 per cento contro il 48,3 per cento dello sconfitto Aécio Neves, del Psdb, centrodestra. Un altro mandato al Planalto è comunque assicurato. C’è solo un ostacolo al sogno di egemonia perenne di Lula: San Paolo, la sua città.
Qui Neves ha avuto il 64,3 per cento dei voti, Dilma solo il 35,7 per cento. Non si governa comodamente se si ha contro, chiaramente contro, la capitale economica del paese. La città non ha mai amato Dilma, ma questa volta ha innalzato una muraglia contro il Partito dei lavoratori (Pt) che qui è nato. Dalla cintura industriale di San Paolo è emerso politicamente Lula, come anche il Pt e la Cut, la centrale sindacale unica che stavolta ha messo in campo tutti i suoi militanti per far funzionare la macchina raccattavoti per il ballottaggio. Cos’è successo? Perché la periferia paulista, immensa e in buona parte operaia, non vota più il partito di Lula? Il problema è che qui, più che altrove, il sogno brasiliano mostra le sue crepe. Il Brasile è in fase di deindustrializzazione e nelle distese di capannoni paulisti questo si vede. La produttività cala. La disoccupazione è sotto il magico livello del 5 per cento, una specie di miracolo sociale, ma non si tratta di occupazione industriale. Alla politica di redistribuzione dei governi del Pt che ha trasformato socialmente il Brasile portando fuori dalla miseria 40 milioni di persone (“notevoli” i risultati della lotta alla povertà secondo l’Ocse), non si è associata una fase di irrobustimento dell’industria nazionale. Le aziende manifatturiere perdono quota e quelle di alta tecnologia non decollano. Dalla megalopoli paulista sono arrivati i primi riot contro Dilma nel 2013. Qui è nata la moda dei rolezinhos, le invasioni dei centri commerciali presi d’assalto all’improvviso da centinaia di ragazzini, che sono anagraficamente i figli delusi dell’èra lulista nonché una fetta di società imprescindibile per chiunque voglia governare in pace: il 25 per cento dei brasiliani ha meno di 15 anni.
[**Video_box_2**]L’organizzazione del Pt è stata efficientissima nel capire che i voti paulisti erano persi e andavano compensati con un accurato lavoro di porta a porta nel nord e nord-est del paese, area rurale povera e fedele. Lì l’80 per cento della popolazione riceve aiuti dallo stato. Lì Dilma ha avuto domenica il 70 per cento dei voti, con punte del 78 per cento negli stati di Piauì e Maranhão. Decisivo per la sua vittoria è stato l’errore di Neves di sottovalutare l’importanza del suo stato di origine, Minas Gerais, secondo distretto elettorale del paese dove è stato governatore per due volte. Ne era uscito con il 92 per cento di popolarità, non l’ha messo al centro della sua campagna. Minas s’è rivelata invece il suo cavallo di Troia. Dilma lì ha preso il 52,4 per cento dei voti, lui solo il 47,6 per cento. Confermato il detto: “Chi vince a Minas Gerais vince in Brasile”. Il futuro della presidente non si annuncia roseo. Una vittoria per un margine così stretto esige la creazione di uno spazio di compromesso e non è detto che l’opposizione, uscita rafforzata dalle urne, sia disposta a collaborare. Dilma ce l’ha fatta, ma le resta da fare i conti con una metà del paese, la più prospera e la più ricca.
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