Le immagini del fallimento
L'uomo che non voleva fare
Barack Obama aveva a disposizione grandiosi “moonshot” all’inizio della sua presidenza, ma non ne ha sparato nessuno. La disillusione sul presidente “inspirational” è arrivata in fretta e si è consumata lentamente. E ora i candidati democratici al midterm prendono le distanze.
Alison Lundergan Grimes indossa un gilet verde militare, occhiali tattici, tappi per le orecchie. Imbraccia un fucile da caccia fra i bicipiti scoperti per comunicare efficacemente quella che prima della dittatura dell’uguaglianza si sarebbe chiamata virilità. I capelli sono sobriamente raccolti in una coda alta per mirare meglio ai piattelli lanciati nel cielo del Kentucky. Lundergan Grimes disintegra bersagli mobili con voluttà nello scenario rurale del suo stato d’origine. Non è un’ambientazione tipica per lo spot elettorale di una candidata del Partito democratico. Inusuale è anche lo slogan, scandito a chiare lettere dopo mesi di parole dette a metà, depistaggi e reticenze dissimulate: “I’m not Barack Obama”. Non sono Obama, “non sono d’accordo con lui sul controllo delle armi da fuoco, sul carbone, sulle politiche ambientali”. La sfidante per il seggio simbolicamente più rilevante di queste elezioni di midterm, quello occupato da Mitch McConnell, il leader dei repubblicani al Senato, l’aula del Congresso che martedì il Gop spera di soffiare al partito del presidente, rispedisce al mittente l’accusa più grave che le è stata mossa: la vicinanza al presidente democratico. Se la scena venatoria che ha preso a girare a ciclo continuo tre settimane fa nelle case degli elettori del Kentucky è una citazione della passione per il tiro al piattello che due anni fa il presidente ha goffamente dichiarato di coltivare per compiacere il vasto pezzo d’America che crede nel Secondo emendamento, si tratta di un’aggravante della faida intrademocratica. La candidata rinnega e pure sfotte: io al piattello tiro sul serio, non sono mica Obama.
Lundergan Grimes ha invitato tre volte Bill Clinton ai suoi comizi per dare slancio e profondità nazionale alla campagna. Lui, sagace com’è, ha implorato l’uditorio democratico di “evitare in tutti i modi che prevalga la logica del voto di protesta”, e certo il riferimento non era all’avversario manifesto ma a quello occulto, quell’Obama che è stato un Re Mida elettorale e ora è nel pieno della fase sventurata della favola, quella in cui anche il cibo che tocca si muta tragicamente in oro. Ha portato sui palchi del Kentucky anche l’alleata storica, Hillary, e tutto questo clintoneggiare non è che una formula per ribadire il concetto: I’m not Barack Obama. Alle domande della redazione di un giornale locale su chi abbia votato nel 2008 e nel 2012 la candidata ha dapprima finto di non sentire, poi, vista l’insistenza degli interlocutori, la distrazione s’è trasformata in esplicito diniego. Orrore della comunicazione politica!, hanno gridato i soloni delle pubbliche relazioni, la stabilità elettorale val bene una piccola bugia e nessuno sa quel che succede nell’urna. Il fatto, si è capito poi, è che proprio la stabilità elettorale la signora andava cercando con quel diniego a un tempo silenzioso e fragoroso.
La candidata del Kentucky che rinnega a voce alta il suo presidente, e se il gallo canta gli spara con la doppietta, è in buona e abbondante compagnia. Michelle Nunn, candidata al Senato in Georgia, ha ammesso soltanto dopo infinite pressioni di avere votato per Obama, e ha creato uno spot ad hoc per spiegare che quella foto con il presidente che il suo avversario fa circolare è stata scattata a un evento per celebrare Bush senior, niente di più bipartisan. In Alaska Mark Begich ha detto pubblicamente mesi fa che non voleva Obama fra le urne durante la campagna. Mark Pryor, senatore dell’Arkansas, si è tenuto a distanza di sicurezza dal presidente. Kay Hagan, della North Carolina, ha apertamente detto che l’Obamacare ha bisogno di “modifiche di buon senso”, abbastanza per far capire l’antifona. Democratici dal North Dakota al Colorado fino alla Florida e alla West Virginia fuggono dalla presenza avvelenata del presidente. Un solo candidato al Senato ha accettato di avere Obama al suo fianco sul palco, Gary Peters del Michigan, forte dei suoi dieci punti di vantaggio nei sondaggi. Che sono diventati subito otto.
Quando Obama lo scorso anno è stato in visita in Louisiana, dove si gioca una delle partite cruciali per il Senato, la candidata Mary Landrieu si è ben guardata dal farsi vedere assieme al presidente, o dal farsi vedere in generale. Il suo avversario, John Cassidy, in campagna elettorale ha ripetuto fino alla nausea un dato: “Landrieu ha votato come Obama il 97 per cento delle volte”. Come dice l’ex senatore John Sununu: “‘Balla con quello che ti ha portato alla festa’, recita il detto, ma quando sei un candidato democratico al Senato con il compagno sbagliato c’è soltanto una cosa che puoi fare: nasconderti in bagno”. Ecco, quando Obama è sbucato, in persona o in spirito, da qualche parte durante la campagna di midterm i suoi alleati erano tutti in bagno. Oppure su un palco accanto a qualcuno che di cognome fa Clinton.
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Il popolo dei distanziati, quelli che quando Obama parla fischiettano fingendo di non sentire, non ha preso bene che il presidente abbia spiegato al reverendo Al Sharpton in un’intervista radiofonica che lo smarcamento non è che una manovra tattica per togliere fiato alla campagna anti Obama dei repubblicani, i quali effettivamente attribuiscono al presidente qualunque catastrofe, ebola incluso. “Tirare le somme è complicato – ha detto Obama – questi sono tutti politici che hanno votato le leggi che sostenevo; hanno appoggiato la mia agenda al Congresso; stanno dalla parte del salario minimo, vogliono stipendi giusti, vogliono ricostruire le infrastrutture e riformare il sistema scolastico”. Siamo della stessa tribù, soltanto non diamo troppo a vederlo in questo frangente perché è così che ci dicono di fare gli ingegneri dei sondaggi elettorali. Fox News ha messo in bocca al presidente la solita sintesi caustica: “Non vi preoccupate, quelli che si distanziano da me stanno soltanto mentendo”.
Delle elezioni di martedì prossimo si conoscono sondaggi, i precedenti, abbiamo minuziose analisi dei big data, sinusoidi dell’anemica popolarità presidenziale, resoconti dei finanziamenti dei tycoon impegnati nell’arena dei contributi e modelli sull’impatto della disoccupazione, dello Stato islamico, dell’ebola e di qualunque altra incerta variabile faccia oscillare le passioni elettorali degli americani. Di certo c’è soltanto che se i democratici riusciranno a tenere il Senato non sarà per merito di Obama. Semmai, sarà perché i candidati sono riusciti nell’impresa di smarcarsi dal presidente mentre i repubblicani per mesi estraevano dati che peroravano la tesi della perfetta unità democratica. C’è più del determinismo da “maledizione del sesto anno” fenomeno osservato una vita fa dal commentatore politico Kevin Phillips. Per una complicata serie di incroci e variabili, in sostanza un bug nel raffinato sistema elettorale americano, a metà del secondo mandato il partito in carica (il partito: vale anche se l’inquilino della Casa Bianca cambia) tende regolarmente a prendere una violenta mazzata elettorale. Forse più che un baco è un ingegnoso anticorpo del bipolarismo.
Nell’ultimo secolo il partito che controlla la Casa Bianca ha perso in media sei senatori alle elezioni del sesto anno, e sei è esattamente il numero magico che serve al Partito repubblicano per ribaltare la maggioranza a suo favore. Il paragone con il sesto, drammatico anno di George W. Bush è il più immediato e da un punto di vista dei numeri può funzionare. Siamo lontani dalla tenuta di Bill Clinton e Ronald Reagan, che pure hanno avuto le loro flessioni del sesto anno. C’è un perfetto caso di scuola che illustra la dinamica dell’allontanamento del partito dal presidente, quello del governatore della Florida, Charlie Crist, che nel 2006 correva con il Partito repubblicano e ha rifiutato con decisione l’aiuto di un peraltro defilato Bush; Crist è poi passato con i democratici, ma anche questa volta ha chiesto al presidente del sesto anno di evitare ogni interferenza. Obama si è fatto vedere soltanto in sei degli stati dove si vota per il posto di governatore, e nell’ultrademocratico Maryland ha subito l’umiliazione di vedere il pubblico di operai afroamericani che abbandonava la sala mentre stava ancora arringando.
Da un certo punto di vista è inevitabile: il potere logora, la pazienza dell’elettorato scema in fretta, la voglia di cambiare si fa sentire e il popolo si rivolge al partito dell’opposizione per compensare le inevitabili delusioni generate da quello al governo. Quella del sesto anno è una malattia che prescinde dalla popolarità del presidente. Una delle più devastanti sconfitte del Partito repubblicano al midterm è arrivata nel 1958, quando la popolarità di Dwight Eisenhower era attorno al 55 per cento. Il Gop allora ha perso 47 seggi alla Camera e 15 al Senato, una sconfitta che ha influenzato le dinamiche del Congresso per almeno due decenni. Più che il malcontento verso il presidente fu una recessione figlia di dinamiche strutturali a determinare l’esito delle elezioni. L’odierno film elettorale, che potrebbe essere intitolato “2014: fuga da Obama”, è invece il risultato della metamorfosi di Obama da traino a fardello. L’autunno del suo discontento non è che il culmine di un più lungo e piovoso autunno, la stagione amara della disillusione che viene dopo quella zuccherosa delle speranze di rinnovamento. I compagni di partito abbandonano la nave presidenziale gridando un catartico “I’m not Barack Obama”, covando in seno quella speciale forma di risentimento che si riserva a chi poteva fare e non ha fatto, a chi per scelta, per calcolo, per eccessi prudenziali, per vanità o soltanto per un’ultima, irrefrenabile tendenza a pararsi il culo davanti al giudizio della storia non ha voluto vivere all’altezza dei desideri che aveva suscitato nel cuore degli americani.
E’ un’epoca di “moonshot”, questa. Chi trascina l’innovazione, in America e non solo, è chi ha il coraggio di mirare alla luna (Marte è pianeta più appetibile di questi tempi), di sparare colpi lassù, nel cielo delle imprese impossibili, senza lasciare che il criterio della realizzabilità immediata diminuisca la caratura dell’ambizione iniziale. Google domina l’oggi perché ha la testa e le mani immerse nel domani e nel dopodomani, non soltanto perché spende più di Goldman Sachs in attività di lobbying a Washington (il che, semmai, è una conseguenza). Difficile che un presidente, con tutti i limiti e i vincoli imposti dal suo ufficio, s’arrischi a promettere al paese la luna, ma Obama non aveva solo un bel programma di riforme, aveva l’audacia della speranza e tante cose molto alte e inebrianti con cui ha fatto invaghire il mondo. Era un Icaro con ali ignifughe, il “moonshot” incarnato della leadership globale. Per molti era la dimostrazione, dopo tante smentite, che la lettura neohegeliana della storia di Francis Fukuyama non era poi falsa come dicevano i suoi avversari: Obama portava la storia globale della democrazia e delle istituzioni liberali a un nuovo livello. Certamente sarebbe stato assalito dai problemi e costretto a deviare per schivare i vetri rotti della realtà, ma in qualche modo poteva librarsi e volare in un’altra dimensione, evocando una nuova promessa, spingendosi ancora una volta più su invece di planare. Il problema non è la caduta: tutti i politici cadono, tutti i presidenti tradiscono, tutti i governanti stuprano il programma elettorale con cui avevano ottenuto la fiducia degli elettori. Il problema è che cadere da certe altezze fa più male.
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Il grande cruccio del popolo democratico un tempo adorante è che Obama aveva tutto per diventare ciò che prometteva. Le lauree ad Harvard e nei templi dell’elite bianca, le connessioni e lo stile abrasivo di Chicago, la pelle nera, una macchina elettorale che ha traghettato la scienza del consenso dalla versione beta a 2.0, una capacità retorica che occorre tornare ai tempi di Kennedy per rintracciare qualcosa di simile; aveva, e non era poco, un predecessore contro il quale si è scatenata un’infernale campagna di demonizzazione per come ha gestito le conseguenze della più grave minaccia ideologica e militare del mondo contemporaneo. Per Obama si trattava di chiudere gli scenari di guerra, smontare l’apparato antiterrorismo di Cheney e navigare in sicurezza dalla parte giusta della storia tendendo le mani al mondo islamico e annunciando un’èra di concordia universale. Magari uccidendo Bin Laden lungo la via. Promettere “un nuovo inizio” è una cosa seria, ma il presidente credeva di rendere la missione più praticabile sfruttando le manchevolezze di chi aveva governato prima di lui. Oltre a fissare l’asticella molto in alto, Obama partiva anche da molto in basso. In retrospettiva, il Nobel per la Pace comminato preventivamente è un frangente grottesco, ma nella logica di quel momento esprimeva perfettamente il coagularsi di un ineffabile senso di salvezza imminente, una salvezza però che poteva ancora scivolare via fra le dita. Gli astri si erano magicamente allineati, non si poteva perdere la congiunzione. Obama era circondato da un’aura elettrica che andava in qualche modo scaricata a terra. In più, s’affacciava la peggiore crisi economica dalla Grande depressione, evento universalmente infausto che però – ragionava Obama – non avrebbe potuto essere attribuita a lui, e pazienza se la storia della politica americana mostra che sulle spalle del presidente finiscono senza distinzioni i prodotti del suo malgoverno e quelli delle catastrofi naturali, i disastri combinati a Washington e quelli che hanno origini remote o misteriose.
E’ appena ironico che dopo sei anni di governo la popolarità di Obama sia simile a quella di Bush nel 2006 e che l’ex portabandiera del tradimento americano si stia ricostruendo una reputazione semplicemente rimanendo a dipingere nella quiete del suo ranch texano e lasciando che la storia gli porti il conforto negato dai giudizi a caldo della politica. Ora sembra che anche le qualità inoppugnabili, quelle riconoscibili al di là dei pregiudizi di partito, siano per Obama una zavorra che lo trascina verso terra, e poi anche più giù. La capacità retorica è diventata una cortina fumogena che offusca la realtà, strumento che allontana invece di avvicinare, i discorsi sono vespai di sospetti e sotterfugi, l’andamento circolare del sermone avvince e al tempo stesso abbindola, confonde, affumica la “moral clarity” propria dello statista con giochi di prestigio.
[**Video_box_2**]Le credenziali di professore di legge e raffinato costituzionalista cresciuto dove da qualche secolo si forma la classe dirigente americana sono finite nel tritacarne delle critiche. L’immagine nobile del professore come simbolo di competenza e capacità di analisi è evaporata, lasciando soltanto la fastidiosa patina accademica, lo snobismo da abitante della torre d’avorio che tutto analizza e considera senza mai sporcarsi le mani con la nuda realtà. Leon Panetta, ex segretario della Difesa, ex capo della Cia ed evidentemente clintoniano di ferro ancora in servizio, lo ha esplicitato nel suo libro di memorie, che non è nemmeno il più duro nel suo genere: “Obama affronta le cose come un professore di legge, nel presentare la logica delle sue posizioni. Non c’è niente di sbagliato in questo. Vogliamo avere un presidente che riflette sui problemi. Ma la mia esperienza dice che a Washington questa logica da sola non funziona. Una volta che hai messo a punto una posizione devi rimboccarti le maniche e combattere per metterla in pratica. Questo è fondamentale a Washington. Per avere successo i presidenti non possono soltanto aggirare i problemi”.
Obama ha messo tutto il suo impegno intellettuale, ordinato secondo la logica del professore di legge e del community organizer di Chicago, per fungere in maniera credibile da leader del mondo libero, con tutte le cautele e le furbizie che pertengono al ruolo, ma non è questo quello che aveva promesso all’America in cerca di una qualche forma di riscatto. Aveva promesso speranza, intuizione di sapore paolino e concetto che ha la forza granitica di una virtù cardinale ed è allo stesso tempo fragile e passeggera come uno stato d’animo. Il riferimento esplicito era alla “speranza infinita” di Martin Luther King, contraltare eterno della “delusione finita” che l’umanità è sempre chiamata a sopportare. E’ stata ridotta a una piccina “hope” da manifesto elettorale e community di utenti like-minded, eppure conteneva ancora le tracce di quella eccezionale pretesa dell’Obama della prima ora, quando ancora occorreva essere audaci per sperare, e come si fa a essere audaci non lo insegnano nemmeno ad Harvard. Francis Bacon diceva che la speranza è “un’ottima colazione ma una pessima cena” e Obama aveva tutte le caratteristiche profetiche del messia laico che introduce l’alba salvifica di un giorno nuovo. Non abbiamo ancora il beneficio della prospettiva storica, siamo nell’ambito emendabile della “first draft of history” in cui però si può discernere ciò che Obama avrebbe potuto essere e non è stato. Il cuore della faccenda è tutto lì, nel gap fra la speranza e il cambiamento, fra le due caratteristiche complementari del leader: “inspire” e “deliver”, suscitare e mettere nero su bianco. Poteva essere il federatore della sinistra divisa in una corrente mercatista e in un’anima antisistema che si è ingrossata con la crisi, ma ha deciso di navigare al centro evitando le grandiose bastonate fiscali ai ricchi che aveva promesso e nicchiando sull’aumento del salario minimo. Alla sinistra liberal ha dato una riforma sanitaria che fa un piccolo passo verso la copertura universale in stile europeo senza mettere alla porta le logiche di mercato e la lobby delle assicurazioni. Di certo ha introdotto l’anticoncezionale obbligatorio, una delle varie riforme sociali che va segnata nella colonna dei successi di un presidente che, vedendo l’aria che tirava, a un certo punto ha deciso di “evolvere” sul matrimonio gay. La sua America religiosamente secolarizzata è riuscita, questo sì, nell’impresa di compattare la Conferenza episcopale americana. La pratica dei diritti civili l’ha interamente affidata al suo più stretto confidente e alleato di governo, il procuratore generale Eric Holder. Nessuno come lui ha influenzato una gamma di “issue” cruciali che va dai processi esemplari ai banchieri per gli orrori del collasso finanziario, al matrimonio gay, fino alla zelante caccia ai leaker che si annidano in una delle Amministrazioni meno trasparenti della storia recente. Dopo sei anni crepuscolari fatti di infiniti riassestamenti, di poste in gioco che si abbassano invece di alzarsi, di “moonshot” annunciati e poi cancellati, di “potrei ma non voglio”, di forme creative di quietismo politico e delusioni nel proprio campo d’azione che in questa tornata elettorale vengono in superficie senza infingimenti tanto vale mettersi comodi. La cena è servita.
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Il genere “copertine dei settimanali contro Obama” è molto vasto. Il presidente afflitto, incerto, il giocatore di golf mentre il mondo brucia, la rockstar, il disperato menutentore del sito dell’Obamacare, il guerriero arrembante e quello riluttante, il paranoico scandagliatore di dati personali e telefonate di giornalisti, il maestro dei droni, il rottamatore frustrato di Guantanamo, l’amico di Wall Street e il populista del salario minimo, la reincarnazione di Jimmy Carter. Naturalmente c’è anche Barack Hussein, il presidente con il turbante. L’ultima copertina di Bloomberg Businessweek però si aggiudica un posto di rilievo nella classifica della perfidia. Ci sono nove foto identiche del presidente con maglietta della salute e sguardo rilassato che fa capolino dalle lenti degli occhiali da sole: sono le reazioni alle crisi che assillano la Casa Bianca, reazioni irragionevolmente flemmatiche e perfettamente identiche l’una all’altra, proprie del presidente “too cool for crisis”. La coolness del presidente ammaliante con physique du rôle e linguaggio attraente per i millenial finalmente riavvicinati alla politica gli si è rivoltata contro. L’aggettivo “cool” ora è da intendersi in senso rigorosamente dispregiativo quando è applicato a Obama. E’ la freddezza boriosa del professorino che fa attentamente i conti prima di fare qualunque mossa. E se la manovra obbligata produce più danni all’indice di popolarità che benefici al mondo allora sta fermo. Poco importa che si tratti della Russia, dello Stato islamico, degli scontri razziali a Ferguson, della Siria, del nucleare iraniano, della Nsa o della riforma sanitaria: la postura di default di Obama consiste nel prendere tempo, nel convocare esperti, produrre analisi, fare un bilancio fra costi e benefici, consultare possibili alleati, considerare le reazioni delle altre cancellerie. Se serve nomina uno zar, che sta all’America di Obama come la commissione stava all’Italia di Craxi.
Non importa se i cittadini si aspettano un pizzico di decisionismo in più, magari quella tempestività che è il segno rassicurante che la Casa Bianca si sta prendendo cura del problema. E anche se è vero che “più americani hanno sposato una Kardashian di quanti hanno contratto l’ebola”, come ha detto qualcuno, il fatto che ci siano volute settimane di studio e sostanziale inazione mentre il panico fra la gente cresceva è un segno del modus operandi della Casa Bianca, la quale tutto sommato è chiamata anche a tenere conto delle maree emotive e delle paure irrazionali: “La gente ha paura di quello che non può controllare e quando nemmeno il governo è in grado di controllare allora la paura si trasforma in panico”. Businessweek scrive che Obama “aderisce al rigore intellettuale” ma “disdegna l’aspetto della performance del mestiere”. Verità paradossale per chi ha salito i gradini del potere a forza di performance. Significativo è anche il fatto che perfino i critici più accaniti di questi sei anni obamiani non possano evocare schiaccianti immagini del suo fallimento. La presidenza è costellata da decine di “Katrina moment” di natura e scala variabile, eppure nella mente non si materializza nessuna spettacolare icona tragica, non c’è una rappresentazione dominante, piuttosto un senso diffuso di indecisione e abulia, l’inazione come metodo di governo, l’attendismo guardingo eretto a virtù solenne. Nel time-lapse della presidenza si staglia l’Obama annoiato che giocherella con il BlackBerry durante i briefing del team della sicurezza, i tiri a canestro al G8 dell’Aquila, i selfie ai funerali di Mandela, lo swing a Martha’s Vineyard, le linee rosse che si spostano, i “let me be clear” e i “make no mistake”, gli abbracci ben inscenati, i prudenti ragionamenti legali, le circonlocuzioni acrobatiche per evitare di chiamare le cose con il loro nome. Rimangono, insomma, i momenti morti più di quelli vivi, i vuoti più dei pieni, il leader potenziale più che quello in atto.
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Lo hanno chiamato pragmatico, cinico, realista, “buckpasser”, prudente, isolazionista, “minimalista feroce”, ritirista, calcolatore, cosmopolita, hanno detto che era riluttante, multilateralista, onusiano, perfino idealista perché di tanto in tanto ricorda che esiste una “parte giusta della storia” e una sbagliata, almeno a parole. Per spiegare la sua postura in politica estera si sono scovate fra le chiacchiere off the record dei funzionari di governo frasi icastiche come “leading from behind” o “don’t do stupid stuff” (“don’t do stupid shit” è la versione più colorita), l’intero paese si è imbarcato in una monumentale opera di decrittazione del messaggio nascosto dietro la molteplicità dei segni, tutti alla ricerca degli indizi di una dottrina definita, un’archè ideologica da cui far discendere tutte le conseguenze politiche in una trama abbastanza coerente da meritare almeno un nome. Fra i giornalisti si è diffuso anche il genere dell’interpretazione dei discorsi presidenziali, faticosa disciplina a metà fra l’analisi testuale dei formalisti russi e la lettura dei fondi di caffè, densi di immagini emotivamente penetranti ben cesellate dai professionisti della parola e scevri di concetti chiari, non equivocabili. Spesso sembra di leggere – Panetta ha ragione – i testi di un avvocato con una vena poetica, tanto sono orientati alla cautela e al preventivo scioglimento di qualsiasi controversia potenziale. Per quanto si sia cercato, il principio su cui sorge l’intera architettura obamiana non si è trovato, e ogni definizione contiene un inevitabile grado di approssimazione e provvisorietà, dovendosi accontentare di descrivere il qui e l’ora, domani chissà. L’assenza di costanti è l’unica costante. Nei termini di Isaiah Berlin, Obama è una volpe, un leader theory-free che salta gioiosamente da una piccola verità all’altra ma non conoscerà mai il grande segreto del riccio. Queste elezioni di midterm sono un affare per volpi, ché, come scrivono scaltramente i libertari della rivista Reason, “i democratici non possono impostare la campagna su quello che hanno fatto, i repubblicani non possono impostarla su quello che faranno” e allora tanto vale dividere e conquistare quel che si può. Tanto nella coda del secondo mandato presidenziale tutte le colpe del Congresso finiscono per ricadere sulla Casa Bianca. Per questo i segnali più interessanti di una campagna bollata come “oggettivamente noiosa” da New Republic vengono dalla percezione che i democratici hanno della direzione che l’America ha preso in questi sei anni di governo. Almeno nelle pianure del Kentucky si dice così: “I’m not Barack Obama”.
(primo di una serie di articoli)
Il Foglio sportivo - in corpore sano