C'era una volta Scelba
Angelino, creatura di Ionesco
Il ministro manganella ma sta con gli operai. La polizia scappa di mano perché al Viminale non c’è più la mano. Com’è buffo l’uomo della sicurezza.
Dice: “Voglio esprimere la mia personale solidarietà ai lavoratori dell’Ast e al personale della polizia di stato”. Dunque solidarizza contemporaneamente con il manganello e pure con il bernoccolo, difende la polizia ma anche gli operai, sostiene che non si poteva non manganellare, ma dice pure che manganellare è un’infamia, spiega insomma che “è stato un brutto giorno per tutti”, e così le sue comunicazioni al Parlamento diventano improvvisamente un carosello spinto agli estremi limiti del non senso. “E’ lo Ionesco del governo”, si danno di gomito i suoi vecchi amici di Forza Italia. E d’altra parte Angelino Alfano è siciliano, è ministro dell’Interno, ma non è Mario Scelba e nemmeno Franco Restivo: “E’ un dilettante”, mormora Francesco Perfetti, lo storico, il professore della Luiss, l’allievo di Renzo De Felice. “In Italia è esistito un disegno strategico, un uso chirurgico e professionale, millimetrico della repressione di piazza”, racconta il professore. “La Democrazia cristiana si faceva tanto più dura o morbida, quanto si allentavano, o stringevano, gli altalenanti rapporti con il Pci. Ma questa di Alfano è tutta un’altra storia. Qui la polizia è sfuggita di mano, perché la mano, al Viminale, non c’è più”. E lo ammette inconsapevolmente persino lui, il ministro che a Palazzo Madama, con il viso atteggiato e il pomo d’Adamo che si comporta come un ascensore di Zara nelle ore di punta, anche stavolta, come nel caso Shalabayeva, non prende una posizione per non prendersi dei rischi, “non mette mai un ditino nell’acqua calda”, dicevano di lui ad Arcore.
Ai tempi della signora deportata in Kazakistan, Alfano si spiegò all’incirca così: “Non c’ero”, “non ho visto”, “non mi hanno avvisato”. Adesso pratica invece una capriola dell’assurdo: “E’ lontana anni luce da noi l’idea di manganellare gli operai, così come penso sia lontana dagli operai la volontà di scaricare tensioni sulla polizia”. Prego? Come ha detto, signor ministro? Può ripetere? “E dire che quello era il posto di Tambroni e Taviani”, racconta il professor Perfetti, “l’iconografia del capo del Viminale rappresenta un uomo imbullonato alla sedia, l’unico ministro che non lascia mai Roma, a Ferragosto come a Capodanno, e così per tutte le feste comandate, l’uomo che tutto sa e tutto vede”. E insomma il ministro dell’Interno era un tipo antropologicamente preciso, colui che si identificava con uno stato innervato nella società, anche nella società misteriosa, quella criminale, perché il Viminale controllava davvero tutti attraverso carte, faldoni, dossier, confidenti, complicità e patti scellerati. Una specie ormai così estinta da dare l’impressione che non sia mai esistita. “Questo Alfano sembra che non veda mai niente”, sorride Perfetti. Ed era infatti Scelba che spiegava la modernità ai poliziotti: “Per le cariche, le jeep sono meglio dei cavalli”. E oggi? “Non s’era mai visto prima un ministro dell’Interno che contemporaneamente fa anche altri lavori”, dice il professore. E Alfano è ministro dell’Interno e pure segretario politico, deve insomma afferrare per la collottola il ribellismo da stadio e quello da Parlamento, riacciuffare i dissidenti del suo Ncd e i delinquenti di strada, trattare alleanze elettorali e intanto gestire pure le elezioni. Così, nel giorno delle manganellate agli operai della Fiom, lui era a Palermo per navigare nelle trattative del sottobosco politico siciliano, e la telefonata per richiamarlo d’urgenza a Roma non gli è arrivata da Palazzo Chigi, ma dal collega Andrea Orlando.
[**Video_box_2**]E dunque Alfano si perde tra gli infiniti sentieri del proliferante labirinto politico nazionale, una sua grande peculiarità, non a caso, è che arriva sempre in ritardo: quando era ancora segretario del Pdl, e contemporaneamente pure ministro dell’Interno e vicepremier, Silvio Berlusconi chiedeva a Denis Verdini: “Ma Angelino non è arrivato?”, “No, è ancora a Palazzo Chigi”. Ed Enrico Letta chiedeva ad Antonio Catricalà: “Alfano?”. E l’altro: “E’ ancora Palazzo Grazioli”. Sempre di corsa. Ci fu un tempo in cui episodi simili ispiravano ai nostri cineasti film degni della grande tradizione goldoniana e rossiniana. Si vedeva Manfredi o Mastroianni o Sordi passare freneticamente da un lavoro all’altro, inchinarsi volta a volta a superiori diversi, corteggiare dattilografe diverse. Quella fu una prodigiosa fioritura di talento e a volte di genio comico. Per Alfano significa cacciarsi in situazioni scabrose (Shalabayeva), ridicole (mobilitò i reparti di sicurezza per una bicicletta che gli rubarono al mare) o impensabili: un manganello in testa ai sindacalisti nei giorni in cui Matteo Renzi fa la rivoluzione culturale a sinistra sulla riforma del lavoro.
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