La prevalenza del grillismo, fiacco nelle urne ma egemonico nei ragli
Può darsi che la parabola politica di Beppe Grillo sia arrivata ormai alla sua fase discendente. Di sicuro c’è arrivata a Reggio Calabria, dove il Movimento 5 stelle è passato in un anno dal 25 per cento al 2. Ma quali che siano le sue future sorti elettorali, viene il dubbio che abbia già vinto una battaglia ben più importante.
Può darsi che la parabola politica di Beppe Grillo sia arrivata ormai alla sua fase discendente. Di sicuro c’è arrivata a Reggio Calabria, dove il Movimento 5 stelle è passato in un anno dal 25 per cento al 2. Ma quali che siano le sue future sorti elettorali, viene il dubbio che abbia già vinto una battaglia ben più importante. Dato il contesto, l’espressione “egemonia culturale” potrà anche sembrare fuori luogo, viene però almeno il dubbio che stavolta siano stati i barbari a cinque stelle, politicamente sconfitti, ad avere conquistato i vincitori. Un dubbio difficile da scacciare dopo avere visto l’avvocato di Totò Riina tenere in diretta tv, appena uscito dal Quirinale, una lunga lezione sulla storia d’Italia a reti unificate. Un dubbio forse persino tardivo in un paese in cui ormai si considera normale definire l’inchiesta su eventuali collusioni tra criminalità organizzata ed esponenti delle istituzioni “trattativa stato-mafia”, come si farebbe forse soltanto in Colombia o in un volantino delle Brigate rosse. O nel blog di Grillo, appunto.
Quanto alla sinistra, il recente dibattito Camusso-Picierno ha già offerto un saggio della più squisita dialettica grillina. Davvero un confronto a cinque stelle: con il segretario della Cgil che accusa il presidente del Consiglio di essere un servo dei poteri forti, perché lo ha detto Marchionne, in quella agenzia del 2 ottobre, che ce l’hanno messo loro, visto? (che poi davvero uno non capisce: ma come, abbiamo una prova così schiacciante, una confessione in piena regola, per giunta dettata alle agenzie, e ce la teniamo nascosta per un mese senza dire niente?) e con la deputata del Pd a rispondere che allora, se la si mette su questo piano, lei potrebbe dire che la Camusso è stata eletta con tessere false. Ma ripetendo più volte, con fine arte retorica, che non lo avrebbe detto, pur potendolo dire. Per poi mestamente precisare, sui quotidiani del giorno dopo, di non aver voluto dire quello, pur avendolo potuto dire e pur avendolo, effettivamente, detto. Purtroppo.
La verità, però, è che c’è poco da scherzare. Quell’impasto di manicheismo, violenza verbale, fanatismo ideologico senza ideologia e soprattutto senza logica che caratterizzava i commentatori del blog di Grillo, e che suscitava tante ironie a sinistra, è ormai lo spettacolo quotidiano del dibattito interno al Pd, e non solo sui social network. La sua prima, clamorosa manifestazione si ebbe nei giorni dell’elezione del presidente della Repubblica, quando la candidatura di Franco Marini fu travolta da qualcosa che solo in parte può essere spiegato con le lotte di corrente, le rivalità personali, le amarezze per un risultato elettorale tanto inferiore alle attese o le preoccupazioni per un futuro divenuto improvvisamente incerto.
Di un simile processo di regressione politico-culturale Matteo Renzi porta certo gran parte della responsabilità, ma la ragione di fondo è sistemica. E’ la logica delle primarie, da cui il Pd non è mai uscito e in base alla quale, qualunque cosa tu dica, o sei un gufo o sei un servo dei poteri forti, o sei la vecchia sinistra che sa solo perdere o sei la nuova destra che vuole solo vincere. Quale che sia la critica, la replica non è mai nel merito, è sempre una qualche forma più o meno esplicita di delegittimazione personale.
[**Video_box_2**]E’ lo stile polemico di quei giornalisti la cui principale risorsa argomentativa consiste nello storpiare i nomi dei propri bersagli.
La tecnica di rispondere sempre con un attacco personale, fondato sulla caricatura o su un’insinuazione circa i veri motivi per cui l’interlocutore avrebbe detto quel che ha detto, è un’innovazione non positiva che è stato Renzi a portare nel dibattito interno al Pd, ma che i suoi avversari hanno imparato subito, perché la usavano da cinquant’anni contro tutti gli altri. Ben prima dell’arrivo di Grillo. Non per niente, se si guardano il lessico, gli slogan, le parole d’ordine dei Cinquestelle, a cominciare da quella che è la loro bandiera, la lotta contro “la casta”, è facile verificare come quelle parole abbiano tutte origine nel mondo del giornalismo impegnato a sinistra. Di conseguenza, parafrasando una vecchia battuta su Silvio Berlusconi, si potrebbe dire che il punto oggi è se i democratici, dopo avere sconfitto il grillismo nelle urne, sapranno sconfiggerlo anche in se stessi. O se dovranno pensarci gli italiani.
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