Il califfo italiano
Questa istantanea basta a capire cosa accade nella comunità islamica italiana. Alla preghiera del venerdì, un predicatore parla della forza demoniaca del denaro e accusa coloro che praticano l’usura – cioè accettano di pagare i tassi d’interesse alle banche italiane – di “fare la guerra ai musulmani”.
Forse basta questa istantanea per capire cosa sta accadendo nella comunità islamica italiana. Nel suo chiuso. E’ la fotografia scattata (mentalmente) qualche giorno fa in una moschea salafita dell’hinterland milanese. Una di quelle considerate a rischio per il flusso, per ora su scala molto ridotta, dei “foreign fighters” che partono per raggiungere il Califfato. O preparano il terreno – ai tempi del terrorismo nostrano si definiva “brodo culturale” – per l’indottrinamento e la radicalizzazione dei giovani musulmani. Alla preghiera del venerdì, un predicatore yemenita parla della forza demoniaca del denaro e accusa coloro che praticano l’usura – cioè accettano di pagare i tassi d’interesse alle banche italiane – di “fare la guerra ai musulmani”. La stessa propaganda fatta sul suo blog dall’ex rapper marocchino cresciuto a Brescia, in Val Sabbia, Anas el Aboubi, che nel 2013 è partito per andare a combattere con l’Is. Nella sezione destinata alle donne, dove le fedeli ascoltano il sermone dalla sala di un ex capannone industriale, diviso dalla sezione maschile con una parete provvisoria di laminato alta e insormontabile, una ragazza italiana, convertita, aspetta, agitata, il suo turno per pronunciare la professione di fede islamica, la shahada. E una donna egiziana, più adulta, spiega che lei, la ragazza che si è appena convertita per poter sposare un egiziano, “una volta era italiana, ma ora ha smesso di esserlo per diventare esclusivamente musulmana”. Frasi dure, che quasi stupiscono, dopo che per anni si è parlato tanto di dialogo interreligioso e molti si erano convinti che la comunità musulmana osservante, quella che si riunisce nei centri di preghiera, avesse trovato un punto di equilibrio fra la propria fede e l’inserimento nella società italiana. Preoccupante, se si osserva che questi nuovi centri islamici abusivi, sorti negli ultimi tre anni, dove si predica il verbo salafita, sono spesso gestiti da giovani che hanno meno di 30 anni, si sono laureati nelle nostre università – qualcuno di loro è nato addirittura in Italia – e alcuni, anche se non hanno intenzione di diventare terroristi, simpatizzano con il Califfato di al Baghdadi perché lo considerano la terra promessa: il riscatto definitivo contro l’occidente, che ha umiliato tutti i musulmani. Si tratta di centri islamici minori, nati nell’hinterland milanese come pure nel nord-est, dove si è creato un terreno fertile per facilitatori e reclutatori per aspiranti jihadisti, nella distrazione colpevole di noi italiani e delle nostre autorità. Girati dall’altra parte, o convinti che la questione islamica non fosse più un’emergenza da studiare, monitorare.
Invece nella comunità musulmana italiana, divisa al suo interno e (quasi) silenziosa verso l’esterno, si registra un crescente clima di simpatia verso l’Is, fomentato soprattutto in rete, dove è difficile distinguere i numerosi fanatici, che si limitano a postare immagini dei combattenti con il vessillo nero – come fanno alcuni italiani convertiti, giovani maghrebini e immigrati provenienti dai Balcani – da quelli che invece sono inseriti in reti jihadiste attive e comunicano con messaggi cifrati attraverso metafore prese dalle sure del Corano o dagli hadith sulla vita di Maometto. Gli investigatori non hanno ancora un quadro completo su come avvenga il reclutamento in Italia. Temono di più il gesto di un lupo solitario, radicalizzato al di fuori del circuito dei centri di preghiera, soprattutto all’interno dell’universo magmatico della rete. Qualcuno che possa compiere un attentato non prevedibile. Eppure intorno ad alcuni centri islamici inaccessibili, a volte creati in appartamenti privati, dove bisogna essere conosciuti e affidabili per poter suonare un citofono ed essere ammessi alla preghiera – come ha tentato, invano, di fare la cronista del Foglio – ci sono predicatori itineranti e reclutatori che cercano giovani da isolare, da indottrinare, per poi inserire i più fanatici nella rete pro Is. Per ora gli investigatori si limitano a seguire i movimenti di giovani che vanno e vengono dalla Siria. Maghrebini di seconda generazione, che passano le giornate collegati a internet, e navigano sui siti e forum ristretti di jihadisti, ma anche su YouPorn.
“Più che cellule dormienti, per ora sembrano cellule addormentate, li seguiamo ma non riusciamo ancora a capire se e come si muoveranno”, ammettono, al Foglio, alcuni investigatori. “Con la nascita del Califfato in Iraq, abbiamo dovuto ricominciare da capo perché non esiste ancora una filiera, simile a quella creata da al Qaida, sulla base di una gerarchia e di un processo graduale: il proselitismo e il reclutamento avvengono in tempi brevissimi”. Senza dimenticare la minaccia che potrebbe arrivare dagli ex jihadisti tunisini arrestati, processati o espulsi dall’Italia all’inizio del terzo millennio, ma che potrebbero, secondo intercettazioni ascoltate, voler tornare nel nostro paese in cerca di una vendetta.
In dieci anni il mondo è cambiato, si sa. Dopo la grande paura in seguito agli attentati alle Torri gemelle, a Madrid, a Londra ci sono state le primavere arabe. E la loro sostanziale implosione. Oggi in Italia i moderati preferiscono tacere, o parlare con il Foglio in modo anonimo, dire qualche mezza frase, ma senza esporsi più pubblicamente. E tutti quelli che, negli anni 2000 si scontravano nelle moschee contro i militanti dell’islam politico, sembrano per ora anche loro addormentati. Volontariamente. Ritirati dalla vita comunitaria, preferiscono fondare associazioni laiche, oppure optare per il silenzio. Interpellati, preferiscono tacere. Per ignavia, paura, attendismo. Perciò lo scrittore iracheno, Younis Tawfik, che vive a Torino e gestisce il centro culturale italo-arabo Dar al-Hikma a Porta Palazzo, si chiede per esempio come mai il suo appello rivolto ai musulmani piemontesi per rompere il silenzio e indurli a prendere una posizione netta contro il terrorismo islamico sia caduto completamente nel vuoto. E infatti ora ha organizzato un incontro per un dibattito dal titolo: “Non nel nome di Dio. Contro il terrorismo e la discriminazione”. Certo, alcune associazioni musulmane hanno rilasciato dichiarazioni contro la violenza, ma in modo generico, e a Milano c’è stata una manifestazione a settembre, promossa dal Caim, il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano contro il terrorismo, a cui hanno aderito, però, poche persone, mentre la Grande moschea di Roma, seppur con molto ritardo, ha organizzato un evento pubblico per esprimere la sua condanna verso il fanatismo e il terrorismo. “Il nostro dovere è quello di assumere una posizione chiara e non negoziabile: chiunque favorisca minacce e alimenti conflitti è complice del terrorismo”, ha dichiarato Abdellah Redouane, il segretario della moschea di Roma, che però non ha rapporti con l’universo frammentato dei piccoli centri di preghiera e con gruppi di militanti dell’islam politico sorti all’esterno delle moschee, che sfuggono a ogni controllo. Non è un caso se alcuni dei nostri interlocutori, che preferiscono rimanere nascosti, si spingano a dire che esistono troppi “fiancheggiatori”, che ci vuole più coraggio per uscire allo scoperto, per rompere il silenzio. Alcuni cattolici, per anni impegnati nel dialogo interreligioso con ecumenico fervore, ora sembrano aver alzato bandiera bianca, in attesa di capirci di più. Stanchi di vivere sulla linea di confine, di cercare di creare un ponte che momentaneamente sembra interrotto dalla confusione creatasi all’interno delle comunità musulmane dopo le primavere arabe. Sebbene siano convinti che si debba fare qualcosa, reagire, perché l’attrazione verso il Califfato è sempre più diffusa. Soprattutto nelle organizzazioni più intransigenti, legate all’Alleanza islamica o ai Fratelli musulmani, divisi al loro interno sul Califfato fra chi simpatizza per i terroristi e chi si limita a liquidare l’Is come un ennesimo nefasto prodotto dei complotti americani. Per ora, quindi, si tratta di cogliere frasi lasciate in sospeso, indizi che vanno interpretati, allungando la vista. E bisogna limitarsi a soppesare le parole di chi, sebbene rispetto alla disponibilità di una decina d’anni fa non abbia più voglia di esporsi, ci dice che all’interno di alcune comunità si discute: se sia il caso di denunciare gli aspiranti jihadisti, o sia meglio stare in silenzio, per impedire che il paese che li ospita o che li ha visti crescere – a volte dando a volte togliendo loro ogni possibilità di integrazione, in modo del tutto casuale e improvvisato – diventi troppo ostile, ancora più diffidente nei confronti di tutti i musulmani. Terrorizzati all’idea che l’opinione pubblica torni a fare l’equazione islamico osservante uguale terrorista. Per ora si tratta di sensazioni, di considerazioni che rimangono anonime, ma che rivelano anche un’altra evoluzione: la nascita di un sentimento che si sta sviluppando anche fra alcuni musulmani di prima generazione, arrivati in Italia, 20-30 anni fa e che improvvisamente cominciano a considerare il Califfato come una terra promessa, dove poter vivere secondo le leggi della sharia. Cosa sta succedendo nelle comunità islamiche italiane? Per ora la risposta è un punto interrogativo, con una considerazione condivisa dalla piccola cordata di musulmani che considerano l’islam una religione di pace, ma preferiscono tenersi lontani da ogni confronto pubblico, che è la seguente: “La mancata presa di posizione comunitaria di tutti i centri islamici contro il terrorismo dell’Is, si trasformerà in un boomerang per tutti i musulmani italiani”.
Piste difficili
Secondo gli investigatori che cercano di contrastare il fenomeno, per ora ancora molto contenuto, del jihadismo autoctono, ci sono tre piste da seguire. Quella albanese, che attraverso reclutatori porta gli aspiranti combattenti italiani in Siria, grazie al sostegno di comunità salafite in Albania. Quella bosniaca, che ha acceso i riflettori su un gruppo di giovani islamisti, che vivono in provincia di Belluno e nel nord-est, composto da italiani convertiti, maghrebini, kosovari, bosniaci, seguaci dell’imam salafita Bilal Bosnic, ora arrestato in Bosnia, – che avrebbe contribuito alla radicalizzazione e forse alla partenza di alcuni aspiranti jihadisti, fra cui Ismar Mesinovic e Munifer Karamaleski –, e aveva predicato anche in numerosi piccoli centri di preghiera a Siena, Cremona, Bergamo. Ma per chi vuole cercare di capire cosa sta succedendo fra i giovani musulmani, non è sufficiente, seguire le piste investigative su alcuni gruppi che stanno cercando di creare una filiera per portare jihadisti autoctoni nella terra del califfo. Perché se vogliamo cogliere i segnali di una lenta ma crescente radicalizzazione fra gli immigrati di seconda generazione, ci interessa raccontare anche storie che, tranne per alcune eccezioni, non sono state messe sotto la lente delle indagini giudiziarie.
Come quella di un adolescente marocchino che non frequentava alcuna moschea, giocava a calcio e dopo la scuola andava a lavorare con il padre in una bancarella ambulante a Roma. Improvvisamente è cambiato. Nelle sue giornate si è inserito un gruppo di musulmani, che lo ha lentamente sottratto alla famiglia. Creando dei buchi neri: ore, giorni in cui scompariva, con una scusa. Andava a Milano, forse a Bologna, con degli amici. E una volta tornato a casa si chiudeva nella sua stanza per passare ore, notti, collegato a internet. E aveva smesso di comunicare con i parenti, finché la sorella ha scoperto che nel suo pc c’erano collegamenti a numerosi siti jihadisti, mentre la madre ha trovato in un cassetto delle mazzette di euro, appoggiate su un velo di talco: per verificare che nessuno della sua famiglia le avesse spostate. Interrogato dai genitori, si è chiuso dentro la sua fortezza. Così la madre, terrorizzata all’idea che potesse essere finito in un giro fondamentalista pro Is, ha deciso di portarlo con una scusa in Marocco, poi gli ha tolto il passaporto per impedirgli di tornare in Italia. Nella speranza che nella famiglia di origine fosse più vigilato, più al sicuro, che in Italia. Un paradosso: sembra più semplice contrastare il processo di radicalizzazione di un giovane immigrato nel suo paese di origine, che in Italia, in Europa.
E’ il dramma celato dietro le mura domestiche di molti immigrati, integrati da decenni. Una storia simile a quella di un marocchino di 35 anni, senza un lavoro stabile, padre di due figli, nessuna frequentazione in moschea, che fino a metà agosto sul suo profilo facebook, postava messaggi normali: fotografie dei figli, immagini di ordinaria e banale quotidianità di una famiglia di immigrati. Poi improvvisamente lui, che beveva alcolici e non osservava il digiuno del Ramadan, ha cambiato atteggiamento. Ha cominciato a dire al figlio maschio che la madre era un’infedele, a fare discorsi sul suo diritto a riportarsi suo figlio a casa, per una visita in Marocco. Tutto è cominciato un giorno, dopo essersi recato in un Internet Point, dove si offrono servizi di traduzione per i documenti dall’arabo in italiano. Una settimana dopo ha annunciato di avere trovato lavoro in quel centro, e ogni pomeriggio spariva. La moglie, insospettita, ha chiamato il centro, dove le è stato detto che non lavorava lì. Ma dal 24 agosto sul suo profilo facebook sono apparsi dei versetti del Corano. Più che altro metafore. Con riferimenti nascosti al Califfato, alla terra promessa dove fare la guerra agli infedeli. In questo caso, ma si tratta di un’eccezione, la moglie si è fatta coraggio e ha denunciato il marito alla polizia per paura che le portasse via il figlio. Esattamente come ha fatto, in Veneto, il bellunese Ismar Mesinovic, bosniaco, che ha lasciato la moglie a piangere davanti alla fotografia di suo figlio, portato in Siria dal marito, dove ha trovato la morte che desiderava, da shahid, da martire.
[**Video_box_2**]Storie confermate anche da Souad Sbai, da anni impegnata nella difesa dei diritti delle donne maghrebine che, per via della radicalizzazione dei loro mariti, hanno perso le tracce dei propri figli, riportati nei paesi di origine. Soaud Sbai afferma al Foglio “di assistere a una radicalizzazione crescente fra i giovani di seconda generazione, anche se per ora si tratta di casi isolati”, precisa. Drammi familiari, dunque, che evocano parzialmente quelli che emersero negli anni 2000, quando però la narrazione procedeva al contrario. Allora madri disperate dovevano difendersi dalla violenza di mariti padri-padroni, immigrati di prima generazione, che volevano impedire ai figli di assimilarsi alla società italiana, di subire il contagio culturale del modello occidentale. Vietavano ai figli di parlare italiano in casa, di suonare uno strumento musicale a scuola, o alle figlie di vestirsi come le loro coetanee. Ora, invece – tranne per alcune eccezioni rappresentate da alcuni adulti immigrati ma non integrati – sono i figli, soprattutto adolescenti, a rappresentare un pericolo. Rifiutano di pensare di avere un futuro in Italia. Tragedie familiari per chi è arrivato in Italia tanti anni fa con un bagaglio di sogni semplici: un lavoro e una vita più agiata e ora – senza capire cosa stia accadendo in medio oriente, senza avere conoscenze sufficienti – questi immigrati di ieri sanno solo che devono controllare i propri figli: vanno a prenderli a scuola, spiano nei loro computer, nei telefonini, li seguono per capire dove vanno quando prendono il treno, o quando – come sta accadendo in provincia di Napoli –, spariscono di notte e tornano all’alba, senza dare spiegazioni. Per questi genitori, che appartengono alla maggioranza silenziosa dei musulmani che non frequentano una moschea, e al massimo si limitano a osservare il Ramadan, il problema è la solitudine. Perché una cosa è capire che un figlio sta cambiando pelle e un’altra è avere il coraggio di presentarsi in questura, fare delle denunce. E allora ci viene in mente una suggestione, l’impressione colta in un attimo, giorni fa: un giovane musulmano lombardo, laureato, educato, ben vestito, che, alla fine della preghiera di un centro islamico di “nuova generazione”, frequentato da giovani nordafricani devoti al verbo salafita, distribuisce ai fedeli un volantino su un centro dove si possono comprare biglietti, tradurre documenti, riparare computer. Esattamente come quello frequentato da un altro immigrato, che vive nella provincia di Roma, e ora sul profilo facebook posta messaggi cifrati sul Califfato.
In un esaustivo saggio pubblicato dall’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, e firmato da Lorenzo Vidino, “Il jihadismo autoctono in Italia, nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione”, viene descritto in modo dettagliato il profilo psicologico di alcuni jihadisti autoctoni. Profili che però non aiutano a capire cosa si sia inceppato nella loro mente. Perché alcuni dei terroristi autoctoni erano integrati, ma incapaci di vivere con una doppia identità, araba e occidentale, mentre altri, come il genovese Giuliano Ibrahim Delnevo, erano italiani convertiti, disadattati in cerca di un pusher, religioso o meno non importa, per potersi drogare e sottrarsi a un malessere nuovo o antico. E non è un caso che i più attivi nella propaganda pro Is, siano italiani convertiti o persone fragili, malate. Anas el Aboubi, per esempio, viveva in Valle Sabbia dall’età di sette anni e nel 2012 era così poco scaltro (o troppo fiducioso della democrazia italiana), da presentarsi in questura a Brescia per chiedere il permesso di organizzare una manifestazione in cui avrebbe bruciato bandiere israeliane. E dopo aver tentato invano di creare in Italia gruppi jihadisti, sulla falsa riga di Sharia4Uk, Sharia4Belgium, è partito per la Siria. Anche lui praticava la street dawa, il proselitismo di strada, adottato dal gruppo bellunese, e dalle moschee dei giovani di nuova generazione presenti nell’hinterland milanese. Si è parlato tanto anche di Ammar Bacha, il siriano partito per la Siria nel 2012, che ora è tornato a casa, a Cologno Monzese, dritto dal jihad alla trasmissione “Le Iene”, come se fosse un percorso naturale, a strologare sulle guerre giuste. I fermenti jihadisti avanzano, e il radicalismo pure, anche se non sempre possono essere sovrapposti. Come spiega Giovanni Giacalone, studioso del radicalismo islamico balcanico, convinto che si debba monitorare con attenzione cosa accade nelle enclave salafite nei Balcani. “Per molto tempo si è pensato che la minaccia jihadista nei Balcani non fosse di dimensioni preoccupanti perché gli estremisti avevano fallito nel tentativo di radicalizzare la popolazione bosniaca, che è invece legata a un islam più laico se non etnico-culturale”, spiega al Foglio. “Si tratta di un ragionamento fuorviante perché sembra dare per scontato, che la minaccia sia direttamente proporzionale al numero di persone che gli estremisti riescono a radicalizzare. Senza tenere in considerazione la pericolosità di alcuni predicatori insediati in quelle enclave all’interno della Bosnia, nate dopo gli accordi di Dayton del 1995, dove sono state create delle reti internazionali con stretti legami in Austria, in Germania e in Italia”.
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