Matteo Renzi (foto LaPresse)

Non s'arresta la deindustrializzazione per via giudiziaria

Alberto Brambilla

Il ddl “Reati ambientali”, la contesa su salute e lavoro in Parlamento, il rischio di una sconfitta per tutti.

Roma. Ieri l’Istat ha certificato un ulteriore aumento della disoccupazione nazionale, arrivata a toccare di nuovo il 12,6 per cento. Cinonostante, il numero della popolazione attiva è aumentato: flebile segno di una certa vitalità del mercato. Uno dei tentativi del governo, adesso, è quello di tamponare una prolungata crisi industriale in settori particolarmente nevralgici per l’economia nazionale. La crisi dell’acciaieria Ast di Terni di proprietà della tedesca Thyssenkrupp è un esempio, ma non è la sola a impensierire l’esecutivo. In altri siti sono in corso ristrutturazioni drastiche mentre la maggior parte delle imprese soffre, nel complesso, un calo del fatturato e dell’occupazione.

 

Ma c’è un altro fattore decisivo per il futuro dell’industria pesante che merita l’attenzione del governo di Matteo Renzi; ne va della certezza del diritto e della possibilità di fare impresa in questo paese. Riguarda il disegno di legge in materia di reati ambientali in discussione dal febbraio scorso presso le commissioni riunite di Giustizia e Ambiente del Senato. La materia può avere ripercussioni su dossier aperti già molto critici, dall’acciaieria Ilva di Taranto alla centrale termoelettrica Tirreno Power di Vado Ligure, per citare i casi più noti. Cioè dove gli interventi coercitivi della magistratura hanno messo in ginocchio interi siti produttivi aggravando così le crisi strutturali di alcuni settori vitali per l’economia locale e nazionale, senza però portare a uno sbocco positivo né per l’ambiente né per la produzione. Il disegno di legge è la prima iniziativa parlamentare che si propone di riordinare e normare nel codice penale la confusa fattispecie del “disastro ambientale”, anomalia dell’ordinamento italiano.

 

[**Video_box_2**]La contesa che si va profilando fino al 19 novembre, quando verranno presentati gli emendamenti, è tra un pezzo della magistratura e la grande industria. I giudici paladini dei movimenti ambientalisti, o quanto meno una parte di loro, vorrebbero aumentare i poteri dell’autorità giudiziaria, poteri paragonabili a quelli antimafia per punire i delitti per inquinamento o disastro financo con la detenzione, come si prevede nella proposta di legge. La Confindustria, invece, che opera in sintonia con la grande industria, chimica, siderurgica, energivora e non solo, invece invoca una riflessione più attenta nel merito: l’Associazione degli industriali condivide la necessità di reagire in maniera incisiva alle condotte criminali e di insistere per una maggiore tutela dell’ambiente, ma in primis rivendica la necessità di prestare attenzione ai princìpi di proporzionalità e meritevolezza della pena e a distinguere in maniera netta tra l’agire della criminalità organizzata e quello di chi fa impresa. “E’ nostra ferma convinzione – ha detto il direttore generale Marcella Panucci in un’audizione parlamentare dell’11 settembre scorso – che in un paese come il nostro a forte vocazione industriale la tutela dell’ambiente debba essere declinata nell’ottica di realizzare uno sviluppo sostenibile in cui le esigenze ambientali, sociali ed economiche siano tutte contemperate”. Il testo in esame al Senato, nella visione confindustriale, non fa la dovuta differenza e non tiene adeguatamente conto della possibilità che l’imprenditore – che per negligenza, impossibilità o incapacità non aveva provveduto ad adeguare gli impianti alle migliori tecnologie ambientali – si ravveda e quindi adegui l’azienda, la riconverta, o la renda meno inquinante usando risorse proprie. “Se questo impianto venisse confermato – ha detto Panucci – ne deriverebbe un’incontrollata espansione della responsabilità penale con conseguente grave pregiudizio delle attività imprenditoriali”. Che scelte legislative poco meditate o frutto di situazioni emergenziali siano ostacolo all’economia e agli investimenti esteri lo dice anche il rapporto Ocse 2013 sulle performance ambientali dell’Italia.

 

E il risultato di un atteggiamento intransigente è possibile constatarlo osservando il prodotto dei recenti interventi a gamba tesa della magistratura: si è arrivati a uno stallo, una situazione lose-lose, per cui non vince né l’ambiente né l’impresa ma si penalizza soltanto l’economia. E’ forse azzardato parlare di una deindustrializzazione per via giudiziaria ma poco ci manca.

 

Caso Ilva. Gli interventi della magistratura tarantina di due anni fa, un sequestro preventivo con facoltà d’uso delle area a caldo e un blocco temporaneo del circolante, con i successivi strascichi, hanno prostrato la più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa, la prima manifattura d’Italia per numero di addetti diretti e dell’indotto, il pilastro dell’economia pugliese, l’impresa cardine per l’intero comparto della metalmeccanica e della meccanica nazionale, nonché fucina di giovani ingegneri siderurgici guardati con invidia anche dall’estero. La produzione è drasticamente ridotta (6 milioni di tonnellate contro 10 potenziali), la carenza di liquidità per pagare stipendi e fornitori è cronica. Entro l’anno il commissario Piero Gnudi spera di trovare un acquirente. La procura di Milano ha forzato il recupero dei capitali detenuti all’estero dai Riva – i proprietari dell’Ilva non ancora sottoposti a processo – ai fini dell’ammodernamento degli impianti e delle bonifiche ambientali; tuttora incomplete per la parte più consistente e decisiva. Ottenere effettivamente quegli 1,2 miliardi sarà un processo lungo e incerto. Peraltro i giudici tarantini non la pensano come quelli milanesi: per loro, bonifiche o no, il dissequestro non è in discussione.

 

Altro caso è quello della piccola Siderpotenza dei Pittini, chiusa per poche settimane questa estate e poi riaperta con la facoltà d’uso degli impianti: qui lo stop giudiziario è passato sotto silenzio.

 

Più enigmatico il comportamento dei giudici di Savona che tengono in scacco la centrale Tirreno Power da marzo. Una vicenda in cui la magistratura – che ha ammesso che non sono stati superati i limiti legali di emissioni – ha costruito un teorema configurando il nesso tra malattie, morti e inquinamento. Un nesso smentito dai fatti: da quando la Tirreno è chiusa l’inquinamento è invariato. Ultimamente la procura interferisce usando metodi poco ortodossi nel processo istituzionale – riservato a enti locali liguri e infine al governo – che dovrebbe un giorno portare alla riconversione dei due impianti a carbone sequestrati otto mesi fa. Come documentato sul Foglio dell’8 ottobre, il procuratore Francantonio Granero ha torchiato un alto dirigente regionale che si era occupato in prima persona della pratica, inquietando i suoi colleghi. Le prescrizioni decise il giorno seguente dal comitato istruttore sull’Aia, dacché erano in linea con le migliori pratiche europee, come da proposta degli enti locali, sono diventate abnormi: emissioni incredibilmente basse e tempi rapidissimi per i lavori di risanamento. Al punto che per l’azienda, pronta a investire 860 milioni, sono “inapplicabili”. Tirreno presenterà le sue controdeduzioni il 18 novembre, intanto centinaia di aziende dell’indotto e il porto di Vado, che non riceve più carbone, sono in sofferenza. Seicento famiglie si interrogano sul loro futuro. Lavoratori e ambientalisti si sono incontrati di recente. Cominciano a pensare che si stia rischiando una “sconfitta per tutti”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.