Stefano Cucchi (foto LaPresse)

Davanti alla foto

Luigi Manconi

Ha fatto bene, Giuliano Ferrara, a sollevare qualche dubbio robusto sull’uso cinico della morte, che sarebbe svelato dalla pubblicazione sregolata e parossistica di immagini macabre.

Ha fatto bene, Giuliano Ferrara, a sollevare qualche dubbio robusto sull’uso cinico della morte, che sarebbe svelato dalla pubblicazione sregolata e parossistica di immagini macabre. E non solo per il rischio di esaltare uno sguardo morboso su corpi martoriati, ma anche per lo scarso “rispetto per la semplice verità, che in molti di questi casi è difficile a rivelarsi”. Una riflessione è, dunque, opportuna perché non c’è dubbio che una certa “pornografia della morte”, lungi dal costituire un fattore di verità, può trasformarsi agevolmente in una sorta di sentimentalismo dell’orrore. Ma c’è un dato – che mi viene da definire materiale – difficilmente ignorabile. Se dal ragionamento generale, passo alla circostanza concreta, devo dire che senza la pubblicazione delle foto del volto di Stefano Cucchi, scattate all’obitorio, la sua vicenda sarebbe finita nell’oblio. Sono state quelle immagini – è inconfutabile – a determinare l’attenzione dell’opinione pubblica, delle istituzioni, e perfino di una parte della classe politica e a  impedire, così, che quella vicenda venisse silenziosamente archiviata. Ricostruisco i fatti.

 

Nel pomeriggio del 27 ottobre 2009 io, Valentina Calderone e Valentina Brinis, ricevemmo dai familiari di Stefano Cucchi quelle foto. Si trattava di immagini davvero crudeli, di intensa vividezza e di impatto brutale. Quelle foto non solo provavano inequivocabilmente che violenze c’erano state, ma ne tracciavano in qualche modo la dinamica e disegnavano una mappa anatomica degli abusi patiti. Immagini strazianti, destinate inevitabilmente a colpire la sfera della sensibilità individuale. E a innescare un meccanismo emotivo che avrebbe suscitato più pietà che consapevolezza e più compassione che ragionamento. Non solo: ricorrere a una dinamica psicologica, quando la questione richiama profonde implicazioni giuridiche e politiche, può costituire sempre un rischio, può spostare l’attenzione verso una dimensione impropria e può prestarsi a speculazioni di segno opposto. D’altra parte, risultava evidente che attraverso quelle foto, si penetrava, con tutta la potenza dei media, nella sfera più intima della personalità. Laddove il corpo inerme, il corpo degradato, il corpo senza vita acquisisce una dimensione che non è enfatico definire sacra perché rimanda all’origine stessa della sua identità, che è un’identità caduca. Il corpo del morto è a tal punto sacro che, presso tutte le culture, è definita come sacrilegio qualunque offesa gli venga portata. In ogni caso quel corpo senza vita appartiene a chi ne è stato titolare e a nessun altro. L’unica eccezione immaginabile è rappresentata da chi lo (ri)prenda in custodia, in quel momento, in virtù del vincolo originario di genitorialità e di parentela. Un vincolo di sangue, certo, ma anche di accudimento reciproco tra la vita e la morte, dei genitori nei confronti dei figli, dei figli nei confronti dei genitori e tra fratelli e sorelle (consanguinei, appunto). Tutto ciò per dire che, ricevute quelle foto, non potei far altro che rimandare  qualunque decisione sul loro utilizzo ai familiari di Cucchi. Parlai con Ilaria la mattina del 28 ottobre, dicendole che ritenevo sbagliato anche solo comunicare la mia opinione prima di conoscere la loro, e che a quest’ultima mi sarei attenuto. Passarono quasi quattro ore e Ilaria mi comunicò che la famiglia aveva deciso per la diffusione di quelle immagini. Quindi, nel corso della conferenza stampa dell’indomani, le distribuimmo, autorizzandone la pubblicazione. Il resto venne di conseguenza.

 

[**Video_box_2**]Se fossero rimaste chiuse nel fascicolo processuale, il corpo e la memoria di Stefano non ne sarebbero stati così irreparabilmente segnati, ma quanto della verità di quei fatti sarebbe stato burocraticamente depositato e forse dimenticato – insieme a quelle foto – in un fascicolo? E lo stesso può dirsi di altre immagini strazianti. Lucia Uva ha raccontato il passaggio dalla semplice e tragica notizia della morte del fratello (trattenuto illegalmente per quasi tre ore in una caserma dei carabinieri di Varese) alla sua potente oggettivizzazione iconografica: “Ho smesso di piangere e ho iniziato a guardarlo. L’avrò guardato per un quarto d’ora senza dire una parola”. Il naso pesto, un bozzo dietro la nuca, un livido enorme sulla mano: per ogni segno, una giustificazione già pronta. “Prendo la macchina fotografica e inizio a scattare”, fin sotto il pannolone messo a coprire gli abusi tra i genitali e il retto. “Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte. Un simile scempio non può rimanere impunito”. Non doveva, Lucia, diffondere quelle foto indecenti del corpo martoriato del fratello? Non sapeva che così avrebbe attirato curiosità morbose? Certo, lo sapeva. Eppure non altro le restava: far vedere, far conoscere. Non la verità storica, né la verità giudiziaria, ma la semplice verità di quel corpo con cui l’una e l’altra, per quanto approssimative nelle loro ricostruzioni e acquisizioni, non possono non concordare. Quelle immagini di Cucchi, nuovamente esposte dalla sorella dopo l’assoluzione degli imputati, non sono un’ipotesi accusatoria determinata, ma stanno lì a ricordare che qualsiasi decisione giudiziaria non può prescindere dall’obbligo di spiegare la loro intima e impudica verità.

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