La fine della Belle Époque bancaria
Oggi, tutto in Italia dipende dalle banche, il sostegno del debito pubblico come il finanziamento delle attività economiche, la simbiosi è tale che la debolezza del sistema creditizio tira giù l’intero paese e viceversa.
Raffaele Mattioli, il carismatico capo della Banca commerciale italiana, nel 1961 descrisse in modo semplice ed efficace il ruolo delle banche “collocate ai crocicchi dell’economia, ma non come briganti in agguato, bensì come i vigili che regolano e distribuiscono il traffico”. Era così allora, ai tempi del miracolo economico; a mano a mano che quella spinta progressiva si è spenta, il vigile si è trasformato in demiurgo. Oggi, tutto in Italia dipende dalle banche, il sostegno del debito pubblico come il finanziamento delle attività economiche, la simbiosi è tale che la debolezza del sistema creditizio tira giù l’intero paese e viceversa, tanto che l’esito negativo degli stress test è apparso una bocciatura parallela dell’Italia e delle sue banche.
Simon Nixon nell’articolo del Wall Street Journal che pubblichiamo spiega le componenti macroeconomiche. Ma i cahiers de doléances sono pieni anche di aspetti microeconomici e soprattutto istituzionali, a cominciare dalla proprietà. Fino ai primi anni Novanta le più grandi banche erano pubbliche o direttamente o attraverso l’Iri. Il governo e i partiti decidevano i vertici e ne ricevevano benefici (anche clientelari, persino illegali, ma il più importante era di gran lunga lo scambio politico). Il 30 luglio 1990 la legge Amato trasforma le banche in società per azioni e fa nascere le fondazioni. Il modello ideale, in realtà, è quello francese con un nocciolo duro e il resto libero sul mercato. La prima privatizzazione, quella del Credito italiano nel 1993, introduce una pluralità di soci (Pesenti, Del Vecchio, Benetton, Stefanel, Della Valle, Maramotti, Caltagirone, la Ras) nessuno dei quali possiede una quota superiore al 3 per cento. Tuttavia, il nucleo originario (anche in questo caso un “nocciolino duro”) si frantuma presto.
Il vuoto creato da capitalisti privati poco disposti a rischiare, viene riempito in quasi tutte le banche dagli “ircocervi” (come lo stesso Amato chiamò le fondazioni). Queste istituzioni para-pubbliche i cui vertici sono nominati o comunque influenzati dagli equilibri politici locali e nazionali, diventano azioniste di riferimento di Unicredit, Intesa Sanpaolo, Capitalia, Montepaschi, per citare i principali istituti. Il loro punto forte è che sono piene di quattrini e danno stabilità, impedendo che le banche italiane diventino prede (così si dice) dei supermercati finanziari stranieri. Inoltre mantengono il legame con il territorio considerato virtù eccellente del modello italiano. Ma alla svolta del secondo millennio il paradigma degli anni 90 salta. Prima un tourbillon di aggregazioni nazionali, poi l’attacco a Mediobanca rimasta priva di Enrico Cuccia e le megafusioni del 2007. Finché non arriva la grande crisi. Il Monte dei Paschi di Siena è un caso limite, ma si rispecchia in Carige, la Cassa di risparmio di Genova (anch’essa bocciata) dove la fondazione aveva rifiutato l’aumento di capitale per paura di diluire un controllo che spesso è fine a se stesso, o meglio “serve a estendere le carriere politiche”, come sottolinea Luigi Guiso ex Banca d’Italia e ora allo European University Institute di Firenze. Tipico il caso della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che ha bruciato il patrimonio investendo il 70 per cento del capitale in Banca Marche, lasciando peraltro che la banca contravvenisse a ogni principio di sana e prudente gestione. Oppure della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara che, pur detenendo il 54 per cento della Cassa di Risparmio, l’ha accompagnata al commissariamento. Senza dimenticare la Fondazione del Monte di Parma, salvata solo dall’intervento di Banca Intesa.
[**Video_box_2**]Il Montepaschi domani riunisce il consiglio d’amministrazione e probabilmente lancerà un aumento di capitale per coprire i 2,1 miliardi mancanti, come emerso dagli stress test, con i vecchi azionisti e forse qualche nuovo fondo d’investimenti. Parteciperà anche la Fondazione. Mps ha pensato di uscire dagli scandali del 2012 cambiando tutto, ma non l’essenziale, quanto potrà durare? Sono proprio questi meccanismi perversi a rendere molto più difficile riformare le banche italiane, dice il think tank europeo Bruegel. Tanto più che tre successive recessioni hanno disseccato le stesse fondazioni, mentre i crediti concessi non rientrano e la politica monetaria accomodante porta i tassi d’interesse a zero. Le banche italiane fanno poco trading e questo è stato cantato come un segno di stabilità: non giocano con i derivati come Deutsche Bank, non rischiano di crollare sotto i colpi della speculazione. Ma fanno anche meno utili. I profitti vengono principalmente dai margini d’interesse che con la crisi si sono ridotti. Un’altra importante fonte di guadagno deriva dai servizi offerti alla clientela, qui però le banche italiane sono molto più indietro rispetto alle europee. La redditività del capitale è stata negativa tra il 2010 e il 2013, secondo la Bce, per l’effetto congiunto di tutte queste debolezze. L’impiego di internet ha introdotto un vero salto tecnologico nel mestiere del banchiere che, in fondo, ha a che fare proprio con l’informazione. Il vigile di Mattioli è l’anello di congiunzione tra chi ha denaro ma non sa dove impiegarlo e chi sa che cosa fare ma non ha mezzi; questo scambio di notizie un tempo avveniva guardandosi negli occhi, oggi con un clic. E anche qui le aziende creditizie italiane hanno gran terreno da recuperare. Tutti i vecchi punti di forza del sistema nazionale, sotto i colpi degli stress test si sono rivelati anelli deboli. Si può ancora vantare il fatto che in Italia le banche non sono state salvate né dai contribuenti né dalla Troika. Legittimo motivo d’orgoglio. Tuttavia ora che siamo alla vigilia di una profonda trasformazione innescata da Mario Draghi, in molti si domandano se ne sia valsa davvero la pena.
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