Il doppio euro è il fondale ambiguo della nostra crisi
E’ tutta colpa della Germania, si sente dire: non fosse per loro avremmo la crescita al 3 per cento, l’euro a 1,10 sul dollaro e la disoccupazione al 5 per cento. La vittoria simbolica di Renzi a Bruxelles, l’idea di alternative radicali e i limiti di tutto ciò.
E’ tutta colpa della Germania, si sente dire: non fosse per loro avremmo la crescita al 3 per cento, l’euro a 1,10 sul dollaro e la disoccupazione al 5 per cento. Basterebbe poco, si sente dire, basterebbe che invece di vendere macchine ai cinesi facessero ponti e ferrovie per sé, oppure se continuassero a esportare ma usassero il loro surplus per comperare il nostro debito.
Eppure lo sanno anche i tedeschi che le economie basate sull’esportazione, esposte a choc indipendenti dalla loro volontà, sono più vulnerabili che economie basate su un vivace mercato interno. Ma, che sia perché non ritengono vantaggioso un cambio di indirizzo, oppure perché non sanno come farlo, tutti – governo, Parlamento, opinione pubblica – sono contrari ad attuarlo, così come sono contrari a farsi carico dei nostri debiti. Si possono immaginare scenari capaci di convincerli: solo che a soffrirne per primi saremmo noi. Un rallentamento della loro economia, oltre i segni che ora si colgono, sarebbe un dramma per un’Italia che manda in Germania il 12,4 per cento (2013) delle esportazioni, in buona parte poi riesportate nei prodotti che la Germania vende all’estero.
Un ulteriore deterioramento delle economie dei paesi deboli che fosse percepito come un rischio per sé potrebbe indurre i governi tedeschi a proporre politiche che la maggioranza dei cittadini considera contrarie ai propri interessi: ma lo farebbero solo a patto di contropartite, e queste non potrebbero che essere ulteriori cessioni di sovranità, limitate solo dalla disponibilità ad assumersi il compito di esercitarla: ossia un inasprirsi dei rigori che vorremmo alleviare.
Quella ottenuta dal governo Renzi in Europa è una vittoria simbolica: un decimo di punto di pil non fa la differenza tra una politica di austerità e una di stimolo, dimostra semmai che in Europa l’Italia non ha più carte da giocare. Tant’è che fioriscono proposte di cambi radicali. Ci sono i 400 miliardi di investimenti finanziati da dismissioni; c’è la panoplia di strumenti che la Banca centrale europea dovrebbe adottare per scongiurare la deflazione, Quantitative easing (Qe o allentamento quantitativo) esteso a titoli di stato, il raddoppio del piano da 300 miliardi che è valso a Jean-Claude Juncker la presidenza della Commissione: quale più quale meno, tutte proposte di dubbia praticabilità e di incerta efficacia. La politica monetaria può fare ben poco, quando i tassi a lungo termine dei titoli privi di rischio sono già prossimi allo zero.
C’è chi sostiene che comunque ci sarebbe un effetto significativo sui titoli dei paesi più a rischio, ma il Qe funziona sui term-premia e sui liquidity-premia, non sul premio per il rischio di default, a meno di essere disposti a comperare tutti i titoli di quell’emissore: ha senso economico distorcere così il mercato?
Altri, più radicali ancora, considerano fallita l’ipotesi fondante di Maastricht: quella per cui l’impegno a osservare i famosi parametri, il divieto di monetizzare il deficit e di mutualizzare i debiti, la rigidità all’uscita dall’euro, valessero a realizzare un’area economica ottimale attraverso la progressiva convergenza di economie diverse. Per il francese François Heisbourg si potrà ritornare all’euro solo dopo un “terremoto programmato” da Francia e Germania per porvi fine; per il tedesco Hans Werner Sinn all’Italia non resta che affrontare un programma uscita-svalutazione-rientro, (con la non irrilevante precisazione che i cittadini italiani siano i primi a pagare i costi del bail-in con i propri patrimoni). Altri (Luigi Zingales, Allan Meltzer, Charles Blankart, interpellati dal Foglio) propongono l’uscita della Germania dall’euro, dando luogo a due unioni monetarie, euronord ed eurosud.
Il difetto delle soluzioni radicali è che, concentrandosi sui rimedi ai mali, tendono a dimenticare le cause che le hanno prodotte. Soluzioni radicali avrebbero dovuto essere le nostre svalutazioni, del 1964, del 1976, del 1992. L’attacco alla lira del 1992 consentì al primo governo Amato di prendere decisioni altrimenti impensabili, pensioni, banche, partecipazioni statali: una svolta impressionante, tagliò rami madornali, ma non modificò la pianta.
Quando Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi impegnarono il loro peso politico per riuscire a entrare nell’euro con i primi, e ci chiesero l’eurotassa, la descrissero come un prestito, che sarebbe stato rimborsato con i soli minori tassi di interesse sul debito. Come dire un pasto gratis: altro che riforme strutturali! D’altra parte è naturale che le riforme fatte sotto il vincolo estero tocchino le parti più esterne ed esposte dell’economia e non arrivino a modificarne le strutture profonde (e protette). Nella seconda metà degli anni 90, le grandi privatizzazioni ridussero lo stock del debito, ma non intaccarono i flussi: nel 2000 il nostro debito stava a 1.592 miliardi, all’inizio della crisi nel 2008 a 1.705, a luglio di quest’anno a 2.168. Ma noi continuiamo a dire (come ancora pochi giorni fa l’economista Lucrezia Reichlin, discutendosi all’Istituto Bruno Leoni di spending review) che, con il 45,5 per cento (2013) sul pil, la nostra spesa pubblica primaria non è molto diversa dal 42,5 per cento della Germania (e già tre punti non sono pochi). Invece la spesa pubblica è un bene di lusso, spende di più chi più guadagna: e quindi, se rapportata al pil pro capite, la nostra spesa pubblica primaria dovrebbe essere più vicina al 35 per cento che al 45. Nella sanità i tedeschi spendono 3 decimi di punto di pil meno di noi (7 per cento contro 7,3 per cento nel 2012), e non è che gli ospedali tedeschi siano fatiscenti. Guardiamo all’introduzione dei costi standard come al rimedio per rimettere in riga le amministrazioni spendaccione: ma una ricerca condotta da Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti rileva che, considerando anche il costo della casa, gli stipendi nel mezzogiorno, a parità di potere di acquisto sono di più del 30 per cento superiori a quelli del nord: con il che i costi standard invece che strumento di efficienza diventano autorizzazione allo spreco “bollinato”.
Funzionerebbe l’Europa di Plombières? L’eurosud avrebbe il suo trattato (magari firmato a Plombières?). La sua Banca centrale probabilmente avrà un mandato simile a quello della Federal reserve americana, sarà autorizzata a emettere euro(sud)bond. Ma ci saranno sempre parametri da rispettare e sanzioni per chi li viola: perché un’unione monetaria nasce per evitare le svalutazioni, quindi deve imporre una disciplina. Le regole della Plombières dei sovrani saranno tanto diverse da quelle della Maastricht dei moschettieri? Saranno tanto diverse le politiche necessarie per contenere i costi pubblici e aumentare l’efficienza di un’economia come la nostra che ha incominciato a perdere competitività prima di Lehman? Sarà tanto diversa la nostra vita? Vale la pena affrontare una transizione di infinita complessità e di insondabili costi, per fare sotto Plombières la stesse cose che, se le facessimo (se le avessimo fatte) sotto Maastricht, di Plombières non ci sarebbe bisogno? Non è neppure detto che con la svalutazione esporteremmo di più: nulla impedirebbe al nord di proteggersi da svalutazioni competitive mettendo dazi sui nostri prodotti. In ogni caso ci costerebbe di più produrre perché pagheremmo di più ciò che importiamo. Potremmo avere un aumento dei redditi, ma saranno solo redditi nominali, non reali, perché l’inflazione si mangerebbe tutti i guadagni (nominali). Diminuirebbe il peso del debito, ma dovremmo pagare un tasso d’interesse maggiore: non ci sono default gratis.
[**Video_box_2**]Sul progetto Europa si sono fatti investimenti politici smisurati, senza precedenti nella storia. A parte le difficoltà tecniche, le conseguenze economiche, il problema giuridico di rinegoziare un trattato tra 26 contraenti ciascuno con diritto di veto, non riesco a vedere nessuno, alla Cancelleria, o all’Eliseo, o a Palazzo Chigi, nell’atto di firmare un atto che pone fine al progetto Europa. Più ragionevole che dividere l’Europa in due è riconsiderare che cosa significhi oggi quel progetto. La retorica di 50 anni fa (mai più guerre sul suolo d’Europa) è un ricordo lontano, non smuove gli animi. Il sogno federalista degli Stati Uniti d’Europa oggi sarebbe solo vento a gonfiar le vele e moltiplicare i voti dei vari leghisti, lepenisti, seguaci di Alternative für Deutschland. L’ambizione di avere un peso geopolitico adeguato – ammesso che sia capace di scaldare i cuori europei – non si concilia con le nostre striminzite spese militari, con quello che abbiamo mostrato di saper fare in Iraq, Libia, Siria, Ucraina, con una politica che non riesce a tener dentro un paese come l’Inghilterra.
Non si può fare Europa, men che mai due Europe, senza che ci sia un progetto capace di unirla. C’è un progetto europeo su cui, almeno a parole, si trova consenso: il mercato unico, un’area di libero scambio, di libertà economiche, una prossimità culturale condivisa (senza bisogno di costituzionalizzarne le radici), fondata sul rispetto dei trattati. Su quella strada si sono colti successi non disprezzabili, ma siamo lontani chilometri dall’avere creato uno spazio che si offra, permeabile e trasparente, alle iniziative. Andiamo avanti su quella strada, proteggiamo le individualità ed eliminiamo gli ostacoli, diamo agli europei i vantaggi di un mercato davvero unico: a quel punto ci sarà la possibilità che i popoli d’Europa accettino l’unione fiscale e la cessione di sovranità che essa comporta.
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