E ora che ci facciamo con tutto questo antiobamismo?
Chiacchiere post elettorali tra un obamiano ferito e un conservatore in sollucchero sul crepuscolo di un’idea, i rivolgimenti culturali d’America, nonna Hillary e il casting per selezionare il candidato indimenticabile.
Mattia Ferraresi: Non vorrei infierire – d’accordo, un po’ voglio – ma è necessario. Cos’è che fa più male di questa sconfitta?
Stefano Pistolini: L’ingiusta sofferenza fatta patire a Obama, che nelle mie graduatorie distinguo e distanzio assai dal Partito democratico. Anche se, a pensarci bene, credo che il presidente abbia sviluppato anticorpi sufficienti a reggere il colpo e ripartire con stile e credo con una cattiveria nuova, che scopriremo presto sul fronte interno. Della sconfitta democratica sono sostanzialmente soddisfatto, invece.
MF: Soddisfatto? I democratici si smarcano da Obama e tu fai l’obamiano che si smarca dai democratici? Poi lasciami dire una cosa sull’ingiusta sofferenza: perché ingiusta? Anche il presidente più messianico sbaglia e può essere punito. A meno che non sia il Messia in persona, allora è un’altra storia. Insomma, sofferenza sì, ingiusta proprio non direi.
SP: Io ragiono così: prendo le decisioni formulate da Obama nei grandi momenti e provo a pensare cosa avrei fatto io al suo posto, sia politicamente, ma soprattutto umanamente, ovvero nel tentativo di affermare il mio vero pensiero. In questo senso raramente mi sono trovato in disaccordo con il presidente, anche nei momenti apparentemente “esitanti”. E’ un mestiere difficilissimo, equilibristico: ecco, se voglio rimproverare qualcosa a Obama è forse di farlo in termini troppo filosofici. Nei democratici ho visto molto opportunismo e scarsa visione.
MF: E la rivoluzione liberal? Non ha alzato le tasse ai ricchi, non ha diminuito la sperequazione, non ha chiuso Guantanamo, ha fatto una riforma sanitaria pasticciata, ai popoli di mezzo mondo in rivolta contro i dittatori ha detto parole sentitissime, ma ha preso decisioni con altri criteri, direi con molto opportunismo e scarsa visione. Mi hai rubato le parole di bocca, ma io le avrei applicate a lui. Di questo un presidente deve rispondere.
SP: Ecco, vedi? Cominciamo a discutere su quello che ha fatto e non ha fatto Obama. Io posso risponderti dicendo che trovo storico il suo intervento sulla sanità. La Storia ci dirà. Di fatto ha subìto il contraccolpo della novità che ha incarnato e l’attitudine post crisi di pensare che sia sempre colpa di chi comanda a Washington se le cose vanno male, o ripartono a fatica. Credo che il rapporto di fiducia con il presidente sia cambiato, e che avremo modo di verificarlo presto. In questo il Gop è stato più sveglio, ha sentito l’aria che tira.
MF: Perdonami, ma “la Storia ci dirà” è un modo enfatico per dire che nel presente c’è poca sostanza. Il problema di Obama in fondo è questo: poca sostanza politica. Dici che il Gop ha sentito bene l’aria che tira, ma ha vinto soltanto perché ha saputo leggere il momento?
SP: La sensibilizzazione alla questione dell’ambiente e a quella dell’energia, l’attenzione all’educazione, l’apertura del tavolo dell’immigrazione, la definizione dei diritti gay sono oggetti indispensabili di progresso. Su questi Obama ha agito come mi auguravo che facesse, anche se non arrivando così avanti come avrei desiderato, perché le resistenze erano e sono fortissime. Il Gop ha avuto la capacità di fermarsi a pensare come ristabilizzarsi dopo le tramontane dei Tea Party. Ha fatto un paio di cose importanti. Soprattutto ha ampiamente rinnovato le sue fila, ha buttato dentro facce nuove. E’ importante. I dem non l’hanno capito con chiarezza. E adesso si ritrovano con una frontrunner che arriva dal XX secolo e rischia di apparire come una reliquia – altro che macchina da guerra.
MF: Reliquia è un termine calzante, contiene l’idea del sacro e del vecchio, non male, anche se riferito a una nonna… I reazionari come me contestano alla radice l’esistenza di “oggetti indispensabili di progresso”, ma capisco il tuo punto di vista. Se ci pensi il Gop in questa tornata ha applicato un principio obamiano: don’t do stupid shit. Hanno bloccato all’ingresso i candidati impresentabili e hanno fatto scontrare i neuroni. Io, che non ho una visione apocalittica della politica e che scriverei storia soltanto con la minuscola, non chiedo molto più di questo a un partito: tre o quattro punti attorno a cui articolare un programma, o – è ancora di moda il termine? – una narrazione. E’ stata una grande vittoria perché ha prevalso il realismo. Dimmi però chi ti ha impressionato di più: personaggi, innamoramenti, orrori…
[**Video_box_2**]SP: Mi piace questo formicolare di personaggi ancora in formazione, questa pletora di quarantenni con le maniche della camicia rimboccate alla Scott Walker. Mi pare che Rubio e perfino uno bello spostato a destra come Cruz, le nuove donne e quelli che arrivano dalla gavetta mettano al passato gente come Christie. Mi piace che a due anni dal voto ci sia confusione e una corsa aperta e mi piace che esista una credibile ipotesi di conservatorismo moderato. Credo che l’elezione del 2016 sarà un grande momento di ripensamento del significato della politica al presente e che i personaggi debbano essere altrettanto contemporanei e non rappresentanti di vecchie padronie e dubitabili casati. Non è escluso che oggi possano vederci più chiaro i repubblicani in questo. Se solo non avessero la tentazione di fare l’interesse di una parte a scapito di un’altra (giustizia sociale, si chiama. E Obama ha avuto presente il problema, per tornare daccapo…).
MF: A occhio stai rottamando secco Hillary e Jeb Bush mentre riabiliti la dialettica sulla giustizia sociale. A me interessa Scott Walker, e quasi m’interessa più di lui lo scottwalkerismo, che è un conservatorismo “down to earth”, orientato al fare e al crescere. C’è molto spazio di intersezione con i “reformicon” moderati e un po’ secchioni, il movimento più interessante nel mondo conservatore. Peccato che i reformicon siano di una noia impressionante. Dopo Obama tutti vogliamo il candidato che ci dà il brivido, quello politicamente intelligente non basta più. Forse è sempre stato così ed è una distorsione per cui va incolpato, come di molto altro, Kennedy, ma non ci giurerei.
SP: Certo: il casting nel 2016 può anche esulare dal programma ma non può non tener conto del valore “immaginario” del candidato. Che non è neppure più un fattore “televisivo”, perché adesso siamo ben oltre: è una specie di immanenza, ovvero quel progressivo transfert che fa sì che il pensiero che quel certo candidato esista e si batta per vincere ti fa star meglio, ti trasforma in un tifoso o in un attivista. Per questo motivo credo che quella del 2016 sia un’elezione tutt’altro che annunciata: bisogna pensarci bene e poi ripensarci ancora. Scegliere davvero il personaggio forte, che abbia un quoziente di “indimenticabilità”. Ti rendi conto che “serra creativa” sarà questa storia per la politica?
MF: La trasformazione dell’elettore in tifoso e attivista è una delle cose che mi spaventano di più, in generale. Forse soltanto la trasformazione in fedele di una chiesa laica era peggiore e ora la chiesa di chi ci ha provato è malconcia. Non so se saranno così importanti come dici le prossime elezioni. Di sicuro la destra ha il vantaggio del campo libero, mentre a sinistra il clintonismo pesa come una zavorra. Chi ha il coraggio di mettersi contro Hillary?
SP: In teoria hai ragione sull’elettore tifoso. Però il caso Obama e prima di lui proprio le corse di Kennedy che citavi dimostrano che, se si accende una passione extra attorno alla corsa presidenziale, si può contare sull’accesso di un elettorato che altrimenti può latitare. Bisogna convincerli a partecipare, ed è più facile con una faccia che con un discorso. Non credo si torni indietro da questa condizione condivisa, ma può anche darsi che la “forza” in questione sia quella di un’estrema ragionevolezza. Non è la bizzarria che convince, ma la voglia di fidarsi. Oggi non c’è un democratico che possa sfidare Hillary, anche se sono affascinato dall’idea di un’altra donna che provi a contenderle la nomination, dando vita a una corsa rischiosa, ma mediaticamente travolgente.
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