Matteo Renzi al termine della cena di ieri sera a Roma (foto LaPresse)

Infiltrati alla cena di Renzi

Claudio Cerasa

Nomi, volti, episodi, senso della politica. Cronaca di una serata milionaria di fronte "ar pupone" di Palazzo Chigi. 

“Devi venire a vedere”. Ve la raccontiamo tutta. Un imprenditore molto generoso ha invitato il cronista a partecipare alla cena di finanziamento organizzata ieri a Roma dal Partito democratico per foraggiare la corsa di Renzi. E il cronista lusingato, insieme con un suo collega, ovviamente ha accettato e ha passato quattro ore con alcuni amici nel grande Salone delle Fontane dell’Eur, un immenso centro congressi a due passi dal Colosseo Quadrato, dove periodicamente i grandi partiti organizzano grandi cene per portare un po’ di “piccioli” nelle casse dei propri movimenti. Lo ha fatto Renzi ieri sera – 85 tavoli, 1000 invitati, circa 1,5 milioni di euro incassati – e lo ha fatto in passato, nelle stesse stanze, negli stessi tavoli, con lo stesso catering, anche Silvio Berlusconi. Costo della cena di Renzi: 1.000 euro a persona. Costo delle cene di Berlusconi: 10.000 euro a coppia. Siamo al tavolo numero uno, sono le 21.30, gli ospiti si guardano attorno con fare curioso, timido e circospetto e, tra una vasca e l’altra, tra un tavolo e un altro, iniziano a osservare la fauna. Si scambiano contatti (che alle cene si chiamano “Matching”, o yeah). Si scambiano molte strette di mano e si danno, spesso con piglio virile, da chi la sa lunga, grandi pacche sulla spalla (regola delle cene di finanziamento: la pacca sulla spalla e la stretta di mano hanno un impatto sulla persona che li riceve direttamente proporzionale ai soldi sborsati per partecipare a quella cena: più è forte è la pacca più sono i soldi scuciti dall’imprenditore). I biglietti da visita si spostano da una mano all’altra. I politici fingono grande confidenza con persone mai viste ma con le quali devono mostrare complicità. Gli imprenditori inscenano svenimenti improvvisi di fronte al ministro Boschi per assicurarsi un selfie in prima fila con il ministro più coccolato della serata.

Si aspetta Renzi. Si scruta il menù. Ci si guarda in giro. E il taccuino comincia a riempirsi di appunti. Gli ospiti: chi c’era ieri da Renzi? I più famosi li avete letti oggi sui giornali. Non c’era er pupone, Francesco Totti, ma c’era er presidente della Roma, James Pallotta. C’erano i fratelli Toti, potenti imprenditori romani che negli ultimi dieci anni non hanno fatto a meno di offrire il proprio generoso contributo a tutti gli ex sindaci di Roma che con scarso successo hanno provato a fare quello che oggi Renzi è riuscito a fare. C’era il regista Fausto Brizzi, amico personale di Renzi, da cui il premier ogni tanto, quando può, si rifugia nella sua casa a San Lorenzo, a due passi dalla stazione Termini. C’era il costruttore Luca Parnasi. C’erano i politici, la mejo gioventù della classe dirigente romana. Di quella melassa democratica romana che ha sognato per anni di vedere i propri sogni realizzati dai molti sindaci che si sono candidati negli ultimi dieci anni a Palazzo e che oggi si ritrova qui a intonare Mat-teo-Mat-teo-Mat-teo pur avendo scoperto Mat-teo solo in età matura, nell’età della vittoria e non nell’età della sconfitta. C’è Matteo Orfini, presidente del Pd e nuovo pivot della politica romana. C’è Nicola Zingaretti, presidente della regione, diversamente renziano, diciamo così, che ha scelto di venire al Salone delle Fontane più per evitare l’effetto polemica (“Ah, hai visto, Zingaretti non c’era?”) che per voler segnare la propria vicinanza al nuovo re di Roma. C’era Goffredo Bettini, un tempo re di queste occasioni, lui che si inventò le candidature a Roma e poi fuori Roma sia di Francesco Rutelli sia di Walter Veltroni, e oggi in disparte, qui a Roma, dove i dirigenti del Pd lo accusano di essere allo stesso tempo il regista della vittoria dell’ultimo sindaco di Roma e il responsabile della scalata al potere di quel marziano (non è un complimento oggi) che guida la capitale. C’è Roberto Gualtieri, europarlamentare del Pd, il braccio di Renzi nell’economia della Commissione europea. C’è Enzo Amendola, responsabile esteri del partito. C’è Filippo Sensi, punto di riferimento dei vecchi e gasatissimi rutelliani romani che durante la serata lo vanno a omaggiare con una certa continuità, sperando poi che l’amico Nomfup riferisca questo o quel messaggio al compagno segretario. Ci sono i re della festa. I compagnoni. I barbari fiorentini diventati imperatori. Francesco Bonifazi (tesoriere del Pd, unico volto della serata ad avere in tasca tutti i nomi e i cognomi degli invitati, e unico uomo del Pd a essere avvicinato da alcuni imprenditori, pochi uomini, per fare alcuni selfie). Luca Lotti (zero selfie, grande potere, molti biglietti da visita ricevuti). Maria Elena Boschi (in versione Madonna del Petrolio, con gli imprenditori che chiedevano una foto per i figli – per i figli come no – con i politici arrivati all’Eur che la avvicinavano per portare un messaggio a Matteo – “Diglielo tu, te prego” – e con i camerieri schierati in fila indiana con il bigliettino in mano per potere fare un “ber serfie” con il ministro delle Riforme). C’era anche il ministro Andrea Orlando. Il ministro Marianna Madia. Simona Bonafè. Il diversamente renziano Giuseppe Fioroni (“Ce sto pur’io, prendilo come un segnale”).

Ma c’erano soprattutto gli imprenditori. E non quelli che solitamente finanziano una cena elettorale (inconsciamente e involontariamente tutti la chiamavano così, perché Renzi, anzi Matteo, è sempre in campagna elettorale, ok, ma perché le elezioni ogni tanto sembrano a tutti molto più vicine di mille giorni). Era un genere diverso. Con alcuni parenti stretti del generone romano (stile: cravattona grigio cenere con nodo grande come un iceberg, accento di Vigna Clara, camicia con muscoli ben definiti, scarpe squadrate come un vaso di terracotta, pantaloni aderenti, un filo di gel a tenere in alto il ciuffo, inebrianti profumi di colonia che a tarda notte si confondevano nell’aria con i profumi di filetto – “Aho c’è sta er filetto, era pure bbbono, nun ce stanno più e sasizze alle cene der Pd, me sa che hanno cambiato verso pure ‘n cucina”). Erano una categoria diversa. Non grandi capitani di industria. Non i grandi capitalisti. Più i figli del generone romano. Ragazzi e ragazze che hanno attraversato a nuoto mille correnti del centrodestra e del centrosinistra e che oggi si sentono rappresentate da questo presidente del Consiglio di 39 anni che ha passato la serata a rassicurare gli amici imprenditori (vedremo con che parole, con che frasi, con che espressioni).  Un nuovo generone ibrido, liquido, inafferrabile, che oggi, qui a Roma, si confonde con i nuovi signori del capitalismo. C’erano i tavoli organizzati dalla British American Tobacco. Quelli organizzati da Google Italia. Quelli organizzati dalla Maccaferri. Quelli organizzati dai molti studi legali romani (Gianni Origoni e compagnia) che hanno scelto di dare il loro generoso contributo “ar pupone” di governo. E c’erano, tra loro, anche alcuni volti, alcune facce, alcuni nomi che oggi sono di qua, che fino a poco tempo erano di là, ma che forse – anche in virtù del clima ibrido creato dal patto del Nazareno, che ha permesso forse a Forza Italia di restringere il suo perimetro elettorale ma che di certo ha permesso al Pd di allargare i suoi confini anche all’interno del vecchio mondo di Forza Italia – oggi qui si trovano persino più a loro agio degli ex anti renziani del Pd (ce ne erano molti all’Eur, uuu quanti ce ne erano) che in questo momento fingono di avere grande sintonia con un mondo con il quale non potranno mai sentirsi complici fino in fondo. E così, tra un tavolo e l’altro, capita di incontrare il super berlusconiano Giancarlo Innocenzi Botti, presidente di Invitalia, agenzia nazionale per l'attrazione d'investimenti e lo sviluppo d'impresa, che fu messo lì nel 2010 dall’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. C’è Riccardo Pugnalin, pezzo grosso romano, un tempo segretario di Dell’Utri, oggi anche lui vicino alla causa renziana. C’è Piero Tatafiore, ex portavoce dei clùb (con la u chiusa alla Berlusconi) delle libertà. C’è Stefano Pupolin, ex capo di gabinetto del ministro Marzano. C’è Chicco Testa, con Annalisa Chirico, che è una specie di secondo padrone di casa.

[**Video_box_2**]E poi ovviamente c’è Matteo. Vestito – indovinate come? – con la solita camicia bianca e la cravatta con nodo iceberg stile Vigna Clara e che passa la serata a raccontare, a spiegare, a rassicurare, a convincere. Il salone dell’Eur è l’altro volto della Leopolda e Renzi sa che coinvolgere oggi gli imprenditori è importante almeno come coinvolgere gli elettori: i finanziamenti ai partiti stanno finendo, i finanziamenti illeciti abbiamo capito che non sono cosa giusta e dunque, per quanto la cosa possa far venire le convulsioni al partito dei reduci, oggi per tirare avanti serve la Leopolda, servono i soldi raccolti con la fondazione Big Bang, i soldi cioè dati non al partito ma al leader del partito, ma servono anche i soldi raccolti dallo stesso partito. E a differenza della Leopolda, di tutte le Leopolde, ieri a Roma la sala era piena di un simbolo che raramente si vede negli happening dei renziani: il simbolo del Pd. E così arriva Renzi. Parla agli imprenditori. Scherza con Matteo Orfini. Con Andrea Orlando. Elenca le cinque vere priorità del governo (Giustizia, Scuola, Pubblica amministrazione, Fisco, riforme istituzionali). Lancia alcuni video sugli schermi per esplicitare meglio la sua narrazione. Mette in fila, con sapienza, prima il famoso video di Bob Kennedy sul pil che non può essere l’unico indicatore per stabilire la felicità di un paese (ma poi Renzi dice che purtroppo del pil bisogna tenerne conto e oggi i dati economici vanno male, ammette il premier: “Gli indicatori non sono positivi in nessun campo, oggi”). E poi, subito dopo Kennedy, ché se l’avesse saputo Veltroni, che c’era Bob, un salto lo avrebbe fatto ieri anche lui, arriva la famosa scena della ricerca della felicità. Con Will Smith che parla con il figlio. E gli dice quello che tutti ricordiamo: “Hey! Non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa. Neanche a me. Ok? Se hai un sogno tu lo devi proteggere. Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non la sai fare. Se vuoi qualcosa, vai e inseguila. Punto”. Il messaggio che Renzi offre agli imprenditori è questo: noi proviamo a offrirvi la felicità. Il paradiso che in tanti vi hanno promesso e in pochi vi hanno fatto vedere. Noi vi diciamo che l’Italia va in Europa per essere rispettata (applauso uno). Noi vi diciamo che vogliamo dare il diritto di avere diritti anche a chi i diritti oggi non ce li ha (supercazzola promossa: secondo applauso). Noi vi diciamo che il principio del reintegro è assurdo (altro applauso). Vi diciamo che la riforma del lavoro e dell’articolo 18 servono anche perché i giudici devono fare i giudici e gli imprenditori devono fare gli imprenditori (il salone delle Fontane viene giù come dopo un cucchiaio di Totti). Vi diciamo che finora la sinistra ha trattato il mercato del lavoro come un trapezista in un circo che non ha più la rete, e che la sinistra fino a poco tempo fa di fronte a un trapezista che non aveva sotto di sé la rete non sceglieva di riparare la rete ma sceglieva di chiudere il circo (metafora complicata, ma molti applausi, forse di circostanza). Vi diciamo (altro cucchiaio) che un’azienda oggi deve avere il diritto a fallire, e questo è un principio fondamentale (lacrime dalla curva sud), perché anche dai fallimenti possono nascere dei successi e agli imprenditori bisogna dare il diritto di fallire, come succede in America (“bravo, bravo”). Vi diciamo che io le fabbriche non le voglio occupare ma le voglio riaprire. Vi diciamo che le tasse – un secondo dopo aver mandato in onda lo Sketch di Antonio Albanese, “le tasse sono come la droga: se le paghi una volta le paghi per sempre” – non sono come dice Albanese ma sono ancora troppo alte e vanno abbassate ancora, ancora, ancora (Francesco Totti non c’è, ma ora è come se ci fosse). Vi diciamo che troviamo assurdo che per combattere l’evasione fiscale vadano messe le guardie fuori dal negozio (parte l’ola). E vi diciamo che noi non siamo qui perché siamo bravi ma perché l’Italia era stanca: noi non siamo la causa di quello che è successo, siamo l’effetto.

C’era tutto questo ieri a Roma. In mezzo a molte cravatte forse troppo grandi. Anti renziani che si sono sentiti in dovere di finanziare il renzismo come un peccatore si sente in dovere di confessarsi la domenica a messa. E molti renziani che per tutta la sera hanno osservato quella platea con lo sguardo del libanese di Romanzo Criminale che, osservando negli occhi il Dandy, pensa: “ Pijamose Roma e pijamosela mò, prima che 'o faccia quarcun'artro!”. La minoranza del Pd forse direbbe che la cena di ieri non è tanto diversa da un capitolo di una specie di Romanzo Criminale. Ma ovviamente sbaglia. E’ la nuova politica. Funziona così. Non c’è scelta. E la notizia oggi è che “er pupone” di Palazzo Chigi, di fronte a quella platea, non può non aver pensato che in fondo il suo Pd, oltre a Roma, sta cominciando sempre di più a pijarse l’Italia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.