Il presidente ucraino Petro Poroshenko visita le postazioni dell'esercito nei pressi di Donetsk (foto AP)

Quella voglia di golpe che serpeggia sul fronte in Ucraina

Andrea Sceresini

Ai battaglioni che combattono per Kiev non piace che alle elezioni vincano i moderati. “L’esercito è stanco”.

Mariupol’. La mensa ufficiali della caserma di Sloviansk, nell’Ucraina orientale, è imbandita di cibo, cognac e sigarette. E’ notte, la città è addormentata. A capotavola siede Alexander P., comandante del battaglione Kiev, ex contractor in Iraq, un’intera vita trascorsa sotto le armi. Il clima è teso, si parla di politica: i risultati delle elezioni non sono stati buoni. L’estrema destra ha segnato il passo, mentre Petro Poroshenko e i suoi amici oligarchi si sono assicurati una solida maggioranza parlamentare, rastrellando a man bassa circa il 45 per cento dei voti. E’ l’eterno gattopardo ucraino del dopo Yanukovich: anche questa volta si è parlato di cambiamento – anche questa volta non cambierà nulla. “L’esercito è stanco – annuncia il comandante P. – Noi siamo qui a combattere, mentre tutti quei signori, lassù a Kiev, non fanno altro che ingrassarsi. L’Ucraina ha bisogno di una nuova Maidan, e la prossima Maidan la faremo noi militari”.

 

I vertici delle Forze armate sono in stretti rapporti con le principali formazioni della destra oltranzista, Svoboda e Pravy Sektor, dalle cui file provengono migliaia di volontari impegnati al fronte. Teste rasate, simboli pagani, passamontagna calati sul volto e grilletto facile: un piccolo contingente di aspiranti Rambo, che oggi come non mai si sentono pugnalati alle spalle dal loro stesso governo. A Mariupol’ – cinquecentomila anime sulle coste del mar d’Azov – il clima è rovente: i separatisti si sono trincerati a meno di quindici chilometri dal centro cittadino. Sono ben armati, numerosi e agguerriti. Ogni giorno le loro artiglierie martellano i check point dei governativi. I soldati scrutano il cielo con sguardo atterrito, aspettandosi il peggio. Anche la popolazione è in preda al panico. Il giorno delle elezioni due terzi degli aventi diritto al voto ha disertato i seggi: i più si sono rintanati nei sotterranei, mentre sui tetti dei palazzi hanno preso posto i cecchini. “Oggi più che mai l’Ucraina fa parte dell’Europa”, ha annunciato Poroshenko alla tv. Ma i risultati della diatriba politica appaiono da queste parti come qualcosa di molto lontano e molto insignificante. “Mariupol’ come Saigon”, dicono i commentatori locali: forse hanno ragione. Sui giornali è apparsa la storia di Irina Dovgan, “l’eroina di Donetsk”, che ebbe la pessima idea di schierarsi dalla parte sbagliata nel posto sbagliato: la capitale della Repubblica del Donbass. Catturata dai separatisti, Irina fu picchiata, presa a calci e legata a un palo con un cartello appeso al collo: “Io ho ucciso i vostri figli”.

 

Vicende di questo genere sono una manna dal cielo per la propaganda di Kiev, che descrive l’arrivo dei filo russi né più né meno come la calata dei lanzichenecchi. Ogni villaggio ha i propri “martiri”, le cui tristi disavventure vengono raccontate agli scolari durante le lezioni. Ovunque fioriscono le organizzazioni patriottiche: a Sloviansk esiste la “Fratellanza studentesca”, che accompagna i bambini delle scuole a visitare le prime linee. “Vogliamo sensibilizzare le future generazioni – spiegano i leader del gruppo – L’Ucraina è un paese in guerra: è giusto che ognuno contribuisca secondo le proprie possibilità”.

 

[**Video_box_2**]Il termine “separatista”, considerato troppo morbido, è ormai caduto in disuso. Oggi si dice “terrorista”: chi non si adegua viene guardato con malcelato sospetto. Anton ha 21 anni e milita in un club universitario pro occidente. Studia Architettura all’Università di Mariupol’: il suo mito è Stepan Bandera, il guerrigliero nazionalista che si alleò con Hitler contro le armate di Stalin. “Kiev ci ha abbandonati – racconta –, i filo russi sono alle porte della città e ogni giorno si fanno più vicini. Noi studenti siamo pronti a resistere. Combatteremo fino all’ultima cartuccia, al fianco dei nostri soldati. Ma non sarà facile: il nemico è bene armato, noi no”. Lo scontento serpeggia nell’aria, specie attorno alle caserme. La regione di Dnipropetrovsk, nel centro dell’Ucraina, è controllata dalle milizie dell’oligarca locale, Igor Kolomoisky, boss dell’acciaio e delle ferrovie. Ben due battaglioni – il “Dnipro 1” e il “Dnipro 2” – sono finanziati grazie ai suoi capitali. Per ora supportano il governo di Kiev, ma la loro fedeltà potrebbe non reggere l’inverno. Questione di soldi, di opportunità, di equilibri geopolitici. E’ la dura legge della guerra civile: uno spietato codice non scritto, che rimescola alleanze e non conosce divieti – soprattutto quando le cose cominciano ad andar male.

 

Le urne e il campo di battaglia

 

Quel che è certo, almeno per ora, è che la vittoria degli ucraini appare sempre più lontana. I separatisti fanno la voce grossa: domenica scorsa sono andati a loro volta alle urne per eleggere il proprio premier. Ha vinto – col 79 per cento dei voti – il primo ministro in carica Aleksandr Zakharchenko, ex lavoratore delle miniere e leader del battaglione ribelle Oplot: la sua riconferma appariva scontata. Nella stessa giornata sono stati designati i cento membri del Consiglio supremo, il Parlamento locale, che resteranno in carica per quattro anni. La lista fondata da Zakharchenko, il “Partito della repubblica di Donetsk”, ha rastrellato il 70 per cento dei consensi, mentre l’altra formazione in lizza, “Donbass libero”, ha dovuto accontentarsi delle briciole. “Le consultazioni di Donetsk e Lugansk sono la prova definitiva della nostra totale indipendenza da Kiev”, ha annunciato Zakharchenko. I fatti sembrano dargli ragione: nonostante le proteste ucraine, Mosca si è subito affrettata a riconoscere come valide le consultazioni del Donbass.

 

Nel frattempo i cannoni continuano a tuonare: i ribelli sono sul piede di guerra e si preparano a una nuova avanzata verso occidente. Il primo passo sarà la conquista dell’aeroporto di Donetsk, entro i cui edifici si combatte senza sosta da ormai quattro mesi. I “cyborg” ucraini si sono asserragliati nei tunnel sotterranei, ma la loro resa appare ormai questione di giorni. “La battaglia dell’aeroporto è una pratica già archiviata – assicura il comandante “Givi”, al secolo Mikhail Tolstykh, il più brillante tra gli ufficiali separatisti – Basterà una piccola spallata e gli ucraini fuggiranno a gambe levate. Noi siamo già pronti ad avanzare in altre direzioni, spingendoci il più possibile verso ovest”. La tappa successiva sarà probabilmente Mariupol’. Poi toccherà a Sloviansk e Kramatorsk, sulla strada per Dnipropetrovsk. A quel punto il governo di Kiev dovrà cominciare a guardarsi allo specchio: forse l’immagine riflessa avrà il volto arcigno di un comandante militare.

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