Matteo Renzi

Renzi, le cene, le cronache indignate del Corriere, il Fatto che quasi pare il Wsj

Stefano Di Michele

Chi è? Di che si occupa? Perché è qui?”. Ieri il Corriere della Sera, a bordo cena (quella con Renzi a raccattar soldi), si posizionava tra certi disegni di George Grosz, di grassi e orridi capitalisti attavolati, e la beata memoria dei “forchettoni” scudocrociati di  Pajetta.

Chi è? Di che si occupa? Perché è qui?”. Ieri il Corriere della Sera, a bordo cena (quella con Renzi a raccattar soldi), si posizionava tra certi disegni di George Grosz, di grassi e orridi capitalisti attavolati, e la beata memoria dei “forchettoni” scudocrociati di  Pajetta. Il giornale della bella borghesia si faceva impressionare, con accorto studio sociologico sul sottostante parcheggio (“Fuori sfilano Porsche Cayenne, suv e un paio di Jaguar”: pareva l’evocazione di certi titoli del benemerito bollettino “Il tranviere rosso” negli anni Sessanta, tipo “Mensa o greppia” o “La vacca grassa”), dal gran numero di ad (amministratori delegati: ce n’erano più che foglie di rughetta, a legger la virile cronaca di Maurizio Giannattasio) accorsi a far ala al giovin signore del Pd. Si registrava gran turbamento, a pag. 8: tra arbitri e fu berlusconiani e danarosi di solido appetito. Quelli, figurarsi: “Siamo qui per ascoltare”. Oppure, pratici: “Scarica l’azienda”. Chiaro che l’intendimento, più che concorrere al democratico finanziamento, era la speranza di poter salvare Renzi dalla possibilità di sedersi per sbaglio su una vagante scamorza o di passargli lo zucchero per il caffè: “Matteo, quanti cucchiaini?”. Si fanno apposta – diciamo, avrebbe detto D’Alema: che in ogni modo da Vissani ci andava per fatti suoi – le cene da mille euro a cranio: più che per farli incontrare, trattasi di cene per farsi notare. Del resto, non potendo più contare sulla massa dei militanti satollati a salamelle e poco memorabile “trippa alla Bettino”, là dove la quantità generosamente copriva la minore qualità, e non essendo Matteo leninisticamente arrivato da Pontassieve a Roma sul treno blindato degli industriali tedeschi, la pecunia bisogna farsela dare da chi ce l’ha – avesse pure, che Dio lo perdoni, una Porsche Cayenne – come da antica massima popolare, praticamente proletaria: i soldi si prendono dove stanno e si mettono dove servono.

 

Chi ha prenotato un tavolo da dodici, chi ha mandato il figliolo in rappresentanza, chi si è presentato giusto in transito verso il mese di relax sulle spiagge esotiche: per spizzicare il catering di Farinetti e magari il capo del governo. I “renzini”, come li chiama il Fatto (la cui cronaca, peraltro, rispetto al Corriere, pare quasi un saggio del WSJ a confronto con uno di “Fabbrica e Stato”), per ovvia convenienza e forse irrefrenabile vanità si sono presentati in massa alla democratica e poco economica ristorazione – si addentava la tartina e Renzi parlava, lo spaghetto e quello spiegava, la verdura e il premier non si zittava: ancora alle 23, ha cronometrato con meneghina precisione il Corriere, gli ospiti masticavano e l’altro era orante (scena degna del pasto dei monaci ne “Il nome della rosa”). Persino giusta, la nostalgia per ciò che fu, per non dire dell’ovvio moralismo che su quel cinico di Renzi, in funzione da guest star, si abbatterà. Ma come rispondeva il buon Ugo Sposetti, pratico amministratore dei Ds e gran teorico del fundraiser, a chi gli rimproverava di frequentare banchieri e danarosi vari: “Ma col lavoro che faccio con chi dovrei parlare, con quelli sotto i ponti?”. E allora da chi dovrebbe farseli dare i soldi, Renzi, dagli orchestrali dell’Opera? Certo: belle le pagnottelle della casta militanza. Giusto il tramezzino del funzionario. Anni fa, la compagna Ségolène Royal (in Hollande) era ospite alla festa fassiniana dell’Unità, le venivano generosamente serviti piatti di porchetta che lei, con studiata distrazione, fingeva di scordare. Quelli la rincorrevano e accanitamente la rifornivano: compagna, la porchetta! Ma al Corriere della Sera si sono impressionati lo stesso: de Bortoli, si sa, oltre il toast mai va.

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