Ah eterna Italia… Antologia del nostro disamore contorto e indiretto
Che il discorso, la deplorazione, lo scoramento, ma anche l’acuta analisi morale e storica, circa il carattere e il destino dell’Italia e degli italiani siano interminabili, è cosa nota. Interminabili perché (non si può negare) appassionanti.
Che il discorso, la deplorazione, lo scoramento, ma anche l’acuta analisi morale e storica, circa il carattere e il destino dell’Italia e degli italiani siano interminabili, è cosa nota. Interminabili perché (non si può negare) appassionanti. I viaggiatori stranieri hanno detto molte verità su di noi, da Goethe a Camus: eppure è la nostra stessa letteratura che trabocca di autodenunce, al punto che proprio questa è una delle sue principali caratteristiche. Da Dante a Leopardi e Manzoni, a Gramsci e Gobetti, Gadda e Lampedusa, Arbasino e La Capria, sembra che tutto il repertorio dell’autoaccusa sia stato esplorato.
Quando vent’anni fa, all’Università di Città del Messico, nel corso di un dibattito, un’italiana trapiantata nel paese di Zapata e Villa mi accusò con veemenza di essere un antiitaliano, mi fu facile rispondere che questo faceva di me un vero italiano e che lei, così patriottica, non leggeva né i nostri scrittori né i nostri giornali.
Noi italiani ci amiamo in modo contorto, sofferente, indiretto. Parlando male di noi stessi, nascondiamo la nostra commozione, il nostro dolore per il fatto di non essere come potremmo e dovremmo essere, come siamo stati nei periodi migliori del nostro passato.
Geno Pampaloni intitolò “Noi non amiamo la patria” un suo memorabile saggio, nel quale spiegava che anche in dichiarazioni di non amore come queste, si esprime un amore. Per l’Italia, sì, non per la patria italiana. Questo assillo è così difficile da estirpare che anche pochi giorni fa, parlando con Elisabetta Rasy e Raffaele La Capria, ci siamo ritrovati sempre allo stesso punto: senza pensarci molto, l’accordo è subito arrivato quando qualcuno di noi ha detto che amiamo l’Italia fisicamente, esteticamente, non moralmente. Come entità morale e politica, come patria, come nazione, l’Italia per gli italiani non significa molto, ci mette anzi in imbarazzo e ci respinge. Le classi dirigenti dell’Italia unita le vediamo e le sentiamo tutte come un corpo estraneo che poi è invece, nello stesso tempo, la manifestazione più esemplare dei nostri vizi. E’ il popolo che produce i suoi governanti corrotti e i governanti a loro volta hanno corrotto un popolo. Può essere una dialettica questa fra simili, uguali e complici? E’ davvero una strana dialettica, da cui invece che dinamismo viene immobilismo.
Avendo io stesso messo insieme nel 1998 l’antologia “Autoritratto italiano” (testi da Umberto Saba a Piergiorgio Bellocchio) e nel 1999 “Nel caldo cuore del mondo. Lettere sull’Italia” con Pampaloni, Sandro Veronesi e Andrea Zanzotto, ora mi precipito a leggere l’antologia “Da un’altra Italia” di Laura Bosio e Bruno Nacci, che contiene “63 lettere, diari, testimonianze sul ‘carattere’ degli italiani” (Utet, 297 pp., 14 euro). Qui gli autori antologizzati vanno da Mazzini, Cristina Trivulzio di Belgiojoso e Massimo D’Azeglio a Ungaretti, Papini, Biagio Marin, Maria Montessori, Prezzolini, Savinio, Papa Montini, Moravia, Morante, Ortese, Eugenio Scalfari e Andrea Barbato: nomi, questi ultimi, accanto ai quali avrei visto bene, per esempio, quelli di Bocca, Ceronetti, Garboli, Parise…
Ma qui sono caduto in errore, nel tipico tic di ogni lettore di antologie, che invece di guardare a quello che c’è, guarda a quello che non c’è. Gli stessi curatori tuttavia, dopo aver deplorato una cosa simile, ammettono che è anche giusta perché così i vuoti antologici tengono in esercizio lo spirito critico di chi legge.
[**Video_box_2**]Per la presente antologia sono stati scelti di preferenza scritti privati, lettere e diari, dove si dicono di solito più verità che nei discorsi pubblici. Nella loro introduzione Bosio e Nacci citano anche altro. Riporto due brani che mostrano, ahimè, che il carattere degli italiani esiste davvero e niente lo modifica. Sembra che la Storia (anche questo è stato detto più volte) scorra su di noi lasciandoci più o meno come eravamo prima. Anche gli aggiornamenti, le modernizzazioni, le cosiddette mutazioni sono soprattutto una recita. La sostanza rimane la stessa.
Nel 1786 Goethe scrisse nel suo diario: “E’ incredibile come qui nessuno vada d’accordo con nessun altro; le rivalità provinciali e cittadine sono accesissime, come pure la reciproca intolleranza; i ceti sociali non fanno che litigare, e tutto ciò con una passionalità così acuta e così immediata che, si può dire, da mane a sera, recitano una commedia”.
E nel 1900 il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola scrisse in una lettera a Benedetto Croce: “Ora per noi italiani che viviamo fuori delle grandi correnti della storia (la sola cosa veramente storica per noi è il Papa!), che non abbiamo da mettere in scena che maffiosi (sic!), camorristi, prefetti ladri, processi scandalosi, impotenza amministrativa, insipienza politica, dotti ciarlatani, plebi brutali, politicanti da caffè (compresi quasi tutti i socialisti), è quasi impossibile di orientarsi su le condizioni del mondo”. Parole alle quali Croce rispose con questo stoico, antistorico, proposito: “Continuare a fare il proprio lavoro come se vivessimo in un paese civile”.
Dio mio, di che cosa è fatta la storia degli italiani? Che cosa abbiamo fatto nel secolo che da allora è passato? Quanto a società e politica, noi italiani possiamo anche chiudere bocca. Da dire non c’è altro. Siamo tanto realisticamente pratici da non fare niente per la cosa chiamata Italia. E questo avrà pure un senso. Anche il nostro amore estetico è falso. Per noi il paese in cui viviamo non esiste né fisicamente né moralmente.
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