Lo specchio libico
L’incontro dannato tra due opposti. Così Alessandro Spina raccontò la trasformazione del mondo arabo. Che è un po’ anche nostra.
Prima dell’inizio dello spettacolo, in occasione di una rappresentazione teatrale, Vittorio Sereni, con un tono provocatorio e irriverente, presentò a sua moglie un caro amico, un gentiluomo canuto, ma alto e bello come un principe arabo: “Cara, ecco Alessandro Spina, colui che sta provando a fare sentire in colpa gli italiani per i loro crimini coloniali. Senza successo, ovviamente”.
Basili Shafik Khouzam, questo il nome di battesimo dell’uomo, aveva già pubblicato una decina di libri, tutti pressoché sconosciuti al pubblico italiano. Ma le parole taglienti usate dal poeta di Luino non erano una novità per quello scrittore arabo trapiantato in Italia. Spina era già stato avvisato in altre occasioni da voci autorevoli. Come quando, nel 1960, Alberto Moravia gli consigliò di lasciar perdere, di non ostinarsi a inventare storie rivangando avvenimenti fino ad allora rimasti occultati agli italiani; questi, gli suggerì Moravia, “preferiscono preservare la propria ignoranza”. Spina, però, non volle mai scrivere per il pubblico; né tantomeno per far soldi, dato che nella vita si guadagnava da vivere facendo l’imprenditore. Scrisse libri per diletto e per vocazione – con un ego fervido come quello di chiunque abbia una certa vena artistica o creativa – o per la sua ristretta schiera di amicizie. “Dal 1953 al 1961 ho avuto un solo lettore: Camillo Togni. Adesso ne ho due: Togni e Cristina Campo”, confessò senza ironia alla sua amica di penna Vittoria Guerrini nel 1963.
Di certo, Spina scrisse per raccontare il passato e un mondo, il suo, saturo di fascino e di terre lontane, come per esempio la Cirenaica; ma anche con la pretesa di scavare a fondo l’animo umano – arabo o europeo che fosse – scovando gli angeli e i demoni che lo pervadono. Lo fece da una posizione privilegiata, da profondo conoscitore di entrambe le sponde del Mediterraneo avendo vissuto in Libia da giovane prima di trasferirsi in Italia. Eppure non scrisse mai per il lettore, da lui “dimenticato”, come annotò nel suo diario: “E non so proprio come si possa oggi scrivere qualcosa di decente senza dimenticare tutti”.
Nel 2011, allo scoppio delle primavere arabe, i giornalisti italiani si ricordarono di lui e provarono a intervistarlo. Lui richiuse gentilmente la porta della sua abitazione in Franciacorta, dove si era ritirato negli ultimi anni di vita. “Mi occupo di storia, non di cronaca”, rispose laconico ai cronisti. Morì qualche tempo dopo, nell’estate del 2013, mentre in Libia e nel resto del mondo arabo si rinnovavano morte e combattimenti, dapprima al grido di “Aysh, hurriya, adala ijtimaya” (pane, libertà, giustizia sociale), poi in nome di una guerra di potere e di religione. Sulle pagine di Nation, il giovane poeta e traduttore italo-iraniano André Naffis-Sahely, curatore della traduzione inglese dell’opera di Spina, ha giustamente notato come, a distanza di quasi un secolo dagli anni dell’invasione italiana in Libia, di fronte alle rivolte della primavera araba, oggi lo scrittore libico avrebbe probabilmente sorriso beffardamente. Con quale diritto, avrà pensato Spina, tentare di dare un senso al presente quando si è deliberatamente ignorato il passato?
Come ben pochi altri, Spina raccontò l’individuo, prima ancora che la storia, fotografandolo in un periodo di profonda trasformazione, sospeso nel tempo. La Libia rappresentata nei suoi racconti è quella del passaggio cruciale dall’èra “medievale”, fatta di religione, legami clanici e tradizioni arcaiche, a quella moderna, culminata con il colpo di stato del 1969 da parte del colonnello Muammar Gheddafi e dominata dal petrolio. Con toni drammaturgici e con uno stile recitativo proprio piuttosto di un librettista, Spina rappresentò per il lettore-spettatore il contatto culturale tra occidente e oriente, tra invasore e invaso. Per quanto si trattasse di romanzi storici, nonostante il richiamo continuo a fatti realmente accaduti, non c’è presunzione pedagogica nell’opera di Spina. Il suo intento non era nemmeno quello di fornire una spiegazione antropologica o sociologica del traumatico confronto tra due mondi. Certo, come Edward Said lo scrittore libico intende denunciare il pregiudizio dell’occidente industrializzato nei confronti del mondo arabo. La demolizione delle tesi imperialiste, della civiltà ricca e avanzata che vede nel colonialismo una missione salvifica, è condivisa da Spina. Ma la sua è una testimonianza di chi ha vissuto nelle terre lontane di cui parla nei suoi racconti, scevra da ogni ideologia.
Per questo motivo, l’innovazione proposta da Spina sta nello studio dell’uomo, colto nell’impossibile perlustrazione degli antri più remoti della propria coscienza, immagine riflessa degli eventi storici che sottendono alle vite dei protagonisti. La vita privata degli attori che, come su un palcoscenico, si muovono nello spazio desertico fatto di bazar, oasi remote o antiche rovine ellenistiche, è protagonista assoluta. L’invasione dello straniero arrogante e sanguinario è solo una delle variabili che incidono sul destino dei personaggi. Con un’attenzione quasi dostoevskiana, Spina presentò un quadro al limite del fatalismo; il diverso – l’indigeno, così come di converso l’uomo occidentale – non diventa comprensibile, non dà risposte e resta imperscrutabile, ritraendosi nella sua vita scandita e pervasa dal religioso e dal tribale a un tempo. Nei suoi racconti, Spina non denuncia esplicitamente l’aggressione coloniale, mantiene le distanze dal terzomondismo e neppure fa un’apologia della difesa indigena, della resistenza. Ciò che lega l’occidentale all’orientale è solo l’umanità, la stessa natura invisibile fatta di gioie e dolori quotidiani della vita di un uomo, sia esso un soldato dell’esercito italiano o un mercante di stoffe di Bengasi. Il risultato è un quadro decadente, misterioso, fatto di illusione e incomprensione reciproca. In alcuni frangenti, gli eventi che si susseguono nelle vite private dei protagonisti si intrecciano con quelli più ampi e incontrollabili della campagna coloniale in Libia; in altri, invece, questi restano paralleli, nemmeno scalfiti dalla storia, intesa come risultato di un disegno politico più ampio, fatto di desiderio di conquista da una parte e di resistenza allo straniero dall’altra.
Lo stesso Spina è figlio di quel tempo sospeso. Era nato in Cirenaica l’8 ottobre 1927, suo padre era un commerciante di tessuti di Aleppo, Siria settentrionale, che a 17 anni aveva abbandonato il proprio paese per trasferirsi proprio a Bengasi, all’epoca cittadina in espansione affacciata sul Mediterraneo e animata da circa 20 mila abitanti tra arabi e turchi. Nell’ottobre del 1912 la Sublime Porta aveva sottoscritto il trattato di Losanna con l’Italia riconoscendo l’autorità amministrativa e militare del Regno di Vittorio Emanuele III sulle distese desertiche di Tripolitania e Cirenaica. L’ambizione giolittiana di aggiungere l’Italia al novero delle grandi potenze europee aveva così posto fine a oltre 360 anni di dominio ottomano sulle due province. La conquista della “quarta sponda” da parte dell’Italia, esponeva d’altra parte la Sublime Porta a una fragilità sempre più evidente. Già deteriorato dalle guerre balcaniche, il più vasto impero dell’epoca finì per diventare il “grande malato d’Europa”, pronto a essere lentamente scarnificato dalle potenze europee e dalle forze centrifughe di un territorio troppo vasto per poter sopravvivere alle due imminenti guerre mondiali. Ma la resistenza araba, sostenuta e fomentata dai turchi, rese l’avventura italiana in nord Africa una campagna militare lunga e penosa. Roma dovette attendere il Ventennio fascista prima di piantare il Tricolore anche nell’entroterra libico. Il costo di vite umane fu immane e la repressione della resistenza, da parte delle truppe di re Vittorio Emanuele, efferata: un terzo della popolazione locale fu massacrata; decine di migliaia di libici furono costretti in campi di concentramento; centinaia di chilometri di frontiera lungo il confine con l’Egitto vennero chiusi con il filo spinato per impedire che da lì potessero giungere rinforzi o aiuti ai rivoltosi. Il “paladino” dell’impresa, Rodolfo Graziani, riuscì persino a dare la caccia, con successo, a Omar al Mukhtar, una personalità quasi mitologica della Resistenza libica. Fu catturato e ucciso nel 1931 e da allora è diventato un martire per il nazionalismo arabo.
Nel 1939, quando Benito Mussolini annuncia l’annessione definitiva di Tripolitania e Cirenaica, Alessandro Spina ha 12 anni e un terzo della popolazione di Tripoli e Bengasi è composta da coloni italiani. La guerra lambisce solamente i grandi centri urbani, interessando soprattutto le oasi dell’entroterra. Bengasi resta così sospesa tra passato e futuro: da una parte ancorata ai tradizionali istituti religiosi che ne contaminano la vita sociale, dall’altra attratta dal dinamismo positivista proprio del colonialismo occidentale, dal sogno di uno stato e di una società moderni. E’ allora che suo padre decide di mandare il giovane Alessandro in Italia per continuare gli studi. Spina trascorre gli anni più importanti della sua formazione umana e intellettuale prima tra Busto Arsizio e Salsomaggiore, poi stabilmente a Milano dal 1954.
[**Video_box_2**]Le storie narrate nell’intera raccolta delle sue novelle libiche, redatte da quel momento in poi, trovano nell’illusione, nella propria struttura ambigua e labirintica il proprio collante. Il titolo dato al suo compendio di racconti, “I confini dell’ombra” chiarisce il messaggio di Spina: l’oscurità che avvolge culture diverse genera l’inganno, creando un circolo vizioso. Questo velo d’ombra irretisce e ostacola la comprensione dell’altro da sé, fino alla paralisi. “Il giovane maronita aveva mentito”, è l’incipit della prima novella della raccolta. E’ la storia di un mercante cristiano (come l’autore) che sbarca a Bengasi nel 1912 e vi resta fino alla morte, avvenuta negli anni Sessanta, quando l’economia del paese vira verso il petrolio. “Da una città medievale a quella sorta di ‘città del futuro’ che Bengasi sta diventando”, spiega Spina in una lettera del 1965, “o, quello che più importa, da una concezione religiosa della vita alla febbre del denaro. Storia di una decadenza dunque, come qualunque storia da Adamo in poi!”. “Il giovane maronita”, primo racconto dell’intera raccolta, non lascia speranze. L’ufficiale italiano arrivato a Bengasi, l’esuberante capitano Martello, incarna lo spirito dei pomposi salotti dell’Italia borghese di quegli anni. Imbevuto della propaganda coloniale e della missione “civilizzatrice” che il pensiero positivista in quegli anni assegna alle grandi civiltà industrializzate, il giovane ufficiale sbarca in Cirenaica insieme ai suoi commilitoni (“orgogliosi come dèi”) con il suo bagaglio culturale classicista, da sciorinare nei salotti cortigiani (“O Tripoli, città di fellonia, tu proverai se Roma abbia calcagna di bronzo e se il giogo ferreo sia”, recita la “Canzone della Diana” di Gabriele D’Annunzio posta a preambolo di un capitolo del racconto), ma con il desiderio, peraltro non condiviso dai suoi superiori, di penetrare la cortina spessa che lo separa dall’indigeno e di scoprirne i segreti, soprattutto quelli dell’animo. Impresa vana, e qui sta il tono decadente dell’opera, chiave di lettura dell’intera impresa coloniale in Cirenaica e Tripolitania e, va da sé, dell’incontro conflittuale contemporaneo tra le due sponde del Mediterraneo. Così come il gigantesco mercante Semereth tenta inutilmente di consumare il matrimonio con la sua minuta e bellissima sposa bambina Zulfa, che si ritrae a ogni sforzo dell’orrendo uomo che ogni sera tenta di conquistarne l’amore con preziosi regali, lo stesso accade al capitano Martello con il mondo arabo nel suo tentativo di carpire gli angeli e i demoni che lo attanagliano. Eppure lui, ne era convinto, portava la legge e l’autorità del mondo civilizzato, del re, delle glorie di Roma. Tutto inutile. Quel mondo lontano resta avvolto in una fitta coltre di rifiuto e mistero, che preferisce i legami ancestrali basati sulle regole ferree delle comunità arcaiche al riconoscimento della bellezza e dell’autorità ricca e prestigiosa come quella che Roma, magnanimamente, offre al villico arabo. Ma ecco il tragico punto di contatto, personificato proprio dal capitano Martello e dal mercante Semereth. E’ l’ufficiale a riconoscerlo: “Ho ostentato il peggio che potevo trovare in me e nella civiltà da cui provengo – sembrava facessi penitenza recitando i miei peccati. La volontà, gli sforzi, sono sterili come desideri, nutrono anch’essi l’impazienza e non accorciano di un passo la distanza che ci divide da tutto ciò che conta. Pare che Semereth facesse quotidianamente dei doni alla sposa bambina: la nostra volontà e la forza sono doni violenti coi quali noi militari cerchiamo inutilmente di sedurre la vita ingenua di questo popolo”. La seduzione e il rifiuto: l’incontro tra i due mondi è avvilente come un rapporto amoroso fallito all’origine. Ma anche il tema del doppio, del gioco di specchi tra due civiltà, in cui l’altro, scoperto uguale a sé, diventa insopportabile.
Spina però va oltre, non si limita a illustrare la distanza tra occidente e oriente: con il suo attento binocolo sposta l’attenzione tra gli stessi arabi, mettendo a fuoco anche la fase di transizione che le loro istituzioni sociali vivono in quegli anni turbolenti. Lo scontro generazionale dell’inizio del XX secolo descritto dallo scrittore italo-libico è la fotografia dello scarto ancora attuale tra giovani innovatori e anziani difensori di un mondo antico, quello delle campagne e della periferia. Così il fratello del giovane maronita, Armand, è il ritratto del giovinetto arabo attratto dai fasti dei salotti bohémien europei, dalla loro agiatezza e dal loro fascino. Come un’ape col miele, Armand frequenta i militari italiani, le loro dame e le famiglie borghesi dei coloni giunti in città. Parla del suo desiderio di viaggiare, di trasferirsi a Parigi, di essere loro, insomma. Agli occhi del fratello, che patisce più di tutti l’incontro-scontro tra i due mondi, Armand è l’immagine dell’orrenda imitazione dell’occidente, un’ombra che copre come un manto le coscienze arabe. Ma soprattutto è un insulto alla propria storia e al proprio clan.
L’attualità dei racconti spiniani è quindi ancora più che viva. Sta tutta in quella pietas che unisce i popoli del Mediterraneo. Così come il mercante hag Semereth si lascia morire unendosi ai ribelli dopo un’oscura tragedia familiare, il suo alter ego d’oltremare, il capitano Martello, scompare misteriosamente un giorno, mentre passeggia per le rovine ellenistiche di Cirene, sopraffatto dalle vestigia di quelle civiltà secolari. “Un demone mi tormenta. Quello di scambiarmi col gigante [Semereth]. E’ come se le persone e gli oggetti in possesso di Semereth fossero geroglifici che mi nascondono un segreto linguaggio umano: ne cerco la chiave con la caparbietà di un dotto e lo sconsiderato ardore di un amante”, dice Martello. Quale prospettiva, allora, è più attuale se non quella spiniana concentrata sullo studio dell’io, dell’individuo che vive in un mondo in transizione, come quello mediorientale delle “primavere” (diventate “inverni” nella nuova vulgata mediatica), dove le masse arabe sembrano più alla ricerca del leader che di una presa di coscienza collettiva, che si limita in questa fase storica, come capita a un giovane immaturo, a una grottesca e talvolta repressiva e anti democratica imitazione dello stato nazionale di tipo occidentale? Forse, quel sorriso beffardo di Spina è un ammonimento affinché si cambi prospettiva nel modo di guardare al mondo arabo. Comprendendo che la fase di transizione in atto in nord Africa tocca da vicino l’occidente non solo per la vicinanza geografica. Il tormento del capitano Martello di sostituirsi al suo doppio, il mercante Semereth, ci insegna che la lotta del mondo arabo per compiere la propria inevitabile trasformazione è in fondo anche nostra, perché esige la conoscenza di sé, raggiungibile solo nello rispecchiarsi nell’altro.
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